“PENSATOI”, RITIRATE ed altri strumenti di “comodità”. Storia ed evoluzione dal Medioevo
(Pubblicato sul n. 278, luglio 2020, della Rivista Informatica “Storia in
Network” - www.storiain.net con il titolo “LATRINE ED ALTRI SPAZI DI
“COMODITÀ” NEL MEDIOEVO” e sulla Rivista mensile di Assisi il
“RUBINO”, in quattro puntate)
Tentativo di una breve storia di luoghi, strumenti ed utensili legati ad una
imprescindibile necessità umana.
Di norma, i predetti strumenti vengono raggruppati sotto il termine
generico di latrine, una serie di svariati tipi di luoghi di agiamento,
organizzati in funzione degli spazi scelti e della condizione sociale degli
utilizzatori di questi luoghi di “necessità”. La terminologia designa questi luoghi
intimi, a seconda delle regioni e delle epoche, sotto il nome di “ritirate” di
“camera privata”, di “camera” o semplicemente “privato” oppure “camera bassa, o
cortese”, spazi che dispongono di norma di posti di agiamento (sedute con il
classico buco). Le varianti di questi termini si estendono in relazione al numero di
questi sedili forati disponibili, che vanno da una semplice ritirata al piano di un
solo posto, per le persone di alto livello, alle ritirate collettive a due, tre o
quattro fori per il personale domestico, che implica una minore comodità ed una
più significativa promiscuità. Non va dimenticato, per completezza di
informazione, che i Romani, (ad esempio negli scavi di Ostia), utilizzavano già
nelle latrine pubbliche questi sistemi a seduta pubblica, ma con risciacquo
continuo !!!
Le latrine delle fortezze e dei castelli
Nei castelli e nelle piazzeforti, i posti di agiamento, costituiti da un banchettosedile
di pietra che dispone di un foro di evacuazione, vengono organizzati in
“ritirata” (in luogo appartato) all’interno delle spesse muraglie, sia per comodità,
sia per discrezione. Un condotto porta i detriti di evacuazione verso i fossati,
pieni o meno di acqua. Il sedile di pietra che si può ancora oggi osservare in
numerose fortificazioni era di norma ricoperto da una tavola di legno dipinto a
forma di coperchio, al fine di isolare l’utilizzatore dal freddo e dall’umidità della
pietra. Un piccolo spioncino, della grandezza al massimo della testa, consente
l’entrata della luce del sole e consente anche una pur ridotta, ma necessaria,
ventilazione. A partire dal 13° secolo, ma forse anche prima, questi posti vengono
muniti di un coperchio di legno al fine di limitare gli odori e gli insetti.
Progressivamente, numerosi possenti castelli vengono a disporre di una struttura
architettonica separata, alla quale viene affidato il ruolo di latrina e ad ogni
piano delle torri presentano una ritirata. Esempio tipico è quello del Castello dei
Teutonici a Malborg. Il sistema delle latrine del castello teutonico, allocato in
una torre separata del castello (Dansker), raggiungibile attraverso un ponte di
legno ed a picco sul fossato, risulta preceduto, come segno indicatore, da una
simpatica scultura di un diavolo, pressato da impellenti necessità fisiche. I posti
di agiamento al suo interno, si presentano in batteria lungo le pareti della sala,
separati da pannelli in legno e con ripiani da cui attingere le “foglie di cavolfiore”,
la raffinata carta igienica dell’epoca. Se il sistema non è a caduta diretta, una
serie di canalizzazioni consente l’evacuazione verso il fossato e quindi,
successivamente, verso delle fosse settiche nel sottosuolo, perfettamente
munite di un sistema di filtraggio, composto da detriti di pietra o pietrisco.
Converrà ricordare l’episodio della conquista della prima cinta di mura di Castel
Gaillard (il famoso castello di Riccardo Plantageneto Cuor di Leone), assediato
dalle truppe di Filippo Augusto nel 1204, nel corso del quale, a dare ascolto al
testo della Philippide (canto 7°), qualche sergente condotto di notte da un certo
Bogis, riesce ad issarsi all’interno attraverso una finestra delle latrine a sporto,
rimasta non perfettamente chiusa. Nel 1302, ancora, allorché le truppe dei
Colonna ed i contingenti italiani condotti da Guglielmo di Nogaret (1260-1313)
danno l’assalto al palazzo cardinalizio fortificato di Anagni e contro il Palazzo dei
Caetani, alcuni cardinali assaliti riescono a fuggire, passando per le latrine (vds.:
Poirel Dominique, Filippo il Bello, Perrin, 1999, pag 249).
Molto sovente, per necessità di economia, la stanza delle ritirate viene realizzata
a sporto, agganciata alla muraglia e realizzata con legname a piombo diretto sul
fossato. Risulta spesso difficile individuare nelle miniature medievali il luogo
delle ritirate visibili esteriormente. Allorché il disegno le rende evidenti, la
struttura a sporto può abilmente confondersi, per motivi di discrezione estetica,
con quella dei camminamenti di ronda in legno o dei barbacani in pietra. La
differenza può essere percepita, sia per una posizione che non risponda ad alcuna
utilità militare (né agli angoli, né al di sopra di una porta) e sul numero degli
appoggi dello sporto, ridotti di norma a due. Si sa, per esempio, che alcune
ritirate riservate al Signore o alla sua famiglia, dispongono all’interno o
all’esterno di uno stanzino, di accessori di igiene e spesso di un piccolo bacino di
pietra dotato di un orifizio di scolo delle acque usate e sui bordi del quale
vengono disposti degli incavi per una brocca per l’acqua. Questo è il caso del
dongione della Roche Guyon. La larghezza dello stanzino consentiva in generale di
una brocca per l’acqua e di una bacinella per le abluzioni. Qualche principe poteva
anche permettersi qualche eccezionale raffinatezza, come è testimoniato da un
documento del 1396: Dodici contenitori di acqua di rose di Damasco (da Leon de
Laborde, Les Ducs de Bourgogne o i Duchi di Borgogna). Inoltre, in questi casi, il
sedile di agiamento veniva ornato con ricchi tessuti e con qualche cuscino.
A partire dal 13° secolo, lo spazio assegnato al gabinetto privato tende ad
ingrandirsi e ad essere usato da due o tre persone contemporaneamente. Di
notte, l’utilizzo della latrina sprovvista di mezzi di illuminazione, doveva
effettuarsi accompagnato da un servitore o da un compagno incaricato di portare
una torcia o una lanterna. Secondo Gregorio di Tours (538-594), un prete era
morto nella latrina, mentre un servitore che portava una torcia lo stava
aspettando dietro una tenda che ne nascondeva l’accesso.
Le latrine dei conventi o delle abbazie
Le latrine dei conventi, poste di norma all’estremità dei dormitori, dal lato
opposto alla chiesa, venivano generalmente costruite nel punto più basso della
costruzione al bordo di un ruscello. Nel Racconto del Sacrestano (Segretain
Moine, Fabliau anonyme), una cronaca redatta dal 13° al 14° secolo, in 7 esemplari
e tre differenti versioni, la costruzione delle latrine risulta in un luogo appartato
e per raggiungerle occorre “prendere un sentiero per il quale i monaci vanno a
fare pipi” (par ou li moines vont pissier). In una di queste versioni, il religioso si
reca in maniera esplicita, verso una “cambres priveés/Ki sor l’auue estoient
fermées”, una sedia di agiamento (perché le latrine comuni erano chiuse). Le
latrine dei monaci, come le latrine pubbliche delle città, possono presentare
diverse decine di posti di agiamento, come d’altronde le latrine pubbliche
dell’epoca romana. Il confort e l’igiene imporranno molto presto alcune migliorie
tecniche, come l’uso delle sedie di agiamento: nel 1324, i Domenicani di Arras
riportano la spesa di 20 soldi per la realizzazione di due sedie di agiamento con
coperchio rimovibile (2 caiieres aaisiés ploiches a couverchiaus cloans et
ouvrans).
