BANCHIERE
Pubblicato su Rivista Informatica "GRAFFITI on line" (www.graffitionline.com),
del mese di dicembre 2020 con il titolo “LA MONETA, I BANCHIERI E LE
BANCHE”,
https://www.graffiti-on-line.com/home/opera.asp?srvCodiceOpera=1957
Tutto ha inizio da dei semplici scambi di merci. Dagli scambi delle popolazioni
nomadi ai grandi istituti finanziari si gioca tutta la nostra civiltà.
Lo scambio è sempre esistito nel mondo e ritorna alla moda nei paesi occidentali
attraverso delle associazioni che lottano contro lo spreco e la mondializzazione.
Ma già da quei tempi lontani è stato necessario organizzare un sistema di scambi
basato su un valore di riferimento riconosciuto da tutti. E’ in questo contesto che
è comparsa nel mondo la moneta.
Sembrerebbe che agli inizi questa moneta abbia avuto un valore religioso,
protettore, simbolico. Ma quale moneta ? La più antica moneta di scambio, quasi
universale, è rappresentata da una conchiglia, tra l’altro ancora in uso all’interno
di certe tribù africane. Si tratta del cauri (1), dalle molteplici specie del gruppo
Gasteropodi, molto abbondante nell’Oceano Indiano. La sua forma arrotondata,
che ricorda il sesso femminile, non è stato certamente estranea alla sua fortuna.
In ogni caso, i Cinesi, dal 3500 prima della nostra era, l’hanno utilizzata nei loro
scambi commerciali, dopo essersene largamente serviti come amuleto. La sua
fortuna è dovuta al fatto che risulta molto difficile da essere contraffatta ed
occorrerà aspettare il 20° secolo in Europa e la sua imitazione in pasta di vetro
affinché la più antica moneta del mondo, certamente la più universale e la più
incontestata in ogni tempo, perda di un colpo tutto il suo valore.
Fin dagli inizi le conchiglie vengono stoccati in dei capannoni, gigantesche
casseforti, accuratamente protetti. Le conchiglie vengono perforate per infilarle
su delle cordicelle, per facilitarne il conteggio ed anche il trasporto. Vengono
anche pesate, perché determinati importanti acquisti vengono effettuati anche a
peso. Il cauri risulta la moneta corrente nell’Egitto predinastico, nell’India, alle
Maldive, dove i Portoghesi la immagazzinano. All’inizio del 16° secolo, i Tedeschi
la introducono massicciamente nell’est dell’Africa, dove peraltro era conosciuta
sin dall’11° secolo, attraverso i mercanti arabi, grazie alle loro importazioni dal
Maghreb o dal Vicino Oriente. Queste conchiglie servono, sia per il commercio,
sia per l’arte divinatoria. La ditta inglese Stuart & Douglas fonda la sua fortuna
sul suo traffico, ma saranno gli Olandesi che prenderanno la guida del mercato
internazionale del cauri nel 1699 ad Amsterdam ed i banchieri dei Paesi Bassi ne
controlleranno completamente il suo corso.
Per la Francia, che è stata una delle nazioni che ha praticato su scala industriale
la tratta negriera dal porto di Nantes, questa attività viene negoziata per mezzo
della conchiglia che, per forza di cose, viene introdotta in America, attraverso
della triangolazione degli scambi commerciali. A quell’epoca uno schiavo in buona
salute veniva valutato intorno alle 50 libbre di cauri.
Allorché l’Europa comincia a fabbricare il cauri in pasta di vetro, l’abbondanza
della moneta circolante viene a determinare la caduta del suo valore e nel corso
del 19° secolo tale mezzo di scambio viene progressivamente abbandonato a
favore della carta moneta. Anche se le conchiglie riappaiono successivamente, in
diverse parti, in occasione delle grandi crisi economiche, ad esempio nel 1930 in
alcuni paesi africani. Simbolicamente il cauri sopravvive nella scrittura cinese,
che l’utilizza in un pittogramma che indica l’atto del pagare, oppure nell’unità
monetaria del Ghana.
Ma altre derrate sono state nel tempo moneta di scambio. E’ specialmente il caso
del sale, che serve da paga ai legionari romani - da cui il nome di salario, dal
latino salarium - con il quale i soldati possono comprare delle mercanzie. Anche il
tabacco ha avuto per lungo tempo lo stesso ruolo in America del Nord (in
Virginia, nel Maryland e nella Carolina) al punto da essere dichiarato persino
moneta legale nel 1642: si poteva a quel tempo pagare con foglie o pacchetti di
tabacco, usanza che perdurerà per quasi un secolo. I fiori, le stoffe preziose,
come la seta, o le perle hanno avuto anche loro il ruolo di moneta. Ma in realtà
sarà la moneta metallica che conoscerà uno sviluppo eccezionale.
Nella Grecia antica ogni città conia la propria moneta di metallo. Fatto questo
che crea l’esigenza di cambiatori, al fine di consentire il commercio fra di loro.
Essi installano la loro attività sulle piazze pubbliche. Non ci sono allora né banche
né banchieri: i templi custodiscono il numerario (denaro contante) ed i preti lo
ripartiscono. D’altronde le monete mostrano l’effige degli dei, la civetta effigie
di Atena per la città di Atene, l’ape, dedicata ad Artemide, sulle monete di
Efeso.
Nell’antico Egitto sono gli scribi, funzionari stipendiati in natura dal potere
faraonico, che rivestono il ruolo di banchieri. I loro libri di contabilità ne sono la
testimonianza, anche se non avevano alcun rapporto con un qualsiasi numerario.
Non esisteva circolazione di moneta, ma tuttavia delle annotazioni minuziose
calcolate su delle unità di conto basate sulle riserve d’orzo, poi su quelle di rame,
ben prima che l’oro e l’argento fossero introdotti in Egitto da parte degli Assiri.
Anche se questi metalli preziosi, che costituivano un valore di riferimento, non
venivano di fatto impiegati nell’ambito degli scambi interni, essi servivano a
remunerare le carovane della Nubia e le navi fenice provenienti dall’esterno.
In Europa Occidentale, prima della conquista romana, sono le monete greche che
costituiscono la base degli scambi internazionali. Ma il denarius romano diventa
rapidamente la moneta unica del più vasto impero mai conosciuto in Occidente. I
cambiatori sono costretti a cambiare .. mestiere ! Prendono il loro posto dei
ricchi finanzieri incaricati di amministrare l’enorme traffico commerciale, la
raccolta delle imposte e dei tributi, l’amministrazione dei beni pubblici e gli
scambi delle mercanzie. Si mette in atto una vera e propria amministrazione
commerciale e finanziaria con la creazione di lettere di cambio, per evitare le
spese ed i rischi connessi con il trasporto del numerario. Questi finanzieri romani
sono effettivamente i primi banchieri dell’Occidente e Roma rappresenta la più
importante piazza finanziaria del mondo prima del 20° secolo.
Con la caduta dell’Impero Romano e conseguentemente la scomparsa di un
mercato unico intorno al Mediterraneo, controllato da una moneta quasi
universale, i problemi di gestione del denaro riprendono consistenza, generando
una proliferazione di monete di ogni specie, peso e valore. Ogni piccolo sovrano
europeo batte la sua moneta ed i cambiatori ricompaiono nelle città medievali o
nei luoghi delle grandi fiere, come quelle della Champagne o delle Fiandre. Alcune
monete tuttavia hanno il sopravvento sulle altre; è il caso del fiorino, del ducato,
della lira tornese (di Tours), del grosso , dello scudo e della piastra o del franco
(apparso nel 1360).
E’ a partire dal 13° secolo, durante un lungo periodo di prosperità e di progresso,
che riappaiono i banchieri, attività nella quale sono ancora gli Italiani ad eccellere
con i Lombardi ed i Fiorentini. Non a caso una delle strade della city londinese si
chiama Lombard Street ed anche a Parigi esiste una Rue de Lombards. Essi
forniscono all’Occidente un mezzo per guidare una crescita, sia economica, sia
territoriale, mai conosciuta sino ad allora. Così facendo si affrancano dalle
monete reali, inventando la propria moneta: le scritture ! Da quel momento si
inizia a commerciare a colpi di dichiarazioni di debito, di lettere di credito o di
cambio, di prestiti ad interesse. Si prende a prestito, si inventa il credito, si
evitano le scadenze a rischio, scambiandosi i debiti.
In questo gioco di scritture gli Italiani si rivelano i primi della classe. Essi, che
sono già dei commercianti provetti, per finanziare le loro enorme spese, si
raggruppano per investire, suddividendo i rischi connessi. Questo è in particolar
modo il caso di Venezia, che riesce a fondare un vero impero marittimo, di
Firenze e di Genova. Per gestire gli enormi scambi e profitti, alcuni mercanti si
specializzano nelle scritture e diventano in tal modo dei banchieri. I più potenti
del tempo sono i Fiorentini. I Medici, banchieri dal 1350, concedono prestiti ai
re, ai papi, fino a quando essi stessi non diventano sovrani e papi. Fondano filiali
in tutta l’Europa, diventano principi e sposano le loro figlie, Caterina e Maria, a
ben due Re di Francia, Enrico 2° (1519-1559) ed Enrico 4° (1553-1610)..
Nella stessa epoca, i loro più grandi concorrenti sono tedeschi, i Fugger di
Augusta, arricchitisi con il commercio della lana, della seta e delle spezie. Essi
diventano nel 16° secolo i banchieri dell’imperatore d’Austria che li nobilita.
Quando Francesco 1° di Francia (1494-1547) e Carlo 5° di Spagna (1500-
1558) si affrontano per la corona imperiale tedesca, sarà in effetti il banchiere
Jacob Fugger il Giovane (1459-1525), che sosteneva l’Asburgo, il grande
vincitore della competizione. A fronte dei 400 mila scudi d’oro, che il Re di
Francia esibisce (che ha dovuto faticosamente portare in dei sacchi) davanti ai
Grandi Elettori, riuniti a Francoforte, Carlo 5° può presentare il doppio della
cifra in lettere di cambio certificate dal banchiere della corona d’Austria. Fatto
che comunque non impedirà ai discendenti del banchiere di fare fallimento per
aver troppo prestato ai sovrani.
La potenza dei banchieri italiani di allora prende forma anche nel vocabolario. Il
termine italiano banca, che deriva dal “banco”, sul quale i cambiatori effettuano
le loro transazioni, diventa di uso comune in tutto l’Occidente a partire dal 15°
secolo, mentre il termine banchiere avrà una diffusione generalizzata circa un
secolo più tardi. Per esempio in Francia al tempo dei Medici e dei Fugger non
esistono né banche né grandi banchieri. Il paese è prevalentemente agricolo e la
presa popolare della Chiesa, che vieta qualsiasi prestito ad interesse, frena lo
sviluppo di tali attività e questo fatto spiega per la gran parte il grave ritardo
evidenziato dalla Francia nel campo economico nei confronti dei suoi vicini. Il
denaro viene considerato come impuro ed i manipolatori di monete resteranno
per lungo tempo personaggi sospetti. Questo stato di cose, peraltro, non
impedirà ai Re di Francia di chiedere somme in prestito per finanziare le loro
conquiste.
Il peso della religione, nella sfera economica in Occidente, costituisce anche un
rilevante e perdurante fattore frenante, al punto che la maggior parte dei primi
grandi banchieri del 18° secolo nell’Europa del Centro Nord saranno Protestanti o
Ebrei. Questi arriveranno a fondare, nel 1700, delle vere e proprie imprese
moderne, come la Cassa dei Conti Correnti, istituti di emissione di biglietti al
portatore, che rappresenteranno il modello per le banche di emissione nazionali.
In questo nuovo sistema moderno dell’economia, la banca ed i banchieri vi
assumono il ruolo di attori principali.
NOTA
(1) Dall’indonesiano Kauri: piccola conchiglia bianco giallastra dell’Oceano Indiano
dall’involucro madreperlaceo.
La CONTEA di PROVENZA, dai BOSONIDI ai VALOIS
(Pubblicato su Rivista GRAFFITI-on-line.com, nell’agosto 2015)
Dalla fine del 9° secolo al 1481 la contea di Provenza, di origine imperiale,
passa dai Bosonidi, ai Catalani, agli Angiò e quindi ai Re di Francia, mentre
la capitale della contea passa da Arles ad Aix en Provence.
seguito del crollo dell’Impero carolingio, nell’anno 877, appare il regno
di Borgogna, di cui il nuovo re, Bosone (844-887), risulta anche duca di
Lione, di Vienne e di Provenza (dall’879). Coinvolta nelle guerre
incessanti per il controllo dell’Italia e della corona imperiale, la
Provenza, che all’epoca era suddivisa in tre vescovati (Arles, Aix en Provence ed
Embrun), finisce per passare, intorno al 950, ad una branca lontana di questa
famiglia dei Bosonidi (1), che dà origine alla prima dinastia dei conti di Provenza.
Essi rimangono almeno nominalmente, sotto il controllo dell’imperatore carolingio
e la Provenza sarà pertanto, per tutto il Medioevo, considerata come una terra
dell’Impero. Bosone, nobile imparentato alle più alte famiglie carolingie, aveva
sposato la figlia del deposto imperatore Luigi 2° il giovane. Egli è il primo non
carolingio a fare secessione dall’Impero ed insedia la sua capitale nella città di
Vienne. Lui ed i suoi discendenti cercheranno di mantenere il loro regno di fronte
ai signori della Francia ed a quelli dell’Italia mantenendo il loro potere e la loro
politica incentrati sull’asse del Rodano. Per effetto di questa politica e per
diverse generazioni, la Provenza occidentale rimane alla mercé delle incursioni
saracene, malgrado la relativa autorità dei bosonidi. Già sotto il regno di Bosone,
nell’880, Nizza viene saccheggiata e bruciata dai Mori (Saraceni). Nel corso dello
stesso periodo, un gruppo di Mori si insedia sui rilievi di Frassineto (boschi di
frassini), non lontano dall’attuale cittadina di La Garde Freisnet: un luogo
protetto, non lontano dal mare (golfo di Saint Tropez), a dominio del massiccio
omonimo e della piana a nord, da dove risulta agevole preparare incursioni
A
marittime e razzie verso il nord, che, specie nel 923 e nel 940, risulteranno
particolarmente distruttive.
I conti bosonidi, in ogni caso, riescono ad imporre circa mezzo secolo di pace
relativa e già a partire dal 3° conte, Ugo 1° di Tebaldo, conte d’Arles (880-
947), iniziano ad assumere iniziative al fine di sradicare la presenza saracena
nella regione. Dopo alterne vicende, durante le quali i conti maneggiano con
attenzione il “bastone e la carota”, il conte, Gugliemo 1°, conte di Provenza dal
968 al 979, decide di risolvere definitivamente il problema saraceno, alleandosi
ad Arduino 3° il Glabro (930-976), marchese di Torino. Nel 973, con una azione
metodica, essi riescono ad espellere i Mori da tutti i passi alpini, costringendoli a
ripiegare, dopo una serie di scontri vittoriosi, nel loro territorio iniziale.
Nuovamente sconfitti nella decisiva battaglia di Tourtour, i Saraceni si rifugiano
nel loro ridotto di Frassineto, che viene espugnato nel corso dello stesso anno,
dopo una serie di aspri combattimenti. Tutti i fuggitivi ed i sopravvissuti
verranno inseguiti ed eliminati, sanzionando la fine della presenza saracena in
Provenza. Per questo motivo il conte Guglielmo 1° sarà ricordato con l’appellativo
di Liberatore. Di fatto, i Saraceni cacciati da Frassineto si ritirano sulle Isole
d’Oro (Porqueirolles, Port Cros ed Isola di Levante), da dove continueranno,
ancora per oltre un secolo, a condurre azioni di pirateria.
Tuttavia, i conti di Provenza, che con il successore di Guglielmo riceveranno il
rango di marchesi, vedranno ben presto la loro autorità contestata dalle
aristocrazie locali, derivate dalle unioni fra signori franchi e vecchie grandi
famiglie gallo-romane. In effetti, si vengono a creare, in tal modo, immensi
possedimenti feudali dispersi sul territorio e scoppiano, conseguentemente,
guerre fra signori locali. Nel mezzo di questa tormenta, la Chiesa, sotto l’impulso
della riforma gregoriana, riesce a staccare l’episcopato dalle dinastie
aristocratiche e dagli interessi signorili e, col passare del tempo, si impone come
difensore dei contadini e del popolino contro gli abusi dei grandi signori. Sebbene
fallisca nell’obiettivo di spezzare la dipendenza del basso clero rurale
dall’aristocrazia, la Chiesa riesce ad imporre il suo ordine e la sua pace alle città
che passano sotto dominio religioso, a danno dell’influenza militare. Questa nuova
stabilità rilancia il commercio e l’industria e permette alle città di estendersi
nuovamente nel periodo intorno all’anno mille. La Chiesa ed il mondo urbano
escono in tal modo, rinforzati dall’indebolimento del potere comitale nel corso
dell’11° secolo.
I Conti Catalani (1125-1245)
Nel 1111, Gerberto 1° di Gevaudan (1055-1111), ultimo della stirpe bosonide di
Provenza (1075-1107), muore senza eredi maschi. Sua figlia, Dolça o Dolce, o
Stefania (1090-1129, figlia di Gerberga di Provenza) sposa il conte di
Barcellona, Raimondo Beregario (Berenguer) 3°, il Grande (1082-1131), che, in
occasione delle nozze celebrate ad Arles, reclama immediatamente la contea di
Provenza. Sarà solo dopo infinite difficoltà che il nuovo conte riuscirà ad imporsi,
dal 1113 al 1131, ai signori provenzali, sottomettendo con le armi la regione di Aix
en Provence e quella di Saint Maximin. Egli è costretto, inoltre, ad imporsi al
conte di Saint Gilles, della casata di Tolosa, che non vede di buon occhio questa
espansione catalana e che afferma i suoi diritti – peraltro non senza legittimità –
nella successione dei Bosonidi. Un trattato di pace, concluso nel 1125, assicura
alla casata di Tolosa una autorità, almeno nominale, sul Contado Venassino, la
contea di Forcalquier ed il Delfinato.
La dinastia dei conti catalani (2) non potrà, tuttavia, mai abbassare le armi.
Periodicamente, la casata di Tolosa, trovando alleanze opportuniste nell’ambito
dei ranghi dei grandi signori provenzali, risveglierà la sua guerra di legittimità
contro i conti catalani. Queste lotte culminano con l’episodio delle guerre del
Baux (guerre baussenques o bauciques, 1144-1162), durante le quali, Raimondo
Berengario 4° (1113-1162), affronta il conte di Saint Gilles e due grandi signori,
quelli di Fos e quelli di del Balzo (des Baux), da dove l’episodio trae il suo nome. Il
conte catalano finisce per trionfare dopo quattro grandi campagne e solamente
dopo aver assediato, preso e raso al suolo la fortezza, fino ad allora
inespugnabile, dei Baux.
La Provenza è per lungo tempo il pomo della discordia fra le potenze, che sono la
Contea di Tolosa ed la Contea di Barcellona, ma anche fra le repubbliche
marinare italiane di Genova e di Pisa ed ben presto il Regno d’Aragona, legato per
eredità ai Catalani. Infine, anche il Sacro Romano Impero Germanico, in quanto
erede del Regno di Borgogna, avanza pretese sulla sovranità provenzale e si
assiste, in tal contesto, all’incoronazione dell’imperatore Federico Barbarossa
(1122-1190) a Re di Arles nella primaziale di S. Trofimo nel 1178, dove il conte di
Provenza si rifiuta di assistere per non prestare omaggio di vassallaggio.
Raimond Berenguer poi Alfonso 2° il Casto (1157-1196), quello che viene
nominato conte-re, in quanto allo stesso tempo conte di Barcellona e di Provenza
e re d’Aragona (con il nome di Alfonso 2°), passerà il suo regno in lotta contro il
conte di Tolosa e contro i suoi propri vassalli provenzali. Esso riesce, alla fine, ad
imporre un saldo controllo sull’insieme del territorio verso il 1190 ed a firmare un
trattato di pace con la casata di Tolosa, mettendo fine, in tal modo, ad una lotta
più che secolare. L’autorità della casata di Barcellona sembra a quel punto
restaurata, tanto che Alfonso 1° può mettere in evidenza nuove ambizioni. Da un
lato, egli pone le basi della Contea di Forcalquier, che fino a quel momento era
stato l’alleato tradizionale del conte di Tolosa. Alfonso fa celebrare ad Aix en
Provence, nel 1193, le nozze di suo figlio con l’erede del titolo, la nipote del conte
Guglielmo 4° di Forcalquier (-1209, figlio di Bertrando 1° d’Urgell) (Trattato
d’Aix). Dall’altro, egli cerca di imporre il suo potere su Marsiglia, il cui comune
afferma un po’ troppo la sua indipendenza. Tuttavia, la città riuscirà a conservare
la sua autonomia ed il figlio di Alfonso 2° il Casto, Alfonso 2° Berengario (1195-
1209), dovrà lottare per tutto il suo regno per affermare le sue pretese su
Forcalquier.
E’ tradizionalmente al 1182 che viene fissata l’insediamento dei Conti di Provenza
ad Aix en Provence, facendo di tale località la loro nuova capitale, a detrimento
dell’antica preminenza di Arles. In questa decisione vengono formalizzate
concretamente le preoccupazioni dei conti di allora. La vecchia capitale
provenzale di Arles, di cui l’incoronazione di Federico Barbarossa fra le sue mura
serve a ricordare il collegamento nominale alla corona imperiale germanica, non
costituisce più una sede adeguata per un potere che si vuole indipendente da
qualsiasi sovranità. Inoltre, Arles inizia, verso il 1180, sotto la direzione dei suoi
consoli (magistratura esistente sin dal 1131), ad erigersi in repubblica sul modello
dei comuni italiani. Aix, cittadina media, non risulta agitata come la metropoli del
Rodano da lotte politiche fra cavalieri, arcivescovo e patriziato. Inoltre, Aix,
quasi all’incrocio delle antiche vie Aureliana (fra Arles e Nizza) e Domiziana (fra
Besançon e Nimes), sembra in posizione topografica perfetta per controllare la
movimentata città di Marsiglia, pur continuando a mantenere un occhio sulla
contea di Forcalquier e poter essere in condizioni di estendere la sua influenza
protettrice o di giustizia in direzione di Arles o della Liguria. Per di più, la città
si situa al centro di un dominio signorile che va dalla valle dell’Arc e dell’Argens,
dominio che appartiene direttamente ai conti ed il cui sostegno economico e
strategico risulta indispensabile alla politica di centralizzazione del 12° e 13°
secolo. Infine, per questa dinastia catalana - la cui sede rimane nella penisola
iberica, regione verso la quale essi non cessano di rientrare, dopo ogni campagna
provenzale - installare una nuova capitale in una vecchia città della Provenza,
antica sede arcivescovile, rappresenta il segno di un indurimento politico, la
ridefinizione, nell’ambito di una stessa linea, di due sfere d’influenza distinte: la
penisola iberica e la Provenza. In tal modo, piuttosto che dal 1182, occorrerebbe
datare l’inizio di questo insediamento di Aix al 1173, anno della nomina, da parte
di Alfonso 2° il Casto di un conte di Provenza distinto dal re, suo fratello
Raimondo Berengario 3° (1158-1181, conte dal 1173) o al 1178, anno dei primi atti
comitali emessi da Aix. Ma sarà solo con Alfonso 2°, ovvero a partire dalle sue
nozze del 1193, quindi dal suo accesso al potere nel 1196, che Aix acquisisce
tutta la sua statura di capitale comitale. Il nuovo sovrano, non avendo in feudo
che la contea provenzale (Barcellona e l’Aragona sono andati a suo fratello Pietro
2° d’Aragona, 1174-1213), ha tutto l’interesse a marcare la sua presenza
effettiva nella regione. Egli si insedia ad Aix e vi attira tutti i grandi trovatori
del tempo, che contribuiranno durevolmente ad insediare nell’immaginario
collettivo il fasto della corte comitale ed il prestigio del loro signore conte,
cavaliere e mecenate. Questa nuova importanza di Aix è peraltro rilevante nel
triste privilegio che la città ha di vedere i suoi dintorni devastati ed le sue mura
assediate, a partire dal 1199, in occasione delle lotte fra Alfonso 2° con il conte
di Forcalquier.
Guglielmo 4° ed Alfonso muoiono entrambi nel 1209 ed il figlio di quest’ultimo
diventa conte di Provenza e di Forcalquier, con il nome di Raimondo Berengario
4° (1198-1245). Le due contee risultano finalmente riunite e lo saranno per
passare quasi subito sotto un’altra dinastia.
In effetti, per la concomitanza della crociata contro gli eretici catari, i re
capetingi hanno iniziato, a partire dall’inizio del 13° secolo, la loro progressiva
annessione del sud, cominciando per rosicchiare la contea di Tolosa. Succederà la
stessa cosa con la Provenza che, senza essere annessa in un solo colpo, vedrà i
suoi legami con la corona iberica allentarsi progressivamente per essere attirata
sempre più decisamente nell’orbita francese. Un contratto matrimoniale
ufficializzerà questo scivolamento. Quando, nel 1245, muore Raimondo
Berengario 4° egli lascia solo quattro figlie che sono entrate nella leggenda
Margherita (1221-1295), Eleonora (1223-1291, Sancha (1225-1261) e Beatrice
(1234-1267).
La prima diviene, per effetto del suo matrimonio con Luigi 9° (1214-1270), regina
di Francia; la seconda regina d’Inghilterra per la sua unione con Enrico 3° (1207-
1272); la terza è solo moglie del conte Riccardo di Cornovaglia (1209-1272), ma
suo marito manca di poco l’elezione ad imperatore del Sacro Romano Impero
Germanico; infine l’ultima, Beatrice, ancora bambina alla morte di suo padre, si
vede dotata dell’eredità della contea di Provenza e di Forcalquier. Una tale dote
non lascia di certo indifferenti i Capetingi parigini ed il fratello del re di Francia,
Carlo (1226-1285), sposa l’ereditiera della contea nel 1246. Poco dopo, Luigi 9° lo
nomina conte d’Angiò e del Maine ed ecco dunque una coppia che viene a trovare
una propria lista di regali particolarmente ricca. Questa branca cadetta del
trono di Francia gli Angiò, non ha però terminato qui la sua straordinaria
ascensione.
I conti angioini della 1^ casata d’Angiò (1245-1388)
L’insediamento della casata d’Angiò ed, attraverso essa dei Capetingi, in Provenza
non avviene tuttavia senza difficoltà. L’ultimo conte di Tolosa, il re d’Aragona,
l’imperatore Federico 2° di Hohenstaufen o di Svevia (1194 - 1250) ed anche il
re d’Inghilterra fanno tutti obiezione, adducendo diritti sull’eredità, in quanto
vedono di cattivo occhio questa incursione capetingia nel mezzogiorno e nel
Mediterraneo. Opportunamente, il Papa, in conflitto con Federico 2°, sostiene il
re di Francia ed i suoi fratelli. Mentre Alfonso di Poitiers (1120-1271), altro
fratello di Luigi 9°, che si impadronisce, anche lui per matrimonio, dell’eredità
della contea di Tolosa, nel 1249, alla morte del suo ultimo conte, Carlo marcia
sulla Provenza.
La situazione in Provenza rimane tuttavia confusa per almeno 18 mesi. I
movimenti comunali che, per sbarazzarsi del potere dei vescovi, si esprimono
spesso in vere e proprie fiammate di anticlericalismo e la fronda degli
aristocratici locali, che, per mantenere la loro indipendenza di fronte ai Francesi
fanno riferimento a legittimità straniere (iberiche o imperiali), obbligano Carlo
d’Angiò a delle campagne ed a continui negoziati. Egli sarà costretto a domare i
focolai di ribellione, uno dopo l’altro nel 1251-1252 ed ancora nel 1262. Per di più,
la vita avventurosa e le bellicose ambizioni del nuovo conte di Provenza non
contribuiscono ad accelerare il ritorno all’ordine: nel 1248, egli accompagna la
crociata di suo fratello in Egitto ed, alla battaglia di Mansurah, nel 1250, viene
fatto prigioniero e quindi liberato a seguito del pagamento di un forte riscatto;
nel 1253-54 Carlo prende parte alla guerra di successione delle Fiandre; nel 1259
conduce campagna in Italia; nel 1262, infine si vede offrire dal Papa la corona del
Regno delle Due Sicilie (Napoli, Italia meridionale e Sicilia), con l’obiettivo, da
parte del pontefice di far scomparire la casata degli Hohenstaufen che vi regna.
Fra il 1266 ed il 1268, Carlo si impadronisce del regno e sopprime con brutalità
gli ultimi Hohenstaufen (fra cui Corradino di Svevia, 1252-1268). La sua
influenza in Italia si estende a macchia d’olio e le sue ambizioni lo orientano
verso l’Adriatico e l’Impero bizantino. Egli recupera, d’altronde, nel 1277, il titolo
di Re di Gerusalemme, prestigioso ma senza alcuna autorità effettiva.