Le latrine delle dimore borghesi ed urbane
Nei borghi o nelle città, non tutte le dimore disponevano di gabinetti/latrine e
alcune case o alcuni piani della costruzione ne erano sprovvisti. Fino alla metà del
14° secolo, solo le ricche dimore possedevano delle latrine a sporto sulla facciata
posteriore o a piombo su delle strette stradine. Se le grandi arterie delle città
importanti risultano lastricate e dispongono di canalizzazione di scolo, le stradine
dei quartieri periferici costituiscono delle vere proprie cloache a cielo aperto,
dove ognuno getta i suoi escrementi dalle finestre, spesso senza neanche
avvertire (a Parigi, nel quattrocento le persone educate prima di vuotare il pitale
fuori dalla finestra, avvisavano il passante con l’espressione “garde a l’eau !!”).
Nel 1374, nella Francia di Carlo 5°, verrà imposto a tutti i proprietari di case in
città o nella periferia di Parigi di “avere latrine e gabinetti in numero sufficiente
nelle loro abitazioni”. Evento che dimostra che fino al quel momento non era un
fatto abituale. All’inizio del 16° secolo, verranno realizzate ritirate o latrine nei
granai, con l’impianto di fosse settiche nel sottosuolo. Nel 1533, un ordinanza del
Parlamento di Parigi dispone la realizzazione di fosse settiche fisse sotto ogni
casa. Le prescrizioni sanitarie della stessa natura e l’interdizione di “gettare
nelle strade dalle finestre, sporcizie, urina ed altre acque infette o corrotte” si
susseguiranno in numerose città per diversi decenni senza risultati decisivi. Nello
stesso periodo vengono messe in azione, di notte e nella stagione fredda, alcune
squadre per svuotare e pulire le fosse settiche.
Le latrine pubbliche
In molte città risultavano disponibili alcune latrine pubbliche, che presentavano
numerosi posti di agiamento di pietra o di legno. Queste erano poste lungo corsi
d’acqua o a sporto su ponti, al fine di favorire una evacuazione naturale degli
scarichi e dei fanghi. Jehan Taccoen, signore di Zeilbeke o Zillebeke (1453-
1531), nei pressi di Ypres, gran balivo di Commine, durante il suo quarto viaggio in
pellegrinaggio a Compostela nel 1511, risulta particolarmente sensibile alla qualità
ed al confort delle latrine delle città che attraversa ed a tal fine nota: “Nelle
maggior parte delle case non esistono né camini ne ritirate. Essi fanno i loro
bisogni in un vaso o in dei piccoli recipienti ed i loro servitori, di mattino presto,
li portano sulla loro testa verso il fiume. Ma per gli uomini esiste un grosso
orinatoio e delle latrine sui bordi del fiume e ciascuno può andare quando vuole”.
In alcuni dipinti del 15° e 16° secolo, specie quelli dei fiamminghi (Memmling,
Brueghel, ecc.), possono individuarsi diverse latrine, alle estremità dei ponti o
poste sulle pile del ponte stesso, al fine di non disturbare la navigazione o il
traffico fluviale sotto gli archi. Altre latrine dovevano esistere anche presso i
molini che bloccavano alcuni archi laterali dei grandi ponti.
Vasi da notte, sedie di agiamento o altro
Le ritirate in pietra realizzate in determinati punti fissi delle dimore per poter
utilizzare condotte e canalizzazioni d’evacuazione, presentano, a volte, il difetto
di essere lontane, allorché sopravviene un’urgenza o che la natura lo imponga alla
ragione. Il bambino in tenera età, il malato costretto a letto, il vecchio con
difficoltà di locomozione costituiscono alcuni di questi casi significativi. Ecco
dunque che nelle camere si impongono degli strumenti intermediari: i vasi da
notte di terra cotta, di piombo, di stagno o di rame e quindi le sedie d’agiamento,
il cui contenuto il personale di servizio scaricherà senza vergogna dalle finestre
sul malcapitato passante. I lavori di Brueghel ci hanno trasmesso, con
discrezione, le immagini di sedie di agiamento per bambini, dalla semplice
cassapanca di legno contadina, alla piccola sedia urbana. Le pitture fiamminghe ci
evidenziano persino vasi da notte delle lussuose dimore, mal dissimulati sotto un
letto o nei loro scompartimenti di legno. A partire dal 15° secolo, allorché
l’agiatezza sociale lo consente, questi vasi vengono allocati sotto una sedia di
agiamento, scolpita in legno, munita di lunetta e di coperchio a ribaltina, foderata
di tessuto e di cuscini, di modo tale che lo spettatore del dipinto ne riceve, in
definitiva, la sensazione di una semplice sedia ornata, posta in prossimità del
letto per riposare.
La sedia d’agiamento di Isabella di Baviera (1370-1435) era guarnita di velluto
blù, mentre quella di Filippo 5° il Lungo (1293-1322) era ricoperta di un panno di
nero. Il re Luigi 11° (1423-1483) utilizzava pudicamente una sedia da bagno,
circondata da tendine, mentre dai suoi conti privati si evidenziano acquisti di
stoppa di lino, antenata della carta igienica, utilizzata a tal fine dalle categorie
benestanti della popolazione. Le grosse foglie di piante (vedi il cavolo nel caso dei
Teutonici) o gli scarti di tessuto, tirati dal mucchio, conoscono la stessa sorte
per la maggior parte della popolazione comune. A partire dalla fine del 15° secolo,
presso i chierici ci si orienterà verso la carta e questa abitudine sarà la causa, in
seguito, della distruzione di numerosi documenti d’archivio attraverso i tempi. Ne
sono testimonianza di questa tendenza i più di 700 sigilli risalenti al 17° secolo
scoperti nelle latrine del Louvre, in occasione di scavi archeologici effettuati a
Parigi.
I testi d’archivio ci forniscono comunque la descrizione di ricche sedie di
agiamento, come ad esempio:
1470: la somma di 27 soldi … per il legno e la fabbricazione di una sedia di
agiamento, rivestita di drappo blù, per la persona del detto Signore (Luigi 11°).
Nel 16° secolo, i posti di agiamento moltiplicano le tende di separazione tanto da
diventare dei monumenti decorativi sontuosi.
1532: 2 teli da mettere sui sedili delle latrine … caricati delle lettere A ed R ..
ed il fondo delle tende di taffetà rosso e 2 tende di satin rosso (dall’inventario
della duchessa di Lorena a Nancy).
1583: Piccolo telo da mettere sulla sedia di agiamento,… di satin bianco con
ritagli di velluto nero ed una tenda di tela di Fiandra con bande di seta nera. Un
altro padiglione di satin cremisi con ricami d’oro, una tenda di taffettà cremisi
che ha il giro della sedia (inventario del Duca di Guisa a Joinville).
Per concludere questo argomento vale la pena ricordare qualche aneddoto
riguardante il rapporto del Re Sole, Luigi 14° di Francia (1638-1715) e la sua
“Chaise percée” (sedia di agiamento). La Principessa palatina, che ci ha lasciato
dei piccanti ricordi sulla vita alla corte francese, ci narra che Luigi 14° aveva
abitudini alimentari alquanto esagerate ed era, conseguentemente, vittima di una
alimentazione troppo abbondante e mal digerita (1). Questo tipo di disordine
alimentare imponeva al Re Sole lunghe soste sulla sua “sedia”, in presenza di
cortigiani, che pagavano molto caro l’onore di essere alla sua augusta presenza.