Nel 1270 egli entra a far parte dell’ultima crociata di Luigi 9° a Tunisi, nel corso
della quale muore il re di Francia. Quando Carlo muore, a sua volta, nel 1285, dopo
aver sconvolto il mondo dell’epoca, egli ha quasi completamente perduto la Sicilia,
sollevatasi dal 1282 (a seguito dei moti dei Vespri Siciliani) ed è impegnato in una
guerra contro gli Aragonesi per il controllo dell’isola.
Carlo 1° è nondimeno riuscito ad assicurare il dominio su un impero mediterraneo.
In Provenza, i consolati locali vengono tutti aboliti, Marsiglia viene domata e le
entrate demaniali e le assemblee delle città risultano controllate da ufficiali
comitali. Tuttavia, lo shock culturale e politico di questa messa in riga non è stato
così profondo come molti storici del 19° e 20° secolo hanno voluto far credere, in
quanto il movimento di centralizzazione angioino in Provenza si inscrive
logicamente nella continuità della politica degli ultimi conti catalani.
Beatrice è morta nel 1267 e suo figlio, Carlo 2° d’Angiò (1267-1309) eredita
allora il titolo di conte di Provenza, prima di ricevere, alla morte di suo padre, i
resti dell’impero angioino. Egli accetta comunque la perdita definitiva della
Sicilia, di fronte all’Aragona, nel 1296, ma si aggrappa al suo trono di Napoli. Ma
gli Angioini non hanno rinunciato alle loro ambizioni mediterranee, poiché Carlo 2°
riesce ad insediare il suo nipote sul trono d’Ungheria, nel 1308 ed a far
riconoscere il suo potere nell’Italia del nord (Asti in particolare). Roberto 1° il
Saggio (1309-1343) si afferma come il più potente sovrano italiano e sembra
persino che la penisola possa essere unificata sotto la corona angioina.
Se la dinastia cede l’Angiò ed il Maine (passati ai Valois), la Provenza rimane
sotto il loro dominio e costituisce un elemento essenziale nel loro gioco
mediterraneo. Il conte di Provenza si vede aggiungere, in tale contesto, nel 1306,
la contea del Piemonte italiano ed anche se i conti-re (ad eccezione di Carlo 2°)
passano la maggior parte del loro tempo nella penisola, la loro capitale comitale
rimane ad Aix, a pari condizioni con la capitale reale di Napoli. Il dominio proprio
dei conti non cessa, d'altronde, di essere ringrandito e consolidato in Provenza,
attraverso acquisti o scambi di territori e castelli per poter migliorare la loro
posizione strategica. Nonostante una tendenza monarchica e centralizzatrice
molto marcata sotto il regno di Roberto 1°, che dispone che gli affari vengano
esaminati alla corte di Napoli, un Consiglio Reale, formato da giureconsulti e da
ufficiali principali del paese, siede in permanenza ad Aix ed assiste il Siniscalco,
una specie di Vice re in Provenza. Una camera dei conti gli viene aggiunta nel
1288 e comincia ad assumere la sua autonomia fra il 1297 ed il 1315.
La dinastia degli Angioini raggiunge il culmine della sua potenza agli inizi del 14°
secolo, avendo trovato definitivamente il suo carattere reale. Questa dinastia,
può, inoltre, reclamare una discendenza illustre con Luigi 9° di Francia, fratello
del fondatore della dinastia e canonizzato santo nel 1297, o con Luigi, figlio di
Carlo 2°, diventato frate francescano e quindi vescovo di Tolosa e canonizzato
nel 1317 sotto il nome di S. Luigi d’Angiò da Tolosa (1274-97). La pietà degli
Angioini viene celebrata e riconosciuta, poiché nel 1279, le ricerche che Carlo 2°
fa effettuare “per ispirazione divina”, a Saint Maximin, si concludono con
l’invenzione del corpo di Maria Maddalena. Il Papa autentica le sante reliquie,
promulga delle lettere di indulgenza per i pellegrini ed accorda al conte il potere
di insediare di domenicani nel massiccio della Sainte Baume, sulla grotta di
penitenza della santa a partire dal 1295.
I Papi, che erano fuggiti nel 1304 dall’agitazione politica di Roma, in preda ad una
lotta fra casate locali, si insediano, a partire dal 1316, ad Avignone, vale a dire in
una città vicina ai loro possedimenti (il Contado Venassino era stato ceduto ai
pontefici nel 1274), ma in terra angioina. Questa situazione privilegiata pone il
Papato sotto la doppia protezione degli Angioini, che, dal 13° secolo, si
riconoscono come fedeli vassalli del Pontefice e del re di Francia, il cui regno ha
inizio immediatamente dall’altro lato del Reno. Facendo Avignone un grande
metropoli ed il cuore del cristianesimo occidentale, i papi contribuiscono a
rimettere la Provenza nel cuore dello scacchiere europeo.
Il crepuscolo degli Angioini (1343-1388) e la seconda dinastia degli Angiò-
Valois (1388-1481)
Roberto si era impadronito del potere a danno e disprezzo dei diritti di suo
nipote, Caroberto d’Ungheria (1288-1342), ma egli è costretto ad assistere alla
morte dei suoi eredi maschi. Al fine di evitare delle contestazioni circa la
successione di sua nipote Giovanna d’Angiò, egli provvede a sposarla, a 8 anni, a
suo cugino Andrea d’Ungheria (1327-1345), figlio di Caroberto. Ma Giovanna 1^
d’Angiò (1326-1382) dirige maldestramente il regno e fa dividere la corte di
Napoli in due fazioni rivali. Il misterioso assassinio di Andrea, strangolato nel
1345, provoca la crisi. Giovanna viene accusata di avervi preso parte, tanto più
che la donna si affretta a sposare il presunto assassino l’anno seguente. Il re
d’Ungheria, fratello d’Andrea, attacca immediatamente il regno di Napoli e
Giovanna è costretta a fuggire in Provenza nel 1348. Accolta calorosamente dai
suoi sudditi marsigliesi, la regina ha la sorpresa di essere trattata diversamente
nella sua capitale di Aix: appena arrivata, sebbene circondata da un rispetto
formale la donna viene trattenuta prigioniera. Il suo seguito, specialmente quello
italiano, viene arrestato. In effetti, i grandi baroni provenzali e gli abitanti di
Aix vogliono ottenere dalla donna l’assicurazione che non installerà funzionari
napoletani nei posti di responsabilità e che manterrà la Provenza indipendente. La
regina verrà liberata nel giro di due mesi, dopo aver ricevuto il suo giuramento.
Giovanna si reca, a quel punto, ad Avignone, dove il Papa accetta di discolparla
dell’assassinio del marito, in cambio del possesso pieno ed intero di Avignone,
che viene acquistato per 80 mila fiorini. Vendendo ai Provenzali diritti e
privilegi, Giovanna riesce, a quel punto, a finanziare una ripresa della guerra
contro gli Ungheresi che si conclude alla fine con un trattato di pace nel 1352,
ma, in ogni caso, il potere reale uscirà molto indebolito da questo episodio.
In tale contesto i disordini del regno non si arrestano. Nel 1357 avviene la rivolta
des Baux (del Balzo) e l’invasione delle grandi compagnie di ventura, che
impongono dei riscatti alle città. Nel 1368, per opporsi alle ambizioni dei principi
inglesi che rivendicano la contea di Provenza in nome della loro antenata Eleonora
di Provenza, sorella di Beatrice, Luigi d’Angiò Valois (1377-1417), fratello del
re di Francia, fa valere anch’egli i suoi diritti in quanto discendente di un’altra
sorella Margherita. Riunendo intorno a lui le grandi compagnie, che in tal modo
allontana dal regno di Francia, egli entra in Provenza e devasta il paese.
Tarascona viene conquistata, mentre Aix ed Aigues Mortes vengono assediate.
Luigi viene alla fine respinto da una reazione generale delle città provenzali, ma
questa reazione mette in evidenza anche quanto il paese è abbandonato a sé
stesso. Dopo questi avvenimenti, Giovanna può vivere pacificamente a Napoli
qualche anno e, nonostante due altri matrimoni, la donna non riesce a dare un
erede al regno.
Il grande scisma d’occidente, nel 1378, costituisce l’occasione per riprendere le
ostilità. Mentre Giovanna sostiene il papa di Avignone, Clemente 6° (1291-1352),
il papa di Roma, Urbano 6° (1318-1389), aizza contro di lei una coalizione ed un
concorrente nella persona di Carlo di Durazzo o Carlo 3° di Napoli (1345-
1386), nipote di Giovanna, che la donna aveva imprudentemente designato come
suo erede, prima di litigare con lui. Giovanna a quel punto effettua un volta faccia
ed adotta, nel 1380, Luigi d’Angiò, predetto, per farne il suo protettore. Tuttavia
Luigi non ha nemmeno il tempo di mettersi in marcia che Carlo di Durazzo ha già
investito il regno di Napoli, nel 1381, facendo giustiziare Giovanna l’anno
seguente.
Il bilancio disastroso del regno della ultima angioina rende tanto più incredibile la
leggenda, tutta provenzale della “buona regina Giovanna”, associata d’altronde,
spesso anacronisticamente al “buon re Renato”.
Il numero di costruzioni falsamente attribuite a Giovanna in Provenza deriva
indubbiamente dal suo esilio fra il 1348 ed il 1352. La sua vita romanzesca, le sue
disgrazie, l’indignazione che ha suscitato il suo assassinio, un vago sentimento
anti francese contro Luigi della casa di Valois, contribuiscono senza dubbio a
fare di questa ultima rappresentante della 1^ casata d’Angiò un personaggio
idoneo a perdere la sua realtà a beneficio di una immagine leggendaria.
Mentre la notizia della sua morte non è ancora giunta in Provenza, vi viene
formata una lega per la regina e la patria, l’Unione di Aix, ma una volta
conosciuto il decesso, la Provenza si divide fra partigiani di Luigi di Valois,
sostenuto da Apt e Marsiglia e partigiani di Carlo di Durazzo, nel cui campo si
schiera paradossalmente l’Unione d’Aix, insieme a Nizza e Tarascona. Questa
adesione ai Durazzo è dovuta in gran parte all’ostilità che provano queste città
per Luigi, il nemico di ieri. I partigiani di Luigi, aiutati dal re di Francia, assediano
Aix. Ma nel 1384, Luigi di Valois, che guida allora una campagna dalle parti di
Napoli, muore improvvisamente. Sua moglie, Maria di Blois (1345-1404), arriva
con il suo erede Luigi o Ludovico 2° d’Angiò Valois (1384-1417), ad Avignone, da
dove continua la guerra. La donna ottiene progressivamente l’adesione delle città
provenzali e la morte di Carlo di Durazzo, nel 1386, accelera tale processo. Aix
apre, a quel punto, le sue porte a Luigi 2° nel 1387, mentre Nizza, rimasta da
sola nella lotta a sostenere i Durazzo, si affida nel 1388 al Conte di Savoia.
L’insediamento di Luigi 2° non fa cessare i disordini e la reggente Maria di Blois,
è costretta a condurre contro un capitano di ventura, Raimondo di Turenna
(morto nel 1399), le spossanti guerre del Valentinois dal 1386 al 1400 e la
Provenza viene nuovamente messa a sacco. Un po’ più tardi, i tentativi della nuova
casa d’Angiò di riprendere il trono di Napoli, sotto Luigi 2° (1384-1417) e Luigi
3° (1417-1434) provocano una guerra navale durevole con il re d’Aragona, che
rovina il commercio marittimo provenzale. Questo episodio culmina con il colpo di
mano di una flotta catalana, nel 1423, che riesce a forzare il porto di Marsiglia,
mettendo a sacco la città, per tre giorni e tre notti. Testimonianza di tale evento
sono le catene di ferro che chiudevano l’entrata del vecchio porto, riportate
indietro come trofeo e tuttora visibili nella cattedrale di Valencia, in Spagna.
Queste agitazioni, quasi incessanti per circa mezzo secolo, alimentate da quelli
che regnano in Francia durante la guerra dei 100 anni (1337-1453), risultano
tanto più dolorose proprio per il fatto che, nello stesso momento, l’Europa viene
colpita dalla Peste Nera che elimina quasi la metà della popolazione. La Provenza
viene spazzata dal flagello fra il 1346 ed il 1351, flagello che si ripresenterà
regolarmente fino alla fine del 15° secolo. Il paese che aveva già mostrato segni
di stagnazione demografica ed un indebolimento della sua influenza sotto il regno
degli ultimi Angioini, esce esausto da questo lungo periodo di disordini. Più del
40% delle località provenzali che esistevano agli inizi del 14° secolo risultano
scomparse alla fine del 15° secolo. Senza una immigrazione costante verso le
città come Aix ed Arles, nel corso del 15° secolo, di origine inizialmente
provenzale, venute dall’Alta Provenza o dal Var, quindi di provenienza italiana, le
città avrebbero conosciuto un totale sfinimento. Malgrado tutto la ripresa
demografica non si farà sentire prima degli inizi del 16° secolo ed essa sarà
favorita dalle attività commerciali di Jacques Coeur (1395-1456), grande
argentiere del re di Francia. E’ alla fine di questo periodo di disordini che
Renato d’Angiò Valois (1434-1480) accede al trono, colui che la leggenda ha
denominato “il buon re Renato”. Nei fatti, questo regno risulta politicamente
molto discutibile, anche se darà alla Provenza l’occasione di rioccupare un ruolo
eminente nella politica degli Stati occidentali poco prima di diventare francese.
Di lui Shakespeare dirà nel suo Enrico 6°: “Re misero, senza sudditi, senza
fortuna e senza corona” che “porta il titolo di re di Napoli, delle Due Sicilie e di
Gerusalemme, sebbene che sia più povero di un contadino inglese”.
Renato d’Angiò Valois
Secondo figlio di Luigi 2° (1384-1417), Renato d’Angiò Valois (1409-1480) è
inizialmente un semplice erede della contea di Guisa, ma sua madre,
l’intraprendente Yolanda o Violante d’Aragona (1384-1443), così influente alla
corte di Francia, gli fa ottenere in eredità il ducato di Bar nel 1420 e la Lorena
per mezzo del suo matrimonio con Isabella di Lorena, nel 1431. Ma le sue diverse
eredità risultano contestate. Dal 1424 al 1431, egli conduce della campagne per
assicurasi dei suoi domini, ma, fatto prigioniero dal duca di Borgogna, egli è
costretto a pagare un forte riscatto che appesantisce notevolmente le sue
finanze. Il riscatto è tanto più pesante per il fatto che Renato, alla morte di suo
fratello, Luigi 3° d’Angiò Valois (1403- 1417-1434), diventa conte di Provenza e
d’Angiò e quindi re di Napoli nel 1435. Egli può raggiungere, solo nel 1438, il suo
trono a Napoli, che la sua sposa Isabella tiene con grande difficoltà in sua
assenza. Nonostante qualche vittoria, egli è costretto ad abbandonare Napoli di
fronte al re d’Aragona nel 1442, pur continuando a mantenere il titolo di “re di
Gerusalemme e di Sicilia”. Dal 1443 al 1446, egli sostiene suo cognato, il Carlo 7°
di Francia, in occasione della riconquista della Francia contro gli Inglesi e riesce
a quel punto a cancellare il suo enorme debito.