Anzi, per non lasciare dubbi a riguardo, la Principessa tedesca soggiunge che, Sua
Maestà teneva spesso il Consiglio dei Ministri nella camera della sua sposa
morganatica (Madame de Maintenon) e di tempo in tempo il re era costretto ad
allontanarsi nel vicino gabinetto dove era allocata la sua sedia di agiamento e
sulla quale si liberava “di una tempesta di venti”. Anche la stessa principessa, pur
criticando le abitudini poco regali del sovrano francese, si adatta ben presto alle
usanze oltremontane, disponendo nel suo appartamento di una sedia di agiamento,
sulla quale la donna “riceveva” spesso i suoi amici.
L’utilizzo delle ritirate e dei gabinetti privati
Le nozioni moderne di intimità o di privato erano diversamente percepite dalle
mentalità medievali, con gradi variabili, a seconda dell’educazione e del livello
sociale.
La frequentazione o l’utilizzo delle ritirate o dei gabinetti privati poteva
effettuarsi in compagnia selezionata. Un vicino apprezzato, un familiare, un
servitore, poteva essere invitato a fare conversazione in compagnia del
“ritirante” ed a sua richiesta. Questa ammissione all’intimità era spesso
considerata come un favore ed un segno di stima, sebbene pochi conoscano
effettivamente ciò che l’obbligato ad assistere pensasse nel suo intimo della
condivisione di cose così poco gradevoli. La comicità di certi racconti poteva
incentrarsi ironicamente su un favore che, di fatto, si trasformava in una
spaventosa corvée per qualsiasi personaggio estraneo al cerchio familiare ed
intimo. In un racconto de 13° secolo, una donna venuta a domandare un pane e del
vino ad un vicino, si vede rispondere dalla sua vicina: avrete quello che volete
dopo che sarò stata alla ritirata e la povera donna, conoscendo le usanze si siede
a parlare con la borghese, prima che entrambi passino nella “stanza” vicina. Le
conversazioni familiari proseguono anche in questi ambienti, favoriti, a partire
dal 16° secolo, attraverso la separazione di arazzi che preservano un sembianza
di intimità.
L’abitudine ad utilizzare le sedie di agiamento nelle stanze, indipendentemente
dalle latrine fisse, costruite in pietra, si sviluppa alla fine del medioevo, senza
dubbio a causa degli inconvenienti notturni di percorsi complessi, normalmente
senza illuminazione. Verso il 1545, Jean Berthelin (1577-1652) scrive, nelle sue
memorie (XVI secolo), che un cavaliere del re alloggiato all’Hotel del Cavallo
Bianco di Rouen “luy estant levé il se en alit aux prynets avec le serviteur du
dudit logis, lesquels tous deux fondyrent e tomberent dedens les dedits prynets
e furent tous deux noiez a l’ordure (Essendo ancora in piedi se ne andò verso il
gabinetto con il servitore dell’albergo, ed entrambi precipitarono e caddero nei
suddetti gabinetti, rimanendo affogati nel pozzo nero; estratto da Journal du
Bourgeois de Rouen - Giornale del Borghese di Rouen). Le urgenze notturne
hanno avuto, da sempre, necessità di vasi o di recipienti in terracotta o vetro,
degli “orinali” come quello imposto dal Delfino della contea di Vienne, Umberto
2° Le-Vieux de la Tour-du-Pin (1312-1355), ad un maestro vetraio nel 1338,
nel cui ordine obbligava il mastro vetraio a fornire una tassa annuale di 1800
pezzi fra i quali 432 “orinali”. L’orinale di vetro trasparente costituiva lo
strumento di osservazione per il medico, incaricato, fra le altre cure, di
osservare il colore delle urine dei malati. Anche i conventi, come anche gli
ospedali utilizzano per gli ammalati gli stessi recipienti ad altri vasi speciali,
detti “da camera”.
Le latrine marittime e le difficoltà connesse con la navigazione
Jehan de Zeilbeke (1454-1532), durante il suo terzo viaggio a Compostela,
partito nel 1511 per mare a Nieuwpoort, nei pressi di Ostenda, si porta a
Portsmouth in Inghilterra, dove ha la possibilità di ammirare una grossa nave
appartenente al re d’Inghilterra, la Regent. Il bastimento, un cinque alberi a più
ponti da 1100 tonnellate, dispone di quattro belle ritirate. Egli precisa ancora, nei
suoi consigli ai pellegrini: “Voi dovete comprare dei vasi di terracotta. Un tale
strumento può esservi utile se per caso la notte, vi doveste trovare lontano dalle
ritirate o dal bordo della nave, oppure anche per vomitare quando starete male”.
Il bordo della nave, dove sono allocate le latrine (banchi forati organizzati di
norma nel castello di poppa) risultano di difficile accesso di notte, mentre i vasi
di terracotta sono utilizzabili sotto una piccola sedia forata del tipo di quelle che
sono state trovate nel relitto di una nave anseatica da trasporto, che era
affondata nel fiume Weser nel 1380.
Le latrine, luoghi di misfatti ed occultamento di cadaveri
Le latrine pubbliche o non, possono diventare luoghi malfamati e abominabili.
Questa percezione peggiorativa si traduce anche nella lingua parlata. Il paragone
di un individuo con una “cesso” diventa uno degli insulti costanti e favoriti nella
bocca della gente e sotto la penna degli autori del 16° secolo:
“Da dove viene il suo puzzolente alito, non può venire altro che da buco di un
vecchio cesso”.
“Son halaine puoit plus qu’un aneau de retraict” (il suo fiato puzza più del foro di
una ritirata; Brantome, Maresciallo di Matignon).
Nel Racconto o favola anonima del Sacrestano (Segretain Moine, Fabliau
anonyme), risalente al 13° secolo, il marito di una borghese, assassino di un
sacrestano seduttore, depone a notte fonda il cadavere nelle latrine dell’abbazia,
dove lo scopre il priore, tormentato da una diarrea “seduto sul banco del cesso”
(assis sor le pertuis d’une privée). Spaventato per la scoperta, il priore decide a
sua volta di andare a deporre la macabra spoglia in una casa della città.
Nell’atto di accusa formulato contro Gilles de Rais (1405-1440), capitano
dell’esercito francese e compagno d’armi di Giovanna d’Arco, meglio conosciuto
come Barbablù e letto nella giornata del 13 ottobre 1340 alla presenza del
vescovo di Nantes e dell’Inquisitore delle eresie del Regno di Francia, viene
precisato che un certo Andrea Buchet di Vannes, il predetto Barbablù condusse
nella casa di un certo Lemoine, nei pressi del palazzo episcopale di Vannes, al di
fuori e nei pressi del muro della città, un giovane ragazzo di 10 anni circa, il
quale, dopo aver subito diverse violenze, venne ucciso crudelmente nella casa di
un vicino di nome Boetden e, “avendo tagliato e mantenuto la testa, egli fece
gettare il corpo di questo giovane ragazzo massacrato, nelle latrine della casa del
predetto Boetden” (Georges Bataille, “Il processo di Gilles de Rais”, Ed. Pauvert,
1972, pag. 213).
Il celebre predicatore francescano bretone Olivier Maillard (1430-502),
secondo quanto riportato da Jean Pierre Leguay, vituperando verso il 1450
l’incontinenza dei suoi contemporanei e predicando le sue accuse, affermava che
dal fondo delle latrine, dei fiumi e degli stagni uscivano i lamenti dei ragazzi che
vi erano stati precipitati. Questi terribili misfatti non sono indubbiamente dei
fatti isolati, tanto che Theodore Agrippa d’Aubigné (1522-1630) arriverà a dire
che “Le latrine del Louvre sono orrendi cimiteri di ragazzi, uccisi dagli Apoticari”
e gli incaricati di svuotare i pozzi neri dovevano a volte scoprire terribili segreti.
Persino Giovanni Calvino (1509-1564) non risparmia evidenti allusioni nei
confronti dei suoi nemici: “per meglio esprimere cosa essi sono, io non saprei
usare un paragone più pulito che quello degli svuotatori di pozzi neri (Calvino,
“Excuse aux Nicodemites”, 6°, 595)
Il contenuto archeologico delle fosse delle latrine scavate conferma questa
abitudine anche per la presenza di ossa di gatti e cani. Di fatto, venivano gettate
nelle latrine anche la cucciolate indesiderate.
Il luogo nascosto dei traffici di falsari
I falsari ed altri delinquenti hanno utilizzato delle volte le latrine per dissimulare
il frutto delle loro criminose attività. Nelle latrine del 15° secolo di alcune
località, sono stati ritrovati scarti metallici di produzione e false monete,
precipitosamente gettate nel cesso da falsari, sul punto di essere scoperti.
A margine della predetta analisi sulle “Ritirate” del Medioevo, vale la pena
spendere due parole sulle “comodità” di cui disponeva la Rocca di Assisi.
Ricostruita nel corso del 1300 sulle rovine di un precedente dongione fortificato
del 1000, il maschio o dongione feudale, a quattro piani, costituiva inizialmente
l’abitazione del feudatario o dei castellani e la sua struttura presenta
interessanti aspetti sotto questo punto di vista. Va sottolineato il fatto che il
Palazzo di Urbino, che viene citato come prima reggia italiana ed europea a
possedere un sistema fognante e di scarico dei gabinetti, risale al 1400 e quindi
la Rocca di Assisi, sotto questo aspetto, appare decisamente all'avanguardia. In
ogni caso le latrine della rocca di Assisi presentano un sistema di evacuazione
delle deiezioni non a sporto, come era nei precedenti periodi, ma all’interno delle
mura verso un vespaio, posto alla base del dongione. In tale contesto, la stanza a
piano terra, che forse era destinata alla guardia del feudatario o, come altri
affermano, a prigione, presenta, nello spessore della “spalla”, un piccolo vano ad
uso di latrina. Salendo per la scala a chiocciola prima di arrivare alla penultima
sala del dongione si passa davanti ad una porticina con scale che portavano agli
spalti dello stesso dongione e ad una seconda latrina ricavata anch’essa nello
spessore delle mura. La stanza più alta del maschio, certamente abitazione del
feudatario o del castellano, presenta un lavabo, un camino ed una scaletta,
ricavata nello spessore del muro, che porta, all’altezza delle caditoie del maschio,
ad una comoda latrina privata del famiglia del castellano. In definitiva, una
struttura architettonica della fine del 1300, inizi del 1400 che dava ampio
spazio, già in fase progettuale, alle primarie esigenze “umane”.
Da ultimo per dare una degna chiusura a questa sommaria descrizione di questo
speciale argomento, vale assolutamente la pena ricordare due personaggi,
sconosciuti al grande pubblico, ma certamente benemeriti del progresso della
società. In particolare, l’inglese sir John Harington of Kelston (1561-1612) ha
messo a punto, nel 1584, un meccanismo a flusso d’acqua, progenitore dello
sciacquone del moderno water closet e, dopo di lui, nel 1775, l’orologiaio inglese
Alexander Cummings (1733-1814), perfeziona il sistema Harington, con
l’introduzione del sifone, avvicinandolo a quello dei giorni nostri. In effetti,
Cummings sarà colui che brevetterà per primo questo sistema, che diventerà
completo, nel 1886, con l’introduzione dello sciacquone a catenella. A questi due
personaggi va dunque riconosciuta l’importanza del loro contributo alla salute
pubblica, in quanto, attraverso le loro idee, hanno concorso alla prevenzione di
malattie infettive e conseguentemente al controllo della proliferazione di topi e
insetti.
NOTA
(1) “Ho visto il re mangiare quattro piatti di minestroni diversi, un fagiano intero,
una pernice, un gran piatto di insalata, due grandi fette di dolce e poi ancora
frutta ed alcune uova sode”. Da Claude Pasteur, La princesse Palatine,
Tallandier, Parigi, 2001.
1
QUARANTENA,
una misura che ritorna sotto …
mentite spoglie
Pubblicato su Rivista Informatica "GRAFFITI on line"
(www.graffitionline.com), del mese di dicembre 2020
In questi tempi di ripetuta crisi per la pandemia del Covid 19, si riaffaccia
all’attualità, sotto forme diverse un provvedimento sanitario che,
abbandonato nel 20° secolo, è, nei fatti, nato nella città di Ragusa
(Dubrovnik) 600 anni fà.
Dal 20° secolo, le quarantene, simboli di barbarie e di ignoranza, godono
di cattiva stampa, anche se, in sordina, misure di isolamento,
ribattezzate con termini più delicati (come “confinamento”) sono stati
ancora introdotti nel caso di epidemie o di malattie contagiose. La Cina
ha in effetti, sorpreso il mondo, adottando nel mese di gennaio del 2020 una
quarantena gigante a Wuhan, separando il territorio di questa metropoli
industriale ed i suoi 11 milioni di abitanti dal resto del mondo, al prezzo di una
recessione economica.
Ma è a Ragusa (l’attuale Dubrovnik, sulla costa adriatica della Croazia), nel 1383,
quindi a Venezia nel 1423 che sono state adottate le prime misure di isolamento
sanitario forzato. Si trattava per queste due potenti città marittime di
prevenire la peste dal Levante, imponendo alle navi provenienti dalle zone infette,
un isolamento di 30 o 40 giorni. Perché questo termine quarantena ? La cifra 40,
altamente simbolica (il Diluvio era durato 40 giorni nella Bibbia; Cristo aveva
trascorso 40 giorni nel deserto …) suggerisce una parentela fra impurità ed
infezione: 40 giorni per la purificazione delle puerpere dopo il parto, per l’uscita
dal lutto , ecc.
Il lazzaretto è un invenzione italiana
La struttura base del dispositivo messo in opera per la quarantena era il
lazzaretto (il termine era stato utilizzato in precedenza per i lebbrosari),
inventato nelle città italiane del 14° secolo. Queste prigioni per passeggeri
contagiosi, o supposti tali, vengono istituiti a partire dal 15° secolo su tutto il
Mediterraneo, spesso un’isola o una penisola. Essi erano supportati da una
amministrazione incaricata di verificare i passaporti sanitari dei battelli e dei
viaggiatori. I responsabili delle infrastrutture delle città italiane (edili) hanno
mobilitato (militarizzato) i medici quando quest’ultimi tendevano a scegliere la via
della fuga, secondo il vecchio adagio in caso di peste, cito, longe, tarde (Parti
presto, Vai lontano, Torna tardi). Essi hanno già distinto i casi di malattia
accertata, ad esempio i pestiferi con bubboni ed i sospetti ed evitato di metterli
insieme.