E’ a partire dal 1447 che Renato, che aveva fatto solo qualche soggiorno nel
paese fra due successive campagne, decide di fare della Provenza il suo paese
d’elezione. Nel 1448, inserendosi nel solco dei primi Angioini, fa precedere a
Saintes Maries de la Mer, nella chiesa di Notre Dame de la Mer, all’elevazione (2)
delle reliquie di Maria Jacobé e Sarah, le sante donne ed il loro seguito che
avevano accompagnato, secondo la leggenda provenzale, Maria Maddalena. Questa
volontà di continuare a definire la Provenza secondo una geografia sacra
dimostra ampiamente l’interesse del conte per la regione. E’ pur vero che,
esausto finanziariamente dalle guerre di Napoli e le spese suntuarie, i suoi altri
feudi risultavano o indebitati o rovinati dalla guerra contro l’Inghilterra, sia
occupati dagli Inglesi. Solo la Provenza rimane l’unico territorio da cui trarre
delle entrate. In effetti, Renato ha bisogno di denaro per poter pagare i debiti
delle sue guerre, sia anche per continuare ad apparire ciò che deve essere: un
principe del suo tempo, prodigo e cortese. Egli si insedia a Tarascona e vi celebra
un magnifico torneo, nel 1449, denominato “il passo della Pastora (Bergere)”.
Nel frattempo, nel 1453, Renato perde sua moglie, Isabella di Lorena ed affida
l’eredità del ducato di Lorena a suo figlio Giovanni, nel momento stesso in cui la
situazione politica in Italia rianima le ambizioni napoletane. Tuttavia egli non
riuscirà, né a riprendere il trono di Napoli, né il trono d’Aragona, che gli viene
proposto nel 1458. Renato, con la sua seconda moglie, Giovanna di Laval, risiede
sia in Angiò che in Provenza, i soli feudi che gli rimangono di sua proprietà. Ma i
soggiorni in Provenza sono sempre più lunghi e finalmente, la coppia si insedia
definitivamente ad Aix nel 1472, dove fa trasferire le sue collezioni d’Angiò e
dove manterrà una corte brillante, che farà la sua reputazione di “buon re”.
Tuttavia la tassazione si accresce sotto il regno di Renato, la cui politica,
diplomazia e rappresentazione del potere costano molto cari. La tassazione
imposta in funzione della popolazione non risulta sufficiente a fronteggiare le
spese e nel 1441 egli è costretto ad imporre un diritto di dogana (del 6,66%)
sulle importazioni ed esportazioni. La tassa risulta così impopolare che il conte
accetta, l’anno seguente, di revocarla in cambio di una tassa “una tantum” da
parte delle città. Anche la comunità ebrea, da sempre protetta dagli Angioini,
certamente per ragioni finanziarie, viene sottoposta ad una “taglia” speciale ed a
frequenti richieste di “doni”.
La cessione alla Francia
Nel 1474, essendo nel frattempo morto suo figlio Giovanni, Renato redige il suo
testamento, che attribuisce la Provenza e l’Angiò a suo nipote Carlo 5° del
Maine (1436-1481, figlio di suo fratello Carlo 4° Angiò Maine, 1414-1472) ed il
ducato di Bar al figlio di sua figlia Iolanda (1428-1483) e di Federico 2°, conte
de Vaudémont (1420 – 1480), Renato 2° di Angiò duca Lorena Vaudemont
(1451-1508). Il re di Francia, Luigi 11° (1423-1483), che può pretendere
all’eredità dell’Angiò per parte di madre, è furioso e confisca l’Angiò. Dopo
trattative diplomatiche, Renato glielo cede a condizioni che Carlo erediti la
Provenza. Il buon re Renato d’Angiò Valois muore nel 1480 ed il suo corpo viene
portato, secondo le sue volontà ad Angers, nella sua antica capitale. I cittadini di
Aix si opporranno a questa decisione, ma il trasporto della salma viene
effettuato ugualmente di notte nascosto in un cassone per vestiti ed in questo
modo il “buon re Renato” esce per l’ultima volta dalla sua capitale provenzale.
L’accessione alla contea di Provenza da parte di Carlo 5° d’Angiò Maine, ovvero
Carlo 3° di Provenza (1480-1481) avviene con difficoltà, in quanto Renato 2° di
Angiò Lorena-Vaudemont contesta tale diritto. Luigi 11° di Francia arbitra
intelligentemente il conflitto: egli decide in favore di Carlo 3° … cagionevole di
salute e che per di più non ha eredi. Luigi di Francia prepara, in tal modo, la
strada per la sua futura successione. In effetti, Carlo 3° muore l’anno seguente,
l’11 dicembre 1481, dopo aver nominato il re di Francia suo erede. Gli Stati di
Provenza, riuniti ad Aix il 15 gennaio 1482 ricorderanno al rappresentante del re
che egli vanta dei diritti sul paese solamente in virtù del titolo di “conte di
Provenza” e che deve, per ricevere la garanzia di fedeltà dei suoi sudditi,
confermare tutti i privilegi concessi dai vecchi conti, come anche le istituzioni ed
il sistema giudiziario. Da ultimo egli deve promettere che le cariche verranno
conservati ai Provenzali. Una volta siglato questo accordo, impropriamente
denominato “costituzione provenzale”, la Provenza può diventare uno Stato del
regno di Francia.
NOTE
(1) a Bosone 1° di Provenza (844-887) succede Ludovico 3° il Cieco (882-928);
a quest’ultimo succede Ugo 1° di Tebaldo, conte d’Arles (880-947), re d‘Italia;
successore in Provenza di Ugo 1° è Bosone 2° d’Arles (915-968), figlio di
Rotboldo o Ruboldo 1° di Bosone 1° di Provenza (morto nel 950): A quest’ultimo
succede Guglielmo 1° il Liberatore, conte di Provenza dal 968 al 979 e quindi
suo fratello Rotboldo 2° conte e marchese di Provenza (morto nel 1008), che
sposa Emilde di Gevaudan. Il figlio di questi Ruboldo 3° gli succede nel 1008
fino alla morte, avvenuta nel 1015, ed a questi subentra poi nel 1015, il figlio
Gugliemo 3°, marchese di Provenza, che rimane in carica fino al 1037.
La figlia di Guglielmo, Emma (980-1062) succede al padre nel titolo di marchesa
di Provenza nel 1037, si sposa con Pons 2° di Tolosa (997-1060) e trasmette il
titolo di marchese di Provenza al figlio Bertrando 1° di Tolosa (998-1062), a
sua volta trasmesso a Guglielmo 4° di Tolosa (morto nel 1088).
(2) Di seguito la genealogia dei Conti di Barcellona:
Goffredo il Villoso o l’Irsuto (840-897), dall’878;
Goffredo Borrell di Goffredo (-911), dall’897
Sunyer di Goffredo (-954);
Mirò di Sunyer (-966)
Borrell di Sunyer (-993)
Raimondo Borrell (-1017)
Berengario Raimondo 1° (1000-1035)
Raimondo Berengario 1° (Berenguer) il Vecchio (1023-1076)
Raimondo Berengario 2° (Berenguer) detto Testa di stoppia (1054-1082)
dal 1076 al 1082
Berengario Raimondo 2° di Reimondo Berengario, il Fretricida (1054-
1097) dal 1076 al 1097
Raimondo Berengario 3° il Grande (1082-1131) dal 1082 al 1131;
Raimondo Berengario 4° il Santo (1113-1162) dal 1131 al 1162;
Raimondo Berengario o Alfonso 2° il Casto (1157-1196) dal 1162 al 1196
Alfonso 2° Berengario di Provenza (1180-1209) conte di Provenza dal 1195
Il titolo di conte di Barcellona passa dal 1162 nella Casa d’Aragona
BIBLIOGRAFIA
Aurell M., Boyer J. P., Coulet N., “La Provence au Moyen Age”, Aix en
Provence, Université de Provence, 2005;
Coulet N., Planche A., Robin F., “Le roi René. Le prince, le mecène, l’ecrivain,
le mythe.”, Aix en Provence, Edisud, 1982;
Robin F., “La Cour d’Anjou-Provence, la vie artistique sous le regne de René”,
Paris, Picard, 1985.
1919: VERSAILLES chiude la 1^ G.M., ma all’Est si giocano i tempi supplementari
Pubblicato sul n. 275, aprile 2020, della Rivista Informatica “Storia in
Network” (www.storiain.net), con il titolo: “1918: FINITA LA GUERRA, A EST
SI GIOCANO I TEMPI SUPPLEMENTARI”)
Se il mese di novembre 1918 segna la fine ufficiale della 1^ Guerra
mondiale, nell’est dell’Europa, la sconfitta degli Imperi Centrali apre nuovi
conflitti, che, per molti,porteranno i germi della 2^ Guerra Mondiale.
ella memoria collettiva occidentale, la Grande Guerra è terminata nel
novembre 1918 a seguito degli Armistizi di Villa Giusti (fra Italia ed
Impero austro-ungarico) e del vagone di Rethondes (fra gli Alleati ed il
Reich tedesco). In particolare l’armistizio sulla fronte francese rappresentava il
riconoscimento della sconfitta del Reich e costituiva la logica conclusione del
ritiro delle forze armate tedesche, iniziato tre mesi prima. Il processo era stato
accelerato dall’ondata rivoluzionaria che aveva guadagnato tutta la Germania nei
primi giorni del mese di novembre. Di fatto, il 9 novembre 1918 il kaiser
Guglielmo 2° di Hohenzollern (1859-1941) era stato costretto ad abdicare e nel
corso della stessa giornata era stata proclamata la repubblica.
Il bilancio umano della guerra era stato esorbitante: 18,6 milioni di morti, di cui
9,7 militari e 8,9 civili; 21,2 milioni di feriti, dei quali molti mutilati e sfigurati a
vita, a questo andavano aggiunte le numerose distruzioni di beni materiali e le
devastazioni subiti dai territori luogo degli scontri. Anche se altri fronti si erano
spenti qualche tempo prima, come quello est, con l’Armistizio di Brest Litowsky
del marzo (fra gli Imperi centrali ed nuovo governo bolscevico russo) o come
quello dei Balcani, con l’Armistizio di Salonicco, del settembre 1918
N
(capitolazione della Bulgaria) e con l’Armistizio di Mudros, dell’ottobre 1918
(capitolazione dell’Impero ottomano), nella memoria collettiva dei paesi
occidentali rimarrà indelebile la data del novembre 1918 come quella della fine
della 1^ Guerra Mondiale.
Il valzer dei Trattati
Caso della Russia a parte, questi armistizi saranno il preludio ai trattati di pace
che dovevano mettere un termine definitivo alla guerra. I negoziati della
conferenza di Pace di Parigi avranno il compito di dare una forma concreta ai
trattati con gli Stati vinti e di fondare un nuovo ordine europeo, ufficialmente
organizzato intorno al principio delle nazionalità. Nel giro di un anno e mezzo
vengono firmati 5 Trattati: quello di Versailles con la Germania (28 giugno 1919),
di Saint Germain en Laye con l’Austria (10 settembre 1919), di Neuilly sur
Seine con la Bulgaria (27 novembre 1919), del Trianon con l’Ungheria (4 giugno
1920) e di Sevres con l’Impero ottomano (19 agosto 1920). I predetti Trattati,
imposti ai vinti, vengono di fatto negoziati all’interno del circolo ristretto delle
grandi potenze, che ne fissano i termini relativi. Sempre in Occidente, si ha
ormai l’abitudine di parlare dell’Europa di Versailles per definire la
configurazione data al continente europeo dalla Conferenza di Pace. Una
formulazione, ad onor del vero, parziale ed inesatta, in quanto l’espressione
sottovaluta l’importanza degli altri trattati che hanno riconfigurato il volto
dell’Europa centrale e sud orientale. In ogni caso, per i popoli di questi spazi, sia
che essi ne siano stati beneficiari o vittime, i trattati sono stati perlomeno pieni
di pesanti conseguenze.
Comunque, per tutto il periodo di negoziato dei trattati ed anche oltre, le armi
non hanno taciuto, specialmente ad est, lungo una linea che andava dal Baltico al
Levante. Questi conflitti non hanno avuto tutti la stesa importanza né la stessa
durata. Tuttavia, tutti derivano dalla stessa causa: la scomparsa delle grandi
monarchie intorno alle quali la geografia politica dell’Europa era organizzata sia al
centro che ad est. Il fenomeno non ha avuto indubbiamente lo stesso significato.
L’Impero Austro ungarico e l’Impero ottomano, colpiti a morte, non
sopravvivranno al conflitto mondiale. Per contro, né la Germania, né la Russia
scompariranno dalla carta politica dell’Europa, anche se le dinastie regnanti erano
state rovesciate. Sia l’una che l’altra subiranno le conseguenze della sconfitta,
ma senza la rimessa in discussione della loro esistenza come Stato. La Germania
perde molti territori venendo sottoposta a severe condizioni, ma, tuttavia, essa
non viene colpita, né nella sua sostanza, né nelle opere vive, conservando i mezzi
che recuperare le sue forze e la sua potenza. Le stesse osservazioni vanno
applicate anche al caso della Russia. Anch’essa era stata amputata di notevoli
territori, ma la sua storia poteva continuare, anche sotto un’altra bandiera.
Ma, al di là di queste differenze, gravi sconvolgimenti politici faranno piombare
questi Stati, giovani o nuovi, in un lungi periodo di incertezze e di tensioni. La
scomparsa degli imperi determinerà un moltitudine di problemi, specialmente
quello del tracciato delle nuove frontiere, anch’esso strettamente collegato con
la ripartizione geografica delle nazionalità. Se tali problemi risultavano
preesistenti al disfacimento degli imperi, essi assumeranno comunque una nuova
dimensione. Le violenze interetniche, una volta liberate dai vincoli imposti dalle
strutture amministrative degli imperi, esploderanno, sfociando in scontri armati
che opporranno Tedeschi e Cechi in Boemia, Austriaci ed Ungheresi nel
Burgerland, Austriaci e Sloveni in Carinzia.