Attenzione comunque sia all’anacronismo. In assenza di conoscenze sulla
trasmissione microbica, il termine contagio (1), attestato nella letteratura
medica antica, designa a quel tempo il contatto corporale o la condivisione di un
mezzo ambiente contaminato dai miasmi che proveniva dalle immondizie e dalle
acque stagnati o anche dal solo sguardo.
I lazzaretti hanno sempre avuto una funesta reputazione a causa dei vincoli e
delle terribili condizioni di vita nel confinamento. Con tutti i loro difetti, le
quarantene hanno, con ogni probabilità, limitato le catastrofi. In ogni caso, è
proprio dalla trasgressione di una quarantena a Marsiglia, nel 1720, da parte
dell’equipaggio della Grande Sant’Antonio che è stata introdotta la peste nella
città con le sue migliaia di morti come conseguenza. Questa, in effetti, è stata
l’ultima peste, storicamente accertata in Europa.
Alla fine del 18° secolo il continente respira. Negli anni che seguono la rivoluzione
francese, François Brousset, figura dominante della scuola medica francese,
nega il contagio, basandosi sui principi della medicina di Ippocrate e di Galieno.
Quello che scatena la malattia è lo squilibrio degli umori (pletora). Una vita sana,
pertanto, è la migliore prevenzione contro la malattia. Uno dei suoi discepoli, il
dottore Antoine Clot (più conosciuto sotto il nome di Clot Bey 1793-1868) al
Cairo, propugna la dieta e lo stoicismo di fronte ai fatalisti ed ai partigiani del
contagio. Egli si farà inoculare in pubblico del pus di bubbone pestifero e non ne
proverà alcun fastidio.
Nel 19° secolo, le quarantene ritrovano, nondimeno, un recupero di attività di
fronte ad un nuovo flagello proveniente dall’Asia: il colera. Nel 1893, viene
firmata a Dresda una convenzione internazionale sulle quarantene nei confronti
dei viaggiatori e delle merci. L’Inghilterra recalcitra di fronte all’embargo sulle
merci, a causa del suo vasto impero. Con l’accelerazione dei trasporti, è ormai il
pellegrinaggio alla Mecca che preoccupa le grandi potenze. L’immenso lazzaretto
di El Tor del Sinai, in Egitto, costruito nel 1898, darà nel 1905 il suo nome alla
forma patogena del vibrione colerico che era stato identificato dal dottore
Roberto Koch (1843-1910) nel 1893 a Calcutta.
La vecchia controversia fra partigiani del contagio e dell’infezione attraverso il
mezzo ambiente si spegne con la scoperta dei microbi. Il germe, prima del virus,
viene a costituire il legame fra il contagio interumano e l’infezione. La durata
della quarantena viene ormai regolata e ridotta, in funzione della sopravvivenza
del microbo nell’organismo, a partire dal momento in cui si viene a disporre di
esami microscopici che costituiscono la prova della malattia.
Oggi la medicina moderna, promuovendo “l’isolamento comunitario” presso il
domicilio, associato ad una stretta sorveglianza medica due volte al giorno, non
solo cancella una terminologia angosciante, ma instaura un nuovo ordine razionale,
che si basa su una migliore conoscenza dei parametri biologici, come il tempo di
incubazione della malattia e della contagiosità e sul rispetto del consenso degli
interessati. Questo isolamento è stato sperimentato in occasione dell’epidemia di
Ebola, nell’Africa dell’Ovest nel 2014.
Ma, quando la quarantena concerne una intera regione e quasi un continente
intero, essa, a quel punto, può ritornarsi contro sé stessa: come si può mantenere
inattiva una città intera e si possono gestire i minimi spostamenti di persone ?
Una realtà già percepita nel corso del passato, ma di cui l’episodio attuale del
corona virus fornisce un esempio su scena mondiale, seguito quotidianamente da
tutto il pianeta in stato di allarme. Ci si potrebbe augurare, d’altronde, che una
mobilitazione simile si possa operare intorno ad altri conflitti/fenomeni (la fame,
l’ambiente), che devastano il mondo di oggi. Anche in questo caso l’epidemia deve
inevitabilmente fare ricorso al … moralista !!!
NOTA
(1) Contagio, deriva dal latino contagio che risulta dall’unione di due termini cum
(con) ed un derivato del radicale di tangere (toccare), sinonimo di contatto. Il
termine designa nella letteratura medica antica la trasmissione di una malattia
per contatto corporale. Poi, per estensione, i danni di una malattia a prescindere
dal suo meccanismo di trasmissione (diretto, da un individuo all’altro per mezzo di
liquidi organici o indiretto, attraverso il mezzo aereo ambiente).
POZZO di BORGO, il còrso,
nemico giurato di NAPOLEONE
Pubblicato sul n. 272, gennaio 2020, della Rivista Informatica
“Storia in Network” (www.storiain.net )
Carlo Pozzo di Borgo, nato nel 1764, un lontano cugino di Bonaparte,
metterà il suo talento di diplomatico al servizio dello Zar di Russia, contro
l’imperatore dei Francesi. Sostenitore di Pasquale Paoli, assumerà un ruolo
decisivo nella caduta di Napoleone nel 1814, quando convincerà lo Zar a
marciare su Parigi.
arlo Andrea Pozzo di Borgo (1764-1842) è stato, secondo molti storici, un
personaggio di rilievo nella storia contemporanea, tanto che persino lo
stesso Carlo Marx (1818-1883), ha scomodato la sua penna per definirlo,
forse con un po’ di esagerazione, “il più grande diplomatico di tutti i tempi”.
Ambasciatore dello zar Alessandro 1° (1777-1825) a Parigi, dal 1815 al 1834,
quindi a Londra dal 1835 al 1839, questo personaggio còrso, nasce ad Alata, a 5
Km. da Ajaccio ed è il figlio di un allevatore di ovini, discendente dalla vecchia
nobiltà isolana (Giuseppe Maria 1730-1781). Pozzo, cresciuto da uno zio prete,
studia inizialmente nel convento di Vico e quindi nel Collegio Reale di Ajaccio,
presso i parenti di Napoleone, di cui era un cugino di 5° grado, “nutrito dalla
Madame Mere” per usare l’espressione dello stesso Napoleone. Sia i Pozzo di
Borgo che i Bonaparte erano eredi di due famiglie fedeli a Pasquale Paoli (1725-
1807) nel suo tentativo indipendentista e Carlo Andrea conobbe assai bene,
oltre a Giuseppe, anche il minore Napoleone (classe 1769): erano fra loro cugini
di 5º grado. Tra l’altro, Carlo Maria Buonaparte (1746-1785) aveva, addirittura,
servito, come aiutante di campo del Paoli nella battaglia di Pontenuovo del 9
maggio 1769, che segnò la sconfitta dei Còrsi e l'esilio del Paoli, imbarcatosi
a Porto Vecchio il 13 giugno di quell'anno.
C
Sebbene carente di grandi risorse finanziarie, Carlo Andrea Pozzo riuscirà a
frequentare, secondo una vecchia tradizione della nobiltà corsa, l’Università di
Pisa, dove sarà compagno di studi di Giuseppe Bonaparte (1768-1844) e dove
conseguirà, nel 1787, il Dottorato in Legge sotto la guida del professor Tosi.
Chi è dunque Pozzo di Borgo ? Un uomo che, da buon còrso, era animato da forte
spirito di clan, aveva una memoria da elefante e soprattutto non dimenticava
facilmente i torti subiti. “Un gigante”, dichiara Honoré de Balzac (1799-1850).
“Il signor Pozzo di Borgo é un uomo di grande spirito, francese come Bonaparte,
contro il quale nutre un odio che è stato l’unica passione della sua vita, “un odio
da corso”, ha lasciato scritto il ministro degli esteri francese Charles Maurice
de Talleyrand Perigord (1754-1838), che lo ha conosciuto come il principe
Klemens von Metternich Wenniburg Belistein (1773-1859) e lo zar Alessandro
1° di Russia (1777-1825).
Secondo Adele d’Osmond (1761-1866), la contessa de Boigne, che lo ha
conosciuto a Londra, l’uomo è poco “civilizzato”. La dama lo trova alquanto rustico.
Ma, nonostante ciò, la sua intelligenza ha contribuito a cambiare il destino
dell’Impero francese, dell’Europa e del mondo, secondo le stesse affermazioni di
Napoleone.
Pozzo e la Rivoluzione
Al momento della Rivoluzione francese, Pozzo è un gentiluomo mantenuto nella
sua nobiltà; egli è esattamente il contrario di Pasquale Paoli, il nipote di un
mugnaio. Il giovane còrso, molto attaccato alla sede pontificia romana, dove i suoi
antenati hanno comandato la guardia pontificia, servitore dell’ordine incarnato da
una serie di dinastie (Borboni, Romanov, Hannover, Hohenzollern, Asburgo)
risulta molto lontano dal sistema di pensiero pre-democratico del vecchio Paoli.
Il suo debutto politico si verifica nel 1791 con l’elezione a Deputato (delegato)
della Corsica all’Assemblea Legislativa di Parigi. Inizialmente, gli viene persino
affidata, con l’appoggio del Paoli, la redazione di uno speciale documento di
lamentele (cahier de doléances): non senza ragione, tenuto conto che, nel 1789,
l'Assemblea, su sollecitazione del deputato Antonio Cristoforo Saliceti (1757-
1809) (1), aveva dichiarato la Corsica parte integrante del regno di Francia e vi
aveva esteso i diritti e le leggi francesi. Inoltre, era stato autorizzato il ritorno
dei fuorusciti còrsi, vietando ogni loro persecuzione. In questo periodo Pozzo,
sebbene schierato fra i moderati sui banchi della destra, si dichiara ammiratore
del paese dei Diritti dell’Uomo, ma si oppone fermamente a provvedimenti quali
quello della Costituzione civile del clero. Di fronte alle sommosse del giugno 1792
e l’arresto del re a Varennes, egli è costretto, nell’agosto dello stesso anno, a
fuggire, anche in concomitanza della svolta rivoluzionaria della prima Comune di
Parigi e la proclamazione della Repubblica: in fin dei conti Pozzo era rimasto
convinto assertore delle sue idee monarchiche: posizione estremamente
pericolosa nella Parigi di quel tempo.
Rientro in Corsica e l’esilio
Di fronte alle esazioni rivoluzionarie e fortunatamente prima dei massacri del
settembre 1792, Carlo Andrea decide di rientrare in Corsica nel corso dello
stesso anno, accolto calorosamente da Pasquale Paoli, luogotenente generale delle
forze militari dell’isola, che lo nomina Capo del Governo (Procuratore Generale
Sindaco) della Corsica.
Durante questo periodo Paoli e Pozzo di Borgo organizzano, per conto del
Governo francese, una prima fallita invasione della Sardegna, affidata
all’ammiraglio Laurent Truguet (1752-1839), con la collaborazione dei Bonaparte
ed un reggimento di volontari còrsi, guidati dal nipote dello stesso Paoli (1). Dopo
un secondo fallito tentativo di invadere la Sardegna (obiettivo: conquista
dell’arcipelago della Maddalena) con la collaborazione dei Bonaparte, i rapporti
fra i due personaggi iniziano a deteriorarsi. Nel corso di questa spedizione si
mettono in luce Napoleone Bonaparte che, nel frattempo, era stato promosso
tenente colonnello e posto al comando di un reggimento di volontari corsi e, da
parte piemontese, il nocchiero di 1^ classe, Domenico Leoni alias Millelire (1761-
1827), che sarà la prima medaglia d’oro delle Forze Armate italiane (2)
Proprio in questo periodo si consuma la rottura politica con i Bonaparte, rimasti
filo francesi (3). Sulla base delle dure critiche contenute nella relazione di
Napoleone al Ministero della Guerra di Parigi (nelle quali egli lamentava viltà e
tradimento), il giacobino còrso Bartolomeo Arena (1753-1832) (già Commissario
politico nella fallita spedizione di Cagliari) presenta denuncia formale contro
Paoli e Pozzo di Borgo alla Convenzione Nazionale, che, a sua volta, convoca gli
accusati per rispondere sui fatti. Saggiamente, Paoli rifiuta di rispondere davanti
alla Commissione e la Convenzione ne decreta, nell’aprile 1793, l’arresto. Davanti
a questa situazione di fatto, Paoli sceglie di accettare la protezione della flotta
inglese che, agli ordini di Orazio Nelson, provvede nel corso dello stesso anno
all’occupazione dell’isola.
Pozzo, nel 1794, si schiera con Paoli dalla parte degli Inglesi e proprio nel corso
dello stesso anno, dopo la dichiarazione di secessione dell’isola dalla Francia,
verrà nominato Presidente del Consiglio di Stato del governo anglo corso, da
parte del viceré inglese Sir Gilbert Elliot Murray Kynynmound, conte di Minto
(1751-1814) (4), L’11 giugno 1794 Napoleone ed i suoi familiari sono costretti a
lasciare la Corsica, da Bastia per Tolone e Pozzo di Borgo emette un decreto di
confisca dei beni dei fuoriusciti, compresi i Bonaparte, in quanto “traditori della
Patria”.
Dopo il fallimento del Regno anglo còrso e la riconquista francese della Corsica
nell’ottobre 1796, Pozzo di Borgo vive otto anni in terra d’esilio, mentre,
condannato dalla Convenzione, subisce a sua volta la confisca dei suoi beni in
quanto “nobile emigrato”. Dopo un breve periodo a Roma, sorvegliato
strettamente dai giacobini, si trasferisce in Inghilterra, sotto la protezione di
Elliot, che lo farà incontrare in Scozia con il futuro re Carlo 10° Borbone (1757-
1836). Recatosi nel 1801 a Vienna al seguito di Elliot, incaricato di una missione
speciale, Pozzo conosce, venendo apprezzato come acerrimo nemico della
rivoluzione francese, il diplomatico russo conte Andrey Razumovsky (1752-
1836), il principe di Metternich ed il principe polacco Adam Jerzy Czartorysky
(1770-1861)
Diplomatico in missione per lo Zar di tutte le Russie e nuovo esilio
Nel 1804, dopo l’incoronazione di Napoleone, Carlo Andrea offre i suoi servizi allo
zar Alessandro 1° e viene accolto alla corte di San Pietroburgo grazie
all’intercessione del principe Czartorysky. Da quel momento il nostro inizia a
viaggiare un po’ per tutto a nome della Russia. Lo si ritrova a San Pietroburgo ed
a Mosca; a Mittau con il futuro Luigi 18° Borbone (1755-1824); a Vienna nel
1805 dove ricopre un ruolo importante nella stipula dell'alleanza austro-russa,
che porta alla sconfitta di Austerlitz; a Napoli, nel dopo Austerlitz, come
Commissario russo presso gli anglo-napoletani; nel 1806 a Berlino come
Commissario presso l’esercito prussiano; di nuovo a Vienna presso l’imperatore e
l’arciduca Carlo; a Costantinopoli, nel 1807, con una prestigiosa missione presso il
Sultano della Sublime Porta, Selim 3° (1761-1808), che, sotto la pressione
dell’ambasciatore francese. di origine còrsa, Orazio Sebastiani (1772-1851)
aveva dichiarato, l’anno prima, guerra alla Russia; a Corfù, dove si imbarca per
assistere al combattimento navale del Monte Athos contro la flotta turca (giugno
1807). Ma la Pace di Tilsit, del 7 luglio 1807 cambia le carte in tavola. Napoleone
ed Alessandro 1° diventano amici e così Pozzo è di nuovo costretto a fare le
valige. Dimesso dal servizio il nostro deve abbandonare la sua uniforme di
colonnello dell’esercito zarista, rifugiandosi nuovamente a Vienna (presso il
Metternich) e dove frequenta assiduamente tutti i saloni anti napoleonici. Nel
1810 cade sulla testa di Pozzo di Borgo un’altra tegola: a seguito del matrimonio
con Maria Luisa d’Asburgo Lorena (1791-1847), Napoleone inoltra una formale
richiesta di estradizione per l’esule còrso alla corte di Vienna. il generale Johann
Philip von Stadion (1763-1824), lo avverte e, sembra, su indicazione del principe
Metternich, gli suggerisce di raggiungere l’Inghilterra, l’unica nazione di una
potenza ancora indipendente da Parigi. Ecco dunque, cacciato da Vienna, che
raggiunge nuovamente Londra.