Rivolte rosse
Esiste peraltro un altro aspetto di questi scontri armati: le guerre civili che
scoppiano presso alcuni paesi vinti, sul solco della sconfitta. L’influenza delle
correnti ispirate dall’esempio della rivoluzione bolscevica, si inserisce nel
contesto dei traumi provocati dall’accelerazione degli eventi negli ultimi giorni
della guerra. In tale contesto la Germania e l’Ungheria diventeranno nel corso del
1919, i teatri di sanguinose lacerazioni.
In Germania, il regime monarchico, travolto dalla rivoluzione del novembre, aveva
ceduto il posto ad un Consiglio di Commissari del Popolo, che, diretto dal
socialdemocratico Friedrich Ebert (1871-1925), si fissa il compito di fondare una
repubblica democratica. Ma, quasi subito, questo viene sfidato dal movimento
degli Spartakisti, una alleanza fra l’estrema sinistra socialista ed i comunisti,
guidata da Rosa Luxemburg (1871-1919) e Karl Liebknecht (1871-1919), che si
rifiuta di riconoscere la sua autorità e si prepara a rovesciarlo con le armi per
installare un potere basato sul modello sovietico.. Il governo tedesco disponeva di
pochi mezzi per opporsi all’insurrezione spartakista lanciata il 6 gennaio 1919,
comunque inadeguati per battere i ribelli. Ma, già dal 10 novembre 1918, Ebert,
che alla guida del partito socialista aveva sostenuto lo sforzo bellico fino alla
fine, aveva concluso un accordo con il maresciallo Paul von Hindenburg (1847-
1934), il capo del Grande Stato Maggiore tedesco, sulla base del quale, l’esercito
tedesco, in caso di sommossa di ispirazione bolscevica, sarebbe intervenuto per
reprimerla. E’ proprio quello che avverrà nel caso degli Spartakisti. Certamente,
dal mese del novembre 1918, la situazione aveva subito una notevole evoluzione.
Una parte delle truppe era stata smobilitata dopo il rientro in Germania ed
inoltre molti reggimenti erano stati contaminati dalla propaganda rivoluzionaria.
In ogni caso, unità rimaste fedeli verranno messe a disposizione del Consiglio del
commissari del popolo, la cui figura centrale nel corso di queste giornate cruciali
diventerà Gustav Noske (1868-1946). Quest’ultimo può contare parimenti sul
concorso dei Corpi Franchi, formazioni di volontari costituiti al di fuori del
contesto ufficiale dell’esercito. Una ostilità radicale nei confronti dei “rossi”
come anche la difficoltà di reinserimento nella vita civile, dopo gli anni passati in
trincea, senza dimenticare la prospettiva di un salario in questi periodo di pesanti
incertezze economiche, costituiscono le motivazioni di questo nuovo tipo di
soldati, dei quali Ernst von Salomon (1902-1972) ha tracciato un ritratto nel suo
romanzo autobiografico i Reprouvé (I Proscritti). Dopo otto giorni di accaniti
combattimenti, le forze riunite del governo legale riescono a sconfiggere gli
insorti, una vittoria accompagnata da una terribile repressione, fra cui spicca
simbolicamente l’esecuzione di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht.
La settimana rossa di Berlino non costituisce un evento isolato, Lo stesso
scenario si ripete identicamente a Monaco di Baviera. In quest’ultima località, la
monarchia bavarese era stata travolta dalla rivoluzione agli inizi del mese di
novembre. Sulle rovine dello stato si era formato un governo, frutto dell’unione
di diverse fazioni socialiste, con a capo Kurt Eisner (1867-1919). L’assassinio di
Eisner, avvenuto il 21 febbraio 1919, lascia il campo libero agli elementi più
radicali, che insediano una Repubblica dei Consigli, mentre il governo legale si
stabilisce a Bamberga, mentre per tutto il paese, bande comuniste organizzano
“battute contro gli aristocratici”. Il governo per riconquistare Monaco riunisce
una forza di 50 mila uomini, composta da truppe regolari, da Corpi Franchi, fra i
quali quello del colonnello Franz Von Epp (1868-1946). Il contrattacco, lanciato il
1° marzo 1919 riconquista la città in un breve periodo di tempo. Ha inizio, a quel
punto, la caccia ai rivoluzionari e, come a Berlino, la repressione sarà terribile,
con un bilancio di almeno un migliaio di morti.
Dopo la scomparsa della monarchia, l’Ungheria cade in una situazione di estrema
confusione. Poco dopo le dimissioni del conte rosso Mihaly Karolyi di
Nagykarolyi (1875- 1955), eletto alla guida della Repubblica democratica
ungherese nel novembre 1918, una alleanza fra comunisti e social democratici
insedia il 21 marzo 1919 una repubblica dei Consigli, dominata dalla figura di Bela
Kun (1886-1938). Il nuovo potere di Budapest porta avanti una doppia politica di
recupero dell’Ungheria nelle sue frontiere storiche e di collettivizzazione. Se il
primo obiettivo gli apporta simpatie nell’opinione pubblica al di fuori dell’ambiente
operaio, il secondo obiettivo viene accolto con grandi riserve dal mondo
contadino, particolarmente deluso dalla mancata scelta sulla redistribuzione
delle terre.. La Repubblica dei Consigli, contestata, all’interno come anche
all’esterno, instaura a partire da quel momento un regime di terrore rosso che
provocherà dalle 500 alle 600 vittime. L’impresa della riconquista delle province
perdute ottiene qualche successo, specialmente in Slovacchia, ma servirà a
scatenare contro l’Ungheria una larga coalizione che riunisce, sotto il patronato
della Francia,, la Cecoslovacchia, la Serbia e la Romania. Punta di lancia di questa
reazione sarà l’esercito rumeno, che spingerà la sua offensiva fino a Budapest,
che conquista il 4 agosto 1919 e che occuperà fino alla metà di novembre dello
stesso anno. Bucarest potrà vantarsi di aver tenuto il ruolo di bastione contro il
bolscevismo, una tesi ancora oggi fortemente sostenuta dagli storici rumeni. Tre
giorni prima della caduta di Budapest, crolla la Repubblica dei Consigli, dopo una
vita di 133 giorni, un periodo sufficientemente lungo per imporre un regime di
terrore ai suoi oppositori, utilizzando a tal fine bande di giovani fanatici
conosciuti sotto il nome di “ragazzi di Lenin”. La partenza delle truppe rumene
lascia però lo spazio libero all’azione della contro rivoluzione. L’esercito nazionale,
riunito a Seghedino dall’ammiraglio Miklos Horthy di Nagyabanya (1868-1957),
l’ultimo comandante della flotta austro-ungarica, marcia su Budapest,
conquistandola. Al terrore rosso si sostituisce il “terrore bianco”, che
provocherà più di 5 mila vittime.
Guerra civile russa
L’offensiva rumena sarebbe stata seriamente contrastata se se i Sovietici
avessero potuto invadere la Romania, come in effetti ne avevano l’intenzione, per
poter soccorrere la rivoluzione ungherese. Ma l’Armata Rossa subisce nello
stesso momento un rovescio in Ukraina ed il progetto non trova pratica
esecuzione. Questo episodio si inscrive, in effetti nel contesto generale della
guerra civile russa che era scoppiata appena un mese dopo la presa di potere da
parte dei Bolscevichi e che durerà fino al 1922. Suddivisa in diversi fronti, la
guerra si estende ben presto sull’insieme del territorio del defunto impero
zarista, dalla Finlandia fino all’Estremo Oriente. In reazione alla pace di Brest
Litowsky, con la quale si mobilita il senso patriottico russo, si organizza la
resistenza al nuovo potere russo. Le diverse opposizioni (socialisti rivoluzionari,
menscevichi, monarchici) entrano nella lotta armata contro il regime bolscevico.
Questa, a sua volta, organizza ugualmente contro di lui numerose minoranze
nazionali nei Paesi Bakraina, nel Caucaso ed alcune potenze straniere (Tedeschi,
Americani, Inglesi, Francesi, Giapponesi) intervengono nel conflitto.
Fra tutte le forze impegnate sul terreno, le più temibili sono le Armate Bianche
dei monarchici. Agli inizi dell’autunno del 1918, il territorio controllato dai
Bolscevichi, assaliti da diversi lati, si è ristretto ed assomiglia piuttosto ad una
fortezza assediata. Dal punto di vista del rapporto di forze, la logica avrebbe
detto che la bilancia si sarebbe piegata dalla parte dei nemici della rivoluzione. E,
tuttavia, al termine del conflitto, sarà proprio la rivoluzione che ne uscirà
vincitrice e consoliderà il suo potere. Essa aveva dovuto affrontare tre Armate
Bianche: a sud, l’esercito dei volontari comandato dal generale Anton Ivanovic
Denikin (1872-1947); a nord ovest, l’esercito del generale Nikolai Judenich
(1862-1933); nella Siberia occidentale, l’esercito dell’ammiraglio Alexander
Vasilievic Koltchak (1874-1920), rinforzata da circa 40 mila uomini di una legione
di volontari cechi e slovacchi. Ciascuna di queste armate riporta alcuni successi
iniziali, ma nessuna riesce a trasformare il proprio vantaggio ed tutte alla fine
verranno sconfitte.
Questo sviluppo degli eventi si spiega in parte con la mancanza di coordinamento
fra le forze bianche, riflesso delle divisioni e delle gelosie fra i diversi capi.
Inoltre, l’intervento delle potenze delle potenze straniere, che avrebbe potuto
costituire una vera minaccia per i Bolscevichi, rimarrà limitato ed in ogni caso
insufficiente per far pendere la bilancia dalla parte dei contro rivoluzionari.
Gli alleati dell’Intesa avevano certamente percepito il Trattato di Brest Litowski
come un colpo di pugnale alle spalle: questo “tradimento” dell’antico alleato aveva
consentito di accrescere la forza di percussione dell’offensiva lanciata ad ovest
dal generale Eric Ludendorff (1865-1937), che avrebbe portato le truppe
tedesche a qualche decina di chilometri da Parigi ed era stata molto vicina ad
assicurare al Reich la vittoria finale. A tutto questo si aggiungeva il timore di un
contagio rivoluzionario fuori delle frontiere della Russia.. Ma per minacciare la
rivoluzione bolscevica, sarebbe stato necessario che questo intervento fosse
stato di massicce dimensioni. Inglesi e Francesi riforniscono di armi il generale
Denikin, l’aviazione inglese interviene nell’estremo nord. George Clemenceau
(1841-1929) ipotizza una operazione in grande stile in Ukraina con l’impiego delle
truppe dell’Esercito d’Oriente, ma successivamente ci rinuncia. Dopo più di
quattro anni di una guerra terribile, l’opinione pubblica francese non era più
disposta a seguirlo. In definitiva, questi interventi stranieri, marginali, avranno
poco impatto sullo svolgimento generale della guerra.
Infine e forse soprattutto, i Bolscevichi debbono la loro vittoria ad una disciplina
e ad una organizzazione chiaramente superiori, esse stesse basate su strutture
repressive di estrema efficacia, come la Ceca. La determinazione dei capi
nazionali e locali risulta alimentata anche dalla certezza che essi probabilmente
non sopravvivranno ad una sconfitta. Al di là di queste considerazioni, la guerra
civile russa risulta essere la matrice dei crimini di massa del 20° secolo. La
presenza di numerosi Ebrei nel Komintern, porta al suo parossismo
l’antisemitismo, già tradizionale dei “Bianchi”. I progrom perpetrati dalle loro
armate causeranno diverse centinaia di migliaia di vittime, ovvero il bilancio più
elevati prima della Shoah. Ma il terrore rosso non rimane con le mani in mano.
Oltre ai numerosi crimini della Ceca, vale la pena ricordare l’assassinio della
famiglia imperiale nella notte fra il 16 ed il 17 luglio 1918; la messa fuori legge
della Chiesa ortodossa con l’esecuzione di più di mille pope e 25 vescovi: la messa
in opera di un sistema di campi di concentramento (più di 100 campi nel 1920) che
sopravvivrà alla guerra civile; i primi processi politici truccati, come quello dei
capi socialisti rivoluzionari nel 1922; la repressione nel sangue delle rivolte
contadine, come quella di Tambow nel 1921.
Linee di spartizione
Se i Bolscevichi riescono a ristabilire il loro controllo nel cuore del vecchio
impero, Mosca deve registrare almeno tre rovesci sui suoi margini. Questa seria
ha inizio con la perdita della Finlandia nei primi mesi del 1918. Appoggiati dalla
divisione tedesca del generale tedesco di origine estone Rudiger von der Goltz
(1865-1946), i “Bianchi” ottengono il sopravvento e lo conservano al prezzo di una
repressione spietata, con non meno di 35 mila vittime (uno dei primi massacri di
massa). Il potere bolscevico subisce un’altra sconfitta nei Paesi baltici. La Russia
era stata spossessata della sua sovranità su questi territori dal trattato di Brest
Litowsky. Secondo i termini dell’Armistizio di Rethondes, le truppe tedesche che
vi erano ancora schierate avrebbero dovuto evacuare la regione. Purtroppo, di
fronte alla minaccia di una invasione da parte dell’Armata Rossa, gli Alleati
rivedono la loro posizione ed in tale contesto, mentre vengono costituiti governi
indipendenti, i corpi franchi tedeschi riuniti in una divisione, hanno il compito di
costituire il bastione di difesa contro l’Armata Rossa, specialmente in Estonia ed
in Lettonia. In tal modo, il Baltikum (altro nome attribuito ai Corpi Franchi) con il
concorso di unità delle giovani repubbliche, riesce a respingere i tentativi russi.
Ma dopo la conquista di Riga a danno dei Russi, del 22 maggio 1919, la guerra
cambia di fisionomia. I Corpi Franchi si rivolgono contro gli alleati di ieri, con
l’obiettivo di far rientrare questi paesi nel campo della Germania, ma l’impresa
non sarà coronata da successo. Alle prese con gli eserciti della Lettonia e
dell’Estonia più coriacei del previsto, sotto la pressione degli Alleati, i Corpi
Franchi del Baltikum vengono richiamati in Germania, mentre una parte di questi
aderirà alle forze dei “Bianchi”.