Nel periodo trascorso in Inghilterra, Pozzo di Borgo inizia a scrivere le sue
Memorie, tracciando un bilancio dell’Impero napoleonico.: Napoleone è entrato a
Berlino, a Vienna ed a Mosca. Secondo Pozzo, solo entrando a Parigi, gli Alleati
potranno battere l’imperatore e l’ambasciatore riuscirà poi a far comprendere
l’importanza della decisione allo zar di Russia. Il mancato rispetto del trattato di
Tilsit, da parte della Russia, sarà la scintilla che spingerà Napoleone, il 24 giugno
1812, a varcare il Niemen ed invadere la Russia.
Di nuovo al servizio dello Zar e fino alla Restaurazione
Richiamato in servizio nel corso dello stesso anno dallo Zar Alessandro 1°, in
pieno inverno, Pozzo di Borgo raggiunge Stoccolma, attraversa in slitta estese
lande ghiacciate, tirate da cani. con una missione iniziale in Svezia. L’abile
diplomatico riuscirà a staccare Jean Baptiste Bernadotte (1763-1844), re di
Svezia, dall’alleanza con Napoleone ed allo stesso tempo, riallacciando i contatti
con i vecchi amici di un tempo, comincia a seminare il dubbio tra i diversi membri
della famiglia Bonaparte.
Dopo la disastrosa ritirata della Grande Armée e la vittoriosa battaglia di Lipsia
dell’ottobre 1813, il feldmaresciallo Karl Schwarzenberg (1771-1820) e il
generale prussiano Gebhard Leberecht von Blücher (1742-1819) alla guida delle
truppe dell’alleanza austro-russo-prussiana, entrano in territorio francese, dando
inizio alla Campagna di Francia del 1814. Il 31 marzo 1814 Pozzo di Borgo entra a
Parigi, al seguito dello Zar e subito dopo verrà inviato a Londra per accompagnare
il rientro in Francia di Luigi 18° Borbone. Nel frattempo, Napoleone abdica
a Fontainebleau, a premessa, nel maggio seguente, della firma della Pace di Parigi,
venendo relegato nel ridicolo regno dell’Elba. Nominato infine Commissario
Generale del Governo Provvisorio, il nostro sosterrà attivamente durante la
Restaurazione Luigi 18°, che lo nominerà, Conte (1816) e pari di Francia (1818).
Il congresso di Vienna ed i 100 giorni e la Restaurazione
A Pozzo di Borgo la soluzione dell’isola d’Elba appare immediatamente una scelta
poco appropriata, proprio per il fatto di trovarsi a poca distanza dal continente e
le sue preoccupazioni si avverano con i 100 giorni (20 marzo-22 giugno 1815).
Ritornato dal 1815 al servizio dello Zar Alessandro, questi lo invia alle sedute del
Congresso di Vienna. Durante i Cento Giorni il nostro raggiunge Luigi 18° in Belgio,
in qualità di rappresentante dello zar presso il generale Arthur Wellesley duca
di Wellington (1769-1852), con scarsi risultati pratici.
Il 15 giugno 1815 a Waterloo Pozzo vede Napoleone per l’ultima volta, da lontano
con il binocolo e durante la battaglia, investito dalla cavalleria del col. Crabbé
dipendente dal maresciallo Michel Ney (1804-1815), è costretto a fuggire nella
boscaglia per salvarsi. E’ proprio a lui che si deve la scelta del luogo definitivo
d’esilio per relegarvi l’aquila decaduta.
Nominato Ambasciatore di Russia a Parigi con la nuova Restaurazione, Pozzo
cerca di ridurre i pesanti obblighi imposti dagli Alleati alla Francia e ad
accelerare la partenza delle truppe d’occupazione (Trattato di Aquisgrana del
1818). Fautore di una politica moderata e cortocircuitato dalla corte francese
(Tuileries) dal primo ministro francese Elie Decazes (1780-1860), Pozzo prende
parte a tutti i congressi dopo quello di Vienna, fino al Congresso di Verona del
1822. Infine, nel 1825, con l’accesso al potere di Carlo 10° di Borbone, egli si
allontana discretamente, disapprovando gli ultras (ultra realisti) e la sua politica
decisamente reazionaria, che porteranno, poi, alla Rivoluzione del luglio 1830. Nel
1827, Carlo Andrea Pozzo di Borgo diviene Conte ereditario dell’Impero Russo,
con un Ukase dello zar Nicola 1° (1796-1855).
Di nuovo ambasciatore a Londra e la fine
La Rivoluzione del luglio 1830 consente a Pozzo di appoggiare re Luigi Filippo
(1773-1850), che, grazie ai suoi buoni uffici, sarà riconosciuto anche dallo zar
Nicola 1°. Nel 1832, però, i cattivi rapporti fra Luigi Filippo e lo zar
determineranno il suo richiamo a San Pietroburgo, per la sua giudicata eccessiva
francofilia. Agli inizi del 1835, Pozzo viene nuovamente destinato in Inghilterra
quale Ambasciatore russo presso la Corte di San Giacomo a Londra, in
sostituzione del principe russo lituano Christoph Heinrich von Lieven (1774-
1838) e dove ritrova molti personaggi conosciuti in precedenza.
Infine nel 1839, all’età di 75 anni, Pozzo chiede le dimissioni dal servizio
diplomatico russo e si ritira a Parigi, dove ha l’occasione, nel 1840 di assistere al
ritorno in Francia delle ceneri del suo acerrimo nemico. Installatosi in un
magnifico palazzo privato (Hotel de Soyecourt), in Rue de l’Universitè, dove fa
costruire una sontuosa galleria delle Feste, muore a Parigi il 15 febbraio 1842
poco più di 20 anni dopo il suo grande nemico: Napoleone. Qualche maldicente
farà circolare la seguente frase: “Pozzo è morto. Il diavolo l’ha accolto e gli ha
detto: Tu hai superato tutte le mie aspettative”. Egli verrà sepolto nel cimitero
monumentale parigino di Pére Lachaise, sull’altra riva della Senna, sempre di
fronte a Napoleone.
NOTE
(1) Uomo politico corso originario da famiglia originaria di Piacenza, nasce a
Saliceto, in Corsica, si laurea nell’Università di Pisa in Giurisprudenza e viene
eletto deputato per il Terzo Stato nella circoscrizione di Bastia. Entrato a far
parte della Costituente, propone all’Assemblea l’annessione dell’isola nel 1789.