La Polonia é il terzo fronte, dove i Bolscevichi subiscono uno scacco e dove si si
oppongono due ambizioni nettamente contrarie. Per i Russi, la Polonia costituisce
il punto di passaggio indispensabile per l’estensione della rivoluzione ad ovest e
più in particolare in Germania.. Dal lato polacco, avendo il Trattato di Versailles
lasciato nel vago la questione delle frontiere ad est, si trattava di ricostituire la
Grande Polonia di prima della spartizione del 1772. Il 6 maggio 1920 una
fulminate offensiva porta i Polacchi fino a Kiev. Ma questa vittoria risulta di
corta durata. L’altrettanto fulminante controffensiva dell’Armata Rossa
comandata dal generale Mikail Nicolaevic Tuchacewski (1893-1937), si spinge
fino alle porte di Varsavia. Per evitare alla Polonia un disastro lordo di
conseguenze per sé e per l’Europa la Francia, in particolare provvede a rifornire
di armi l’esercito polacco, affiancando anche una missione militare, guidata dal
generale Maxime Weygand (1867-1965). Recuperate le forze l’esercito polacco,
sotto la guida di Josef Pilsudski (1867-1935), vince verso la metà dell’agosto
1920 la battaglia di Varsavia e quindi lancia un contrattacco che respinge il
nemico a più di 400 chilometri. Il Trattato di Riga, del 18 marzo 1921, mette fine
alla guerra. Esso sanziona il fallimento da parte dei Bolscevichi di aprirsi la
strada verso la Germania. Da parte polacca, le frontiere orientali vengono
portate a più di 150 chilometri ad est della ipotizzata linea Curzon, inizialmente
tracciata dagli Alleati durante i negoziati di pace di Parigi ed includendo
popolazioni bielorusse ed ukraine.
Sul suo fianco sud ovest, la Polonia viene impegnata in un altro conflitto. Si
tratta dell’alta Slesia, disputata fra Germania e Polonia. Il Trattato di Versailles
aveva previsto un plebiscito per risolvere la questione. Il voto del 20 marzo 1921
attribuisce la maggioranza ai Tedeschi, ma in condizioni di forte dubbio. L’Alta
Slesia diventa, a quel punto, il teatro di uno scontro armato fra i Polacchi di
Wojciek Korfanty (1873-1939) ed i Corpi Franchi tedeschi. Il conflitto viene alla
fine risolto con un arbitrato internazionale che decide la spartizione della
provincia.
Ci si batte anche in Estremo Oriente. Prima ancora della firma del Trattato di
Sevres, Francesi, Italiani e Greci avevano iniziato a ritagliarsi alcuni lembi
dell’Anatolia. A questo quasi palese attentato all’integrità della Turchia, si oppone
una violenta reazione patriottica. L’esercito di Mustafà Kemal (1881-1938), si
oppone apertamente all’applicazione di queste disposizioni e si impegna in accaniti
combattimenti contro i Greci. La fortuna delle armi conosce anche dei rovesci.
Dopo aver subito una cocente sconfitta ad Inonu, i Greci avanzano sino alle
vicinanze di Ankara, ma nell’agosto 1922, dopo tre anni di scontri, Mustafà Kemal
riporta la vittoria decisiva, che ributta un milione e mezzo di Greci verso il mare,
dopo che le sue truppe ne hanno massacrato sul campo diverse decine di migliaia.
Il Trattato di Losanna, firmato il 24 luglio 1923, cancellando per gran parte
quello di Sevres, sanziona la fine di 25 secoli di presenza greca in Asia minore,
mentre i Turchi riprendono il controllo di Constantinopoli, della Tracia orientale e
dell’Anatolia.
I tempi supplementari si avviano ormai al loro termine. Uno dopo l’altro, i diversi
fronti si sono stabilizzati. Il fuoco cova ancora sotto la brace. Le soluzione
escogitate, spesso imposte hanno lasciato frustrazioni e risentimenti. 15 anni più
tardi, a partire dal 1938, essi si ritroveranno nuovamente sotto i proiettori
dell’attualità europea, fino allo scoppio della seconda Guerra Mondiale.
BIBLIOGRAFIA
Babel Isaak, L’armata a cavallo, Feltrinelli, 1955;
Grey Marina, Bordier Jean, Le armate bianche: Russia 1919-1921, Mondadori,
1971;
Le Breton Jean-Marie, Una storia infausta: l’Europa centrale e orientale dal
1917 al 1990, il Mulino, 1999;
von Salomon Ernst, I proscritti, Baldini & Castoldi, Milano, 2001
1959, il subcontinente sudamericano prende fuoco
(Pubblicato sul n. 278, luglio 2020, della Rivista Informatica “Storia in
Network” - www.storiain.net con il titolo “1959: GUERRIGLIERI,
STUDENTI E PRETI INFIAMMANO IL SUDAMERICA”)
La conquista del potere di Castro nel 1959 a Cuba, provoca un rialzo di
temperatura rivoluzionaria. Il sub continente sudamericano passa in primo
piano sulla scena internazionale. Ma nel contesto bloccato della Guerra
Fredda e con gli Stati Uniti in contro manovra, gli antidoti non tardano ad
arrivare.
l 19 gennaio 1959, quasi tre settimane dopo la caduta del governo
autoritario cubano di Fulgenzio Batista (1901-1973) e l’irruzione dei primi
ribelli della Sierra Maestra nel palazzo presidenziale dell’Avana, la rivista
newyorkese Life, propone ai suoi 6 milioni di lettori un articolo intitolato: “La
marcia trionfale del liberatore attraverso un isola estatica”. Ritracciando il
periplo che porta Fidel Castro (1926-2016) dall’est del paese fino alla capitale
cubana, che egli raggiunge l’8 gennaio, l’autore del reportage annota che “quando
egli è finalmente entrato all’Havana, il mondo intero ormai parlava di lui”.
La stampa internazionale, pronta a mettere in scena la vittoria dei Barbudos
sotto il punto di vista dell’epopea e del romanticismo rivoluzionario e per
opposizione all’American Way of Life o al materialismo dei gloriosi anni 1930,
conferisce, nel giro di qualche settimana, una inedita centralità a Cuba. Un’isola
che era certamente stata uno dei gioielli dell’impero spagnolo nel Nuovo Mondo,
ma che per effetto di uno statuto di semi protettorato degli Stati Uniti,
instaurato dall’interruzione del legame coloniale con Madrid nel 1898, aveva in
qualche modo relegato Cuba nell’oblio della geopolitica. ! Persino un tenace e
storico oppositore del castrismo scriverà recentemente in un suo libro (1): “Nel
I
mese di gennaio 1959 Cuba è entrata nella storia universale”. Ma, nei fatti, dopo
il 1959, è l’intera America latina che entra nuovamente nella storia universale,
proprio perché gli avvenimenti cubani inaugurano un vero momento rivoluzionario
che non risparmierà alcun paese, né alcun settore sociale della regione e che
marcherà profondamente con la sua impronta un quarto di secolo della vita
politica fra il Rio Bravo e la Terra del Fuoco. Un momento storico che, sebbene
ancorato nel periodo della guerra fredda, trasforma radicalmente il destino del
sub continente, nonché questa presunta periferia, come anche gli immaginari
collettivi che gli sono stati sempre associati.
Cuba, il socialismo incanta di nuovo
Eppure, tutto non è cominciato a Cuba. Senza risalire ancora più lontano nel
tempo alla rivoluzione messicana del 1910, che anch’essa ha avuto una vasta eco
fino alle rive del Rio della Plata, né alle sollevazioni agrarie della Colombia degli
anni 1930 che costituiscono un territorio fertile per la guerriglia della 2^ parte
del 20° secolo, l’inizio degli anni 1950 marca indubbiamente l’inizio di questo
momento rivoluzionario. In Bolivia, l’ascesa al governo, attraverso elezioni, del
Movimento Nazionalista Rivoluzionario (MNR) di Victor Paz Estenssoro (1907-
2001) nel 1952, a seguito di una sommossa che aveva unificato il mondo delle
miniere con quello delle campagne del meticciato o indigeno, viene seguito da un
processo di ridistribuzione delle terre senza precedenti, di nazionalizzazione dei
beni di produzione e da dispositivi di inclusione sociale, sebbene il governo perda
rapidamente il consenso della maggior parte dei gruppi sociali che l’avevano
portato al potere. Alla fine, la rivoluzione boliviana si conclude nel 1964 con un
colpo di stato militare.
Nello stesso momento, nel Guatemala, il presidente eletto nel 1951 Jacobo
Arbenz Guzman (1913-1971), dà inizio ad una ambiziosa riforma agraria che viene
a toccare gli interessi delle compagnie americane della frutta, insediatesi nello
stato sin dalla fine del 19° secolo. Ma Arbenz viene rovesciato nel giugno 1954 da
una operazione pilotata dalla CIA – con la benedizione dell’Organizzazione degli
Stati Americani ed il silenzio, imbarazzato, della Comunità Internazionale.
Sebbene la maggior parte dei paesi dell’America latina appaia come un archetipo
di un terzo mondo che scopre, proprio in quel momento (2), di trovarsi di fronte
ad una crescita demografica galoppante (con un tasso di crescita annuale della
popolazione del 2,8% fra il 1961 ed il 1970) e di battere tutti i suoi record in
materia di povertà e di ineguaglianza, gli interventi americani e l’estremo
conservatorismo delle oligarchie locali sembrano escludere, nel breve periodo,
qualsiasi trasformazione sociale di natura riformista. Da quel momento, si impone
naturalmente ad una parte delle sinistre latino americane, la scelta dell’opzione
della rivoluzione e della lotta armata. L’argentino Ernesto Che Guevara (1928-
1967) presente a La Paz nel 1952 ed a Città del Guatemala nel 1954, incarna,
abbastanza significativamente, questo momento di radicalizzazione anteriore al
1959, sebbene il suo incontro con i fratelli Castro, a Mexico City nel luglio 1955,
sia altrettanto decisivo nella costruzione del mito rivoluzionario che si affermerà
successivamente.
In questo contesto, la potenza di seduzione, esercitata dalla rivoluzione cubana
in America latina per almeno dieci anni, si è basata essenzialmente su tre fattori:
In primo luogo, l’eccezionalità del processo che porta Castro al potere (82
guerriglieri sbarcati dallo yacht Granma nel dicembre 1956 sulla spiaggia di Las
Coloradas a Niquero, che riescono a vincere un esercito sostenuto, fino quasi alla
fine, da Washington) o quanto meno la messa in scena di questa eccezionalità - in
particolare da parte di Regis Debray (1940 - ) nel suo best seller Rivoluzione
nella Rivoluzione ? del 1967 – in quanto l’opposizione al regime dittatoriale di
Batista risultava molto ampia e non si è mai ridotta, in realtà, ai soli Barbudos.
In secondo luogo, la sua autentica capacità di trasformazione sociale nei primi
anni, estrinsecata dalla riforma agraria, alla campagna di alfabetizzazione,
passando attraverso politiche pubbliche decisamente progressiste per quanto
riguarda le donne, nonché dall’accesso alla sanità o dalla democratizzazione
culturale.
In terzo luogo, l’ardore che ha posto il regime nel difendersi dai diversi tentativi
di destabilizzazione e nel mantenersi al potere, sia durante l’embargo, decretato
dagli USA a partire dal 1960 (con la contropartita di rinunciare ai sogni originali
di non allineamento per gettarsi nelle braccia di Mosca) od anche nel tentativo di
sbarco contro rivoluzionario della Baia dei Porci nell’aprile 1961.
La Conferenza tricontinentale, organizzata a L’Avana nel gennaio 1966, che
riunisce 512 delegati provenienti da 82 paesi appartenenti, in maggioranza, al
“terzo mondo”, costituisce l’acme della rivoluzione cubana, non solo in America
latina, ma anche in Africa ed in Asia. La fondazione, in questo contesto,
dell’Organizzazione di Solidarietà dei Popoli d’Asia, Africa ed America latina
(OSPAAAL) dota la politica straniera castrista di un nuovo organo ufficioso,
mondialmente conosciuto anche per la qualità grafica dei manifesti di
propaganda, che verranno prodotti e diffusi sotto la sua direzione.
Ovunque a sud del Rio Bravo si sono costituiti gruppi di guerriglieri che hanno
adottato una organizzazione propria oppure estrapolandola dal modello
rivoluzionario dei focos guevaristi: nel caso specifico, il Movimento della Sinistra
Rivoluzionaria di Domingo Alberto Rangel Bourgoin (1923-2012) nel Venezuela
(MIR, 1960), scissione del Partito Socialdemocratico Azione democratica (AD),
allora al potere; le Forze Armate Ribelli nel Guatemala (FAR, 1962); o ancora
l’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN) e le Forze Armate Rivoluzionarie
(FARC) in Colombia, entrambi costituite nel 1964. Nella seconda metà degli anni
1960 verranno ad aggiungersi guerriglie urbane, sull’esempio dei Tupamaros
uruguaiani (1965) o dell’Esercito Rivoluzionario del Popolo, in Argentina (ERP,
1970). Molti di questi guerriglieri risultano transitati da Cuba, vera Mecca
rivoluzionaria degli anni 1960 e spesso vi sono stati formati militarmente, poiché
L’Avana cerca in tutti i modi di esportare la sua rivoluzione, per meglio
consolidarla di fronte al nemico imperialista, incarnato, dalla fine del 19° secolo,
dagli USA.
Il movimento del 1968, al quale, evidentemente, non sfugge anche l’America
latina, consente di misurare l’ampiezza dell’onda d’urto cubana, poiché anche gli
studenti in rivolta del Cile (1967), del Brasile e del Messico (1968) o della
Colombia (1971), o gli operai del Cordobazo argentino (1969) rivendicano - in
maniera più o meno esclusiva, a seconda dei casi - l’eredità del castrismo o del
guevarismo.
Fuori dall’America latina e nonostante la cocente sconfitta dell’esperienza di Che
Guevara, partito per il Congo, nel 1965, presso Laurent Desirée Kabila (1939-
2001) e di Pierre Mulele (1929-1968), Cuba lancia, a quel punto, una nuova fase
del suo internazionalismo rivoluzionario e di espansione del socialismo, inviando al
massacro circa 300 mila uomini in Angola, fra la metà degli anni 1970 e la fine
degli anni 1980. Tutto questo in nome della lotta contro il colonialismo e
dell’espansione del socialismo, senza, tuttavia, riuscire a sviluppare un suo proprio
programma di fronte alle pressioni dell’Unione Sovietica.
Peraltro, nello stesso periodo, la rivoluzione cubana riceve anche il sostegno di
numerosi intellettuali del mondo intero, specie occidentale, che, appena tre anni
dopo il 20° Congresso del Partito Comunista Sovietico (che ha reso pubblici i
crimini dello stalinismo e considerevolmente “offuscato” “la grande luce nata
all’Est” ), pensa di potervi intravvedere i segni di una rinascita e di un rilancio
dell’orizzonte socialista al di sotto dei tropici. La Cuba di Castro attira
importanti flussi di militanti europei, provenienti dal “Baby boom”, nutriti di idee
del terzomondismo nascente, di critiche della società dei consumi e desiderosi di
mettere mano alla rivoluzione.
Il viaggio a Santiago
I movimenti di guerriglia non sono le sole espressioni di questo momento
rivoluzionario, che si concretizza anche in diverse esperienze di governo. La
rivoluzione militare peruviana del 1968, sotto la guida del generale Juan Velasco
Alvarado (1910-1977), si traduce, in tale contesto, in una riforma agraria di
notevole ampiezza ed in un tentativo di politica indiana - fatto eccezionale per
l’epoca - mentre Lima e l’Avana ristabiliscono le loro relazioni diplomatiche. Nel
settembre 1970, la vittoria elettorale dell’Unione Popolare (UP, coalizione di
forze politiche di sinistra) nel Cile viene percepita da numerosi osservatori, con
accentuato strabismo a sinistra, come una possibile “seconda Cuba”, sebbene
l’ostinazione del socialista Salvador Allende Gossens (1908-1973; vittorioso al
suo quarto tentativo alle elezioni presidenziali) e la “via cilena al socialismo”,
risolutamente democratica, abbiano ben poco a che vedere con la teoria dei focos
rivoluzionari e con il regime del partito unico instaurato a Cuba nel 1965.
Di fatto, mentre le sinistre europee guardano a Cuba come un simbolo anti
imperialista, carico di esotismo e di una sorta di folklore rivoluzionario,
l’esperienza cilena si costituisce come un autentico nuovo modello, che incarna le
possibilità di vittoria elettorale di una unione delle sinistre. François Mitterand
(1916-1996), Gaston Defferre (1910-1986), per il Partito Socialista francese,
cinque mesi dopo il Congresso d’Epinay, che ha visto nascere il PS sulle ceneri
della SFIO, Jacques Duclos (1896-1975) ed Etienne Fajon (1906-1991) per il
Partito Comunista francese sono appena alcuni dei soggetti politici europei della
sinistra, che effettuano il viaggio a Santiago del Cile fra il 1970 ed il 1973 per
osservare da vicino o in situ la trasformazione radicale della società che ha
scelto, con i suoi voti, il governo di coalizione. Questa sequela di visite in Cile
contribuirà a rendere alquanto tese le relazioni fra Castro ed Allende, mal
sopportando il primo l’ombra che gli getta la fama internazionale acquisita dal
secondo.
L’immensa emozione internazionale provocata dal colpo di stato dell’11 settembre
1973 e la morte di Allende è, d’altronde, all’altezza delle passioni politiche che
aveva suscitato l’Unione Popolare cilena per tre anni, spesso percepita come un
nuovo tentativo di riconciliazione fra il marxismo e la democrazia, allo stesso
modo in cui lo era stato il socialismo dal volto umano di Alexander Dubcek (1921-
1992) in Cecoslovacchia. Inoltre, l’analisi della caduta dell’UP, compilata allora da
Enrico Berlinguer (1922-1984), Segretario Generale del Partito Comunista
Italiano, costituirà una matrice decisiva per il “compromesso storico” con la
Democrazia Cristiana e dimostra fino a che punto la vita politica latino americana
è ormai suscettibile di pesare al di là delle frontiere del sub continente
americano.
Con la più grande delusione degli ambienti conservatori, la febbre rivoluzionaria
guadagna ugualmente dei settori tradizionalmente poco inclini al filo comunismo,
come la Chiesa Cattolica. Dal 24 agosto al 6 settembre 1968 si riunisce a
Medellin, nel Dipartimento colombiano di Antiochia, la 2^ Conferenza
dell’episcopato latino americano. Due settimane di lavori portano alla
pubblicazione di un documento che sollecita le Chiese d’America latina a prendere
coscienza della misura delle sofferenze sopportate dall’immensa maggioranza
delle popolazioni della regione, facendo appello alla liberazione degli oppressi. Il
documento dei vescovi denuncia le strutture di dominio politico ed economico
ereditate dal periodo coloniale, condanna il capitalismo liberale e le ineguaglianze
che non cessano di aumentare, esprimendo una opzione preferenziale per i poveri.
Questi sono i grandi orientamenti delle conclusioni della Conferenza, che esigono
la messa in opera di una pastorale impegnata – anche sovversiva, se le circostanze
lo esigono - al fine dell’affermazione della fede cristiana come matrice della
trasformazione sociale, conformemente con il messaggio dei Vangeli e non come
un pilastro dell’ordine stabilito, nefasto effetto della eccessiva
istituzionalizzazione della struttura della Chiesa.
Conseguenza diretta dell’aggiornamento proveniente dal Concilio Vaticano 2°, la
Conferenza di Medellin cristallizza anche alcune mutazioni del cattolicesimo
latino americano dalla fine degli anni 1950. Nel Cile, Monsignor Manuel Larrain
Errazuriz (1900-1966) prende l’iniziativa della ridistribuzione delle terre
ecclesiastiche nel suo vescovado di Talca, al fine di lottare contro il precariato
contadino. Nel Brasile, dal suo arcivescovado di Olinda Recife, nel Pernambuco,
Monsignor Helder Pessoa Camara (1909-1999) prende una posizione a favore dei
contadini e reclama una riforma agraria. In Argentina, il Movimento dei Preti per
il Terzo Mondo (Sacerdotes para el Tercer Mundo) mette al centro del suo
discorso la questione del sotto sviluppo e dialoga con il marxismo e la teoria della
dipendenza nella seconda metà degli anni 1960. E’ da questa effervescenza
intellettuale che deriva la Teologia della Liberazione nel 1971, con la
pubblicazione concomitante della Teologia della Liberazione, Prospettive, del
teologo peruviano Gustavo Gutierrez (1928) e di Gesù Cristo liberatore, saggio di
cristologia critica, del brasiliano Leonardo Boff (1938 - ) Alcuni preti passano
persino all’azione, come il colombiano Camilo Torres Restrepo (1929-1966), che
prende le armi nell’ambito dell’ELN nel 1966 e muore in combattimento qualche
settimana più tardi.
Se questo Cristianesimo della Liberazione va incontro ad una certa eco in Europa,
esso ispira anche il più grande sospetto a Roma e non è un fatto di poco conto la
prima visita di un papa in America latina, quella di Paolo 6° (1897-1978), in
occasione della Conferenza di Medellin nel 1968. L’elezione di papa Giovanni Paolo
2° (1920-2005) segna la fine della teologia della liberazione che diventa oggetto
di una sistematica politica di repressione da parte di Roma.
Contro rivoluzione
La paura di una contaminazione di tutta l’America latina da parte dell’idea
rivoluzionaria diventa anche una potente molla nella politica estera degli USA. Il
13 marzo 1961, appena due mesi dopo l’arrivo alla Casa Bianca, John Fitzgerald
Kennedy (1917-1963) formula all’indirizzo del sub continente latino americano un
programma di una Alleanza per il Progresso, non privandosi di ricorrere al
paradigma rivoluzionario, come lo fanno a quel tempo quasi tutti gli attori politici
latino americani: “Noi proponiamo di portare a buon fine la rivoluzione delle
Americhe al fine di costruire un emisfero in cui tutti gli uomini possano sperare
un livello di vita decente nella dignità e nella libertà”. Nella speranza di minare i
fondamenti sociologici della sovversione, Washington si impegna a fornire un
aiuto allo sviluppo a tutti i governi che si dimostrino nello stesso tempo
anticomunisti e preoccupati di lottare contro la povertà e le disuguaglianze.
Il paese che beneficia maggiormente del dispositivo americano lungo gli anni 1960
è il Cile, soprattutto dopo la vittoria presidenziale del democratico Eduardo Frei
Moltalva (1911-1982) nel 1964, poiché Santiago riceve più di 1,5 miliardi di dollari
da parte del governo americano o da parte di istituzioni finanziarie multilaterali.
Invano, poiché questo non impedisce ad Allende di vincere le elezioni del 1970,
fornendo in tal modo alla Casa Bianca la sensazione che l’America latina risulti
presa in “un Sandwich fra Cuba ed il Cile”. Richard Nixon (1913-1994), che nel
1967 aveva stimato che l’America latina sarebbe diventata una polveriera se non
si fosse risolta la questione del sotto sviluppo, si orienta prioritariamente,
pressato dalle circostanze, sulla necessità di schiacciare “questo figlio di puttana
di Allende”. Nixon può essere considerato come uno dei principali ispiratori
intellettuali della tragedia cilena dell’11 settembre 1973 (3).
Se la responsabilità di Washington nell’ondata contro rivoluzionaria, che comincia
agli inizi degli anni 1960 è ormai dimostrata, sarebbe semplicistico e, comunque,
fare torto alla politica estera degli USA attribuire solo ad essi la
militarizzazione delle società latino americane. In seno a quest’ultime, in effetti,
una parte della gerarchia cattolica, le forze armate, i grandi proprietari terrieri,
le oligarchie economiche, come anche larghi settori dell’opinione pubblica, sono
favorevoli ed accolgono con entusiasmo l’instaurazione di regimi autoritari,
accordando loro un sostengo spesso duraturo. Questo atteggiamento è
testimoniato anche dall’esempio dell’entusiasmo di milioni di argentini per il
Mundial di calcio del 1978, nel momento in cui elementi della dittatura di Jorge
Videla (1925-2013) torturano oppositori spesso neanche a non molta distanza
dagli stessi stadi di calcio.
La diffusione della dottrina di sicurezza nazionale fra le gerarchie militari di
quasi tutti i paesi latino americani costituisce un elemento decisivo per
comprendere la natura di questi nuovi regimi autoritari. Basando i suoi principi
sulle riflessioni strategiche condotte negli USA, all’indomani della seconda
guerra mondiale, ma anche in seno alla Scuola Superiore di Guerra, fondata a Rio
de Janeiro nel 1949 ed alimentata dagli apporti tecnico-tattici della guerra
contro rivoluzionaria teorizzata dell’esercito francese (nel contesto delle sue
guerre coloniali a partire dalla fine degli anni 1950), questa dottrina mette
l’accento sul pericolo interno per i paesi occidentali rappresentato dal
comunismo, dando così la priorità allo “sradicamento del cancro marxista”.
Da queste considerazioni deriva la messa in opera di un sistema di controllo di
sicurezza da parte dello stato, spesso poco incline al rispetto delle regole e
tendente all’uso di metodi non di stretta ortodossia “democratica”, per
conseguire i suoi fini di sicurezza sociale e dando vita anche ad una
collaborazione internazionale fra i vari regimi nel contesto dell’Operazione
Condor ai fini della sicurezza interna. (4). In tale contesto. sono frequenti il
ricorso alla tortura, alle esecuzioni sommarie, alle sparizioni (spesso solo
fittizie); le vittime degli “anni di piombo” possono essere valutate a diverse
migliaia, spesso anonime e tale situazione ha determinato anche l’esilio e
l’emigrazione di molti latino americani nel corso degli anni 1970. I regimi di
sicurezza nazionale, però, non hanno il monopolio esclusivo della repressione dei
tentativi rivoluzionari. Nel Venezuela, dove la democrazia è stata ristabilita nel
corso del 1958, i governi social democratici di Romulo Betancourt Bello (1908-
1981) e di Raul Leoni (1905-1972, detto El Manteco) come anche quello del
democratico cristiano Rafael Caldera Rodriguez (1916-2009), conducono una
lotta senza quartiere contro i numerosi focos (focolari) rivoluzionari che sono
sorti, nel frattempo, nel paese. Nel Messico, dove il Partito Rivoluzionario
Istituzionale controlla senza opposizione lo spazio politico dalla fine degli anni
1920, la ribellione studentesca del 1968 viene schiacciata nel sangue proprio
qualche giorno prima dell’apertura dei Giochi Olimpici d’estate.
Autopsia di un fallimento
Nel luglio 1979, si apre in America centrale un ultimo capitolo governativo del
momento rivoluzionario con la vittoria del Fronte Sandinista di Liberazione
Nazionale (FSLN), che rovescia nel Nicaragua l’ultimo governo della dinastia dei
Somoza (Anastasio Somoza Debayle, 1925-1980). Il nuovo tentativo
rivoluzionario darà vita ad un’esperienza fallimentare, che rimarrà al potere fino
al 1990. Un anno più tardi, nel 1980, la costituzione del Fronte Farabundo Martì
di Liberazione Nazionale, nel Salvador (FMLN), costituisce una tappa decisiva
nello spostamento della febbre rivoluzionaria verso l’istmo centroamericano,
mentre il mito cubano subisce un progressivo appannamento al ritmo della
crescita dell’allineamento di Cuba su Mosca e della sovietizzazione del regime
dell’Avana.
Tuttavia, i tempi sono ormai molto cambiati dall’epoca dell’entrata trionfale dei
barbudos a l’Avana: all’orizzonte messianico della lotta armata, brutalmente
offuscata dai precedenti fallimenti e dalla morte del Che Guevara in Bolivia nel
1967, poi dalle lotte intestine fra guerriglieri, si è progressivamente sostituito
quello dei diritti dell’uomo, mentre il marxismo resiste sempre di meno alle
plurime delusioni derivate dall’applicazione del socialismo reale.
Nel 1964 un colpo di stato porta al potere in Brasile una giunta mista militari e
civili che terranno il potere fino al 1985. In particolare, i militari brasiliani
saranno quelli che metteranno a punto il modello dei governi di sicurezza
nazionale e che, a partire dal 1968 al 1974, condurranno una lotta senza
quartiere contro la guerriglia urbana e rurale della sinistra nel Paese.
Negli Stati Uniti, la determinazione del nuovo presidente Ronald Reagan (1911-
2004) nell’azione per lo sradicamento dei Sandinisti si traduce, nei fatti, con un
sostegno finanziario e militare massiccio ai contra anti sandinisti, come anche
nella violenza scatenata dagli squadroni della morte nel Salvador, responsabili, in
particolar modo dell’assassinio dell’arcivescovo Monsignor Oscar Romero (1917-
1980). Le ultime febbri rivoluzionarie vengono soffocate nel corso degli anni
1980, fatto che tende a riportare nuovamente l’America latina, piombata allora
nel “decennio perduto dei debiti”, in una posizione di secondo piano nelle relazioni
internazionali.
60 anni dopo la fiammata del 1959, che cosa rimane di questi due decenni
durante i quali le sinistre latino americane hanno tentato di trasformare con la
violenza le società ? Un regime cubano, con fiatone, che è sopravvissuto alla
caduta dell’Unione Sovietica alla fine degli anni 1980 ed inizi del 1990 ed alla
morte di Fidel Castro, ma che ha ormai rinunciato a propagazione dell’ideologia,
aprendosi gradualmente al capitalismo, ma persistendo nel confinare la sua
popolazione ai margini del mondo. Sebbene la memoria dei militanti caduti sotto i
colpi della repressione rimanga ancora viva, non vanno comunque sottovalutate le
cocenti sconfitte subite ed, in particolar modo, le numerose illusioni perdute.
L’America latina rimane ancora oggi una regione del mondo che presenta grandi
diseguaglianze sociali e che risulta, statisticamente, la più violenta del mondo.
Tutto questo, nonostante che, a partire dal 1973 (dal colpo di stato in Cile) sia
diventata il laboratorio della mutazione neo liberale, che ha caratterizzato la
storia globale degli ultimi 40 anni, ma, anche e soprattutto, per il fatto che il
succedersi di numerosi governi di sinistra, giunti legalmente al potere dopo il
1985 attraverso regolari elezioni, siano stati capaci solo di aggiungere ulteriori
delusioni alle precedenti già frustranti delusioni.
NOTA
(1) Machover Jacobo, “Cuba da Batista a Castro, Una contro storia”, Buchet
Chastel, 2018;
(2) Il demografo Alfred Sauvy ha lanciato l’espressione nel 1952 come
riferimento a terzo stato dell’Ancien Regime;
(3) Coppolani A., Richard Nixon, Fayard, 2013;
(4) Piano Condor. Alla fine del 1975, il capo della polizia politica cilena Manuel
Contreras, invita a Santiago i capi dei servizi di informazione militare
dell’Argentina, della Bolivia, del Brasile, del Paraguai e dell’Uruguai per una
riunione segreta, con l’obiettivo di sistematizzare, modernizzare e rendere
multilaterale la collaborazione dei 6 paesi nel campo della sicurezza interna.
Nella stessa riunione vengono messe a punto le teorie contro insurrezionali, con
l’applicazione sul campo di metodi di guerra rivoluzionaria e soprattutto di
operazioni di propaganda e di disinformazione oltre ad un’azione coordinata degli
stati contro la sovversione. La predetta riunione decreta la nascita di una
centrale comune informativa, alimentata dagli schedari dei paesi membri, la
realizzazione di azioni di sicurezza congiunte all’interno dei 6 paesi e la
sorveglianza, la detenzione di oppositori, la loro estradizione clandestina ed in
alcuni casi alche la loro eliminazione.. Queste decisioni daranno origine a quella
che viene comunemente definita come Piano Condor. La scelta del rapace andino
deriva dal fatto che lo stesso fa parte del blasone di numerose nazioni andine e
perché, vigila per poi piombare silenziosamente sulle sue prede.
CRONOLOGIA
1959, 1° gennaio. Gli insorti della Sierra Morena prendono il potere a Cuba;
1961, aprile. Fallimento dello sbarco dei contra appoggiati dagli USA nella Baia
dei Porci;
1962. Crisi dei missili cubani fra Mosca e Washington. L’URSS è costretta a
fare marcia indietro;
1963-1966. Quattro colpi di stato danno la nascita a Giunte militari Ecuador nel
1963, Bolivia e Brasile nel 1964, Argentina nel 1966 ed inaugurano una
militarizzazione delle società latino americane;
1964. Vengono create le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC);
1966. Conferenza tricontinentale all’Avana che riunisce 512 delegati di 82 paesi.
Si tratta dell’acme del modello cubano. L’argentino Ernesto Che Guevara assume
la guida di una guerriglia in Bolivia, dopo le fallimentari esperienze in Africa
centrale;
1967, 9 ottobre. Il Che, fatto prigioniero in Bolivia, viene giustiziato. La sua
morte simbolizza ed annuncia il fallimento delle varie guerriglie;
1968. Un colpo di stato nel Perù dà la nascita alla dittatura riformista del
generale Velasco Alvarado;
1970. Il socialista Salvador Allende, sostenuto dall’Unione Popolare (coalizione
dei partiti della sinistra) viene eletto presidente del Cile;
1973, giugno. Un colpo di stato in Uruguai instaura una giunta militare;
1973, 11 settembre. Pinochet, sostenuto dalle forze armate conduce
vittoriosamente un colpo di stato in Cile, nel quale viene ucciso Allende;
1975. Nel Perù un nuovo colpo di stato mette fine al governo dittatoriale
riformista di Alvarado;
1975, novembre. Riunione fondatrice a Santiago del Piano Condor, che
raggruppa Cile, Argentina, Brasile Bolivia, Paraguai ed Uruguai;
1976, 24 marzo. Colpo di Stato in Argentina con assunzione dei poteri da parte
di una giunta militare formata delle tre Forze Armate (Jorge Videla);
1979, 19 luglio, Il fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN) prende il
potere in Nicaragua;
1979, 10 agosto. Nell’Ecuador, l’elezione del presidente Roldos Aguilera segna
l’inizio della fine dei regimi militari. Ha inizio nell’America latina l’epoca delle
transizioni democratiche.
1919, DISTRUZIONE DELLA MITTELEUROPA
(Pubblicato sul n. 280, ottobre 2020, della Rivista Informatica “Storia in
Network” - www.storiain.net con il titolo “LA FINE DELLA MITTELEUROPA:
LA STORIA SCAPPATA DI MANO”)
E’ passato da poco il 100° anniversario della firma dei Trattati del 1919,
come anche l’80° anniversario di una nuova guerra iniziata 20 anni dopo. Una
breve indagine per capire come sono stato preparati i trattati. Fino al 1916
la fine dell’Impero asburgico e di quello tedesco non era tra gli obiettivi di
guerra dell’Intesa. Ma la posizione francese si fece progressivamente
sempre più intransigente, mentre Benes e Masarik aumentavano le pressioni
su Londra e Washington …
E’ trascorso da poco il 100° anniversario della firma dei Trattati che hanno
deciso la sorte della Mitteleuropea alla fine della 1^ Guerra Mondiale. Ma nel
2019 è passato anche l’80° anniversario dello scoppio della 2^ Guerra Mondiale. Il
periodo eccezionalmente corto che separa i due avvenimenti, appena 20 anni,
appena il tempo di una generazione, ci pone alcuni interrogativi. Sarebbe assurdo
negare che possono essere esistiti legami fra i trattati del 1919-20 e lo scoppio
del 2° Conflitto Mondiale. Pace ingiusta ? Pace frettolosa e malfatta ? Pace
sviata dai principi, in nome del quale gli uomini si erano battuti ? Alla nostra
generazione cercare di spiegarne le cause e le ragioni !
Dal settembre 1914, al Foreign Office ed al Quai d’Orsay, diplomatici ed esperti
hanno cominciato a lavorare sulle condizioni di una pace futura e sugli obiettivi da
conseguire.
L’avvenire della Germania
Fino al 1916 la questione tedesca è stata il principale argomento di discussioni. La
Francia era la maggiore interessata ed il governo britannico non trova alcun
inconveniente a lasciare alla diplomazia francese la cura di preparare il futuro
regolamento della pace con la Germania. Per Londra la preoccupazione essenziale
era quella di ristabilire l’equilibrio europeo a danno delle potenze centrali. A
Parigi la cosa risultava più complicata. Il lavoro dei diplomatici si svolgeva in un
contesto in cui prevalevano gli aspetti emozionali ed irrazionali. Una parte
importante delle elites francesi e la maggior parte dei capi militari e degli uomini
politici provavano un profondo sentimento di avversione e di odio nei confronti
della Germania e dei Tedeschi. Prevaleva in tali ambienti la convinzione che si
doveva farla finita con il pericolo tedesco e pertanto niente di strano se anche
nei diplomatici incaricati dell’affare tedesco esisteva un clima di odio contro il
nemico storico della Francia !
Indubbiamente nei progetti di pace, ci sono sempre degli obiettivi coerenti con il
diritto e la giustizia, come il recupero dell’Alsazia-Lorena, il ristabilimento
dell’indipendenza del Belgio e della Serbia, con il corollario di un accesso al mare
per quest’ultima. Ma si vuole ben altro ! Sin dall’inizio la diplomazia francese,
all’insaputa dei Britannici, reclama la fissazione della frontiera occidentale
tedesca sul Reno, l’annessione alla Francia, sotto una forma da definire, dei
territori in riva sinistra del Reno, o, al minimo il loro distacco dalla Germania per
farne uno o più stati autonomi: la Saar, nel particolare, per ragioni storiche,
dovrà tornare francese, come lo era stata prima del 1815.
E’ chiaro che questi obiettivi erano ben lungi dall’essere condivisi dall’alleato
inglese. Per contro la convenzione segreta franco-russa del 14 febbraio 1917
prevedeva l’annessione della Saar da parte della Francia ed il distacco dalla
Germania degli altri territori della riva sinistra del Reno. Questi obiettivi di
guerra sono stati mantenuti fino al termine dei lavori della conferenza di pace.
La questione austro-ungherese
Fino al 1916, né la Francia, né il Regno Unito avevano in mente la scomparsa
dell’Impero Austro-ungarico che, agli della maggior parte dei diplomatici,
rappresentava un fattore di stabilità al centro dell’Europa. L’entrata in guerra
dell’Italia nel 1915 e della Romania nel 1916 porta i paesi dell’Intesa ad
interessarsi dell’avvenire della Doppia Monarchia, tanto più che le promesse
fatte a questi nuovi alleati riguardavano proprio dei territori del predetto
impero. Da quel momento a Londra, come a Parigi, si comincia a prendere in conto
seriamente le rivendicazioni dei rappresentanti dell’emigrazione ceca, Tomas
Masarik ed Edvard Benes. Questi avevano come obiettivo l’indipendenza dei
Cechi della Boemia, sudditi austriaci e la loro unione con i vicini Slovacchi, sudditi
dell’Ungheria.
Masarik e Benes riescono a portare dalla loro parte delle persone influenti. A
Londra Masarik ottiene il sostegno dello storico degli Slavi, Robert William
Seton-Watson e del redattore capo dell’influente giornale del Time, Wickham
Steed. A Parigi Benes, al quale la giornalista Luisa Weiss aveva fatto conoscere
Milan Stefanik, uno slovacco favorevole all’unione con i Cechi, che aveva delle
entrature al Quai d’Orsay; egli vi godeva del sostegno di un diplomatico di alto
rango, Philippe Berthelot e dei suoi aiutanti, Jules Laroche e Pierre de
Margerie. Benes era anche in relazione con dei giornalisti influenti come André
Tardieu del Temps e Jules Sauerwein del Matin, dei giornali diventati molto
critici nei confronti dell’Austria-Ungheria, specie dopo che tali giornali avevano
cominciato a ricevere dei sussidi da parte dei governi russo e serbo. Benes e
Masarik godono del sostegno incondizionato delle logge massoniche per le quali la
monarchia asburgico, stato clericale e conservatore e “prigione dei popoli”,
rappresentava il male assoluto. Curiosa prigione dei popoli che accoglieva dalla
fine del 19° secolo migliaia di ebrei che fuggivano dai pogrom della Romania e
della Russia ed anche numerosi Polacchi che rifiutavano l’oppressione russa.
La prima vittoria di Benes e di Masarik è rappresentata dalla nota del 10 gennaio
1917 indirizzata al presidente USA Wilson nel quale vi si comunicava che uno
degli obiettivi della guerra dell’Intesa era quello di “liberare dalla dominazione
austro-ungarica le popolazioni slave, italiane e rumene”. Dopo la defezione della
Russia, nell’ottobre 1917, l’Intesa aggiunge ai suoi obiettivi di guerra la
restaurazione dello stato polacco che, Potenze centrali, da sole fino a quel
momento, avevano già pensato di mettere in atto. L’arrivo al potere in Francia,
nel novembre 1917, di Clemenceau, preceduto dal rifiuto franco-italiano di dare
seguito alle proposizioni di pace separata avanzata dall’imperatore Carlo
d’Asburgo, indicano chiaramente che la Francia e l’Italia avevano già seriamente
preso in considerazione lo smembramento dell’Austria-Ungheria. Tutto questo
viene confermato in occasione del Congresso delle nazionalità oppresse che si
tiene a Roma dall’8 al 10 aprile 1918, sotto l’egida dei governi italiano e francese.
Vi viene riaffermato il diritto delle nazionalità all’indipendenza politica ed
economica e l’incompatibilità di questo diritto con la monarchia degli Asburgo. Un
mese più tardi, gli alleati riconoscono il Comitato nazionale cecoslovacco come
governo legittimo di una Cecoslovacchia che ancora esiste solo sulla carta. Il 5
giugno seguente essi riconoscono in anticipo l’indipendenza della Polonia. In tal
modo, già dall’estate del 1918 la sorte dell’Impero austro-ungarico è
definitivamente segnata.
Il ruolo di Wilson
L’entrata in guerra degli USA, nell’aprile 1917, complica in qualche modo,
perlomeno agli inizi, il problema degli obiettivi di guerra delle “potenze alleate ed
associate”. Wilson, in linea di massima, provava poca simpatia per le monarchie.
La caduta dei Romanov non l’aveva minimamente emozionato e molti sanno bene
che le banche americane avevano sostenuto finanziariamente i rivoluzionari russi.
Per Wilson, la vittoria delle potenze dell’Intesa doveva necessariamente passare
attraverso l’eliminazione delle monarchie dell’Europa centrale, sia quella degli
Hohenzollern, come quella degli Asburgo, fatto preliminare alla
democratizzazione della Mitteleuropea.
Ecco quindi una concezione ideologica della guerra, abbastanza vicina, d’altronde,
a quella di Clemenceau, che nutriva un odio implacabile verso gli Asburgo. Wilson,
nei suoi 14 punti del 10 giugno 1918, riprende per sé, più o meno con qualche
piccolo dettaglio, gli obiettivi di guerra dell’Intesa e sull’Austria-Ungheria appare
più moderato. I punti 10, 11 e 13 raccomandavano uno “sviluppo autonomo” per i
popoli dell’Austria-Ungheria, la ricostituzione di uno stato serbo con un accesso
al mare e la creazione di una Polonia costituita da territori indiscutibilmente
polacchi, ma con un accesso al mare. C’era abbastanza da rassicurare le potenze
centrali. Tuttavia, l’atteggiamento di Wilson subisce una evoluzione: sotto
l’influenza di sua moglie, che aveva ascendenze cecoslovacche, egli si allinea alle
decisioni del Congresso di Roma. Per contro, Wilson immagina una nuova
concezione dei rapporti fra le nazioni. Egli propone la creazione a Ginevra della
Società Delle Nazioni (SDN), garante della pace, in cui le dispute fra gli stati
sarebbero state regolate per arbitraggio, nel contesto di un sistemo di sicurezza
collettiva. Ma tutto questo faceva parte di un programma che mal si inquadrava
con le idee di Clemenceau sulla pace a venire.
BIBLIOGRAFIA
Bernardini Giovanni, Parigi 1919. La Conferenza di pace, Bologna, Il Mulino, 2019.
Fejtő François, Requiem per un impero defunto. La dissoluzione del mondo
austro-ungarico, Milano, Mondadori, 1991.
Roshwald Aviel, Ethnic Nationalism and the Fall of Empires: Central Europe, the
Middle East and Russia, 1914-23, Routledge, 2002.