Partecipa successivamente alla cacciata di Pasquale Paoli dalla Corsica ed alla
conquista di Tolone, insieme a Napoleone. Entrato a far parte del governo di
Massimiliano Robespierre, egli aiuta Napoleone ad ottenere il comando della
divisione d’artiglia e la promozione a divisionario. Salvato da Napoleone alla morte
di Robespierre, ne diviene uno dei più fedeli sostenitori, iniziando una efficace
attività nei servizi segreti francesi e nelle attività di polizia, specie come agente
infiltrato in Italia per suscitare ribellioni filo francesi. Preso parte
all’insurrezione di Bologna del 1794 nella quale troveranno la morte i patrioti
Giovanni Battista de Rolandis (1774-1796) e Luigi Zamboni (1772-1795), viene
successivamente nominato Ambasciatore francese a Lucca e, nel 1806, Ministro
di Polizia a Napoli. Era uomo molto inviso, di carattere duro e scostante e da buon
corso, sospettoso. Per usare le parole di Guy de Maupassant: “Da Robespierre
aveva imparato la freddezza assoluta, lo “sguardo di ghiaccio”, il mai manifestare
alcuna emozione. Era un attore raffinato e staccato. Sapeva essere
accondiscendente e poi impietoso, inflessibile ed inesorabile";
(2) Sbarcati presso Cagliari l'8 gennaio 1793, i Còrsi vennero accolti a cannonate.
Risposero bombardando la città e, alcuni giorni dopo, sbarcarono al forte di
Sant'Elia, dove vennero respinti e costretti a reimbarcarsi in grande disordine.
Fino a che, il 17 febbraio, sorpresi da una tempesta faranno nuovamente vela
verso la Corsica;
(3) Affidata, per incarico del Paoli, al nipote Pietro Paolo Colonna de Cesari
Rocca (1748-1929). Le truppe, circa 800 uomini (compresi 150 regolari francesi),
partono da Bonifacio il 22 febbraio 1793 e conquistano di sorpresa l'isolotto di
Santo Stefano, da dove, il 24 febbraio seguente, l'artiglieria comandata dal
Bonaparte, inizia a bombardare La Maddalena, difesa da 150 soldati e 300
miliziani. Questi riescono a rispondere con una certa efficacia, grazie ad una
batteria piazzata sulla punta meridionale di Caprera e comandata da nocchiero di
1^ classe Domenico Leoni, alias Millelire, a sua volta sostenuto da due navigli e da
una batteria sita dalla parte di Palau. La notte fra il 25 e il 26 l'equipaggio
dell'unica corvetta francese si ammutina, comunicando agli altri la sua volontà di
rientrare a Bonifacio. A questo punto il Colonna de Cesari e Napoleone, sospese le
operazioni, sono costretti a reimbarcarsi, abbandonando a terra anche i cannoni;
(4) La politica dell'isola era gravemente condizionata dai tre partiti principali: ai
tradizionali indipendentisti si erano aggiunti (per divisione del partito francese) i
monarchici fedeli al Borbone e i giacobini. Nelle sue memorie, il Pozzo ricorda
come tali divisioni derivassero «meno da divergenze ideologiche, che
dall'ambizione che portava le diverse famiglie di notabili ad affermarsi nel
piccolo quadro (così ristretto) della Corsica ». In particolare, Pozzo era rimasto
fedele al partito indipendentista del Paoli. Al contrario, i fratelli Bonaparte,
memori della scelta filo-francese operata dal padre Carlo Maria (almeno dal 20
settembre 1769, quando aveva accettato la nomina ad assessore della corte
reale – l'amministrazione borbonica - di Ajaccio e del suo distretto), erano
divenuti paladini del partito giacobino. Probabilmente, alla definitiva rottura dei
rapporti, contribuì anche la morte dei due vecchi alleati: Carlo Maria Bonaparte
era morto nel 1785 e Giuseppe Maria Pozzo di Borgo il 7 giugno 1781, nella
natia Alata;
(5) Il 17 aprile 1794 Paoli rivolge un appello al popolo còrso, affinché difenda la
propria patria e i propri diritti e, il 10 giugno seguente, una Consulta
generale nella città di Corte proclama Paoli Babbu di a Patria e le famiglie
Buonaparte ed Arena verranno additate al pubblico disprezzo. Soprattutto,
l'assemblea giura fedeltà al re d'Inghilterra e alla costituzione che quel monarca
aveva offerto ai Còrsi. Questa prevedeva un parlamento e un viceré. Da
segnalare che l'italiano ne era la lingua ufficiale. Governatore venne nominato
il conte Gilbert Elliot e Pozzo Presidente del Consiglio di Stato: la più alta figura
politica dell'isola.
PROGETTO GEOPOLITICO del VENTENNIO
Pubblicato su Rivista Informatica "GRAFFITI on line" (www.graffiti-online.
com), del mese di giugno 2020, con il titolo “IL PROGETTO
GEOPOLITICO DEL VENTENNIO”
http://www.graffiti-on-line.com/home/opera.asp?srvCodiceOpera=1936
Per poter delineare il progetto geopolitico di Mussolini, occorre
preliminarmente fare riferimento alle complessità del Fascismo, ideologia
rivoluzionaria come essenza, ma sottoposta all’azione di forze diverse e
contraddittorie. Comunque, dietro una apparenza di confusione o di
incoerenza, si nasconde in realtà un progetto ideologico per un nuovo ordine
mondiale.
Occorre riconoscere, preliminarmente, la carenza di chiarezza nella
definizione e nella realizzazione del progetto geopolitico del Fascismo.
Diverse ragioni concorrono a spiegarne il perché. In primo luogo,
l’eterogeneità delle eredità cui esso faceva riferimento: l’Impero Romano, il
Risorgimento, il nazionalismo ed il colonialismo della fine del 19° secolo e
persino alcuni aspetti del socialismo. Tutte le sue fonti (o i suoi riferimenti) si
coagulano intorno al concetto di “nazione proletaria”: l’Italia, nazione povera,
doveva incrociare il ferro con gli Stati ricchi, al fine di rovesciare un ordine
internazionale ingiusto, che confiscava, a vantaggio dei paesi “plutocratici”, le
ricchezze mondiali.
In seguito, il percorso ideologico del socialista Mussolini subisce una naturale
evoluzione, che lo porta ad assumere su di sé le ambizioni nazionaliste. Nel
1919, il vecchio affossatore della spedizione di Libia, scriveva: “Il nostro
O
avvenire è sui mari. Per la sua struttura e la sua posizione geografica, l’Italia
deve rivolgersi verso il mare, essa deve trovare nell’elemento che la circonda le
vie della sua prosperità”. Un anno più tardi, gli obbiettivi diventano più precisi
e più ampi: “Noi crediamo che, senza perdere di vista la questione
dell’Adriatico, la nostra sfera di interesse deve essere estesa, a poco a poco,
al Mediterraneo”. Queste espressioni ci forniscono in maniera evidente il peso
che il fattore geografico e la nozione di territorio esercitavano già nelle sue
analisi. Nel corso del 1934 Mussolini afferma infatti che “La geografia
rappresenta il dato immutabile e fondamentale che condiziona il destino dei
popoli”.
In effetti, nell’analisi fascista, la geografia costringeva la penisola nel bacino
del Mediterraneo, controllato congiuntamente dai Francesi e dai Britannici e la
cui chiave delle due porte (Gibilterra e Suez) si trovavano a Londra. Occorreva
necessariamente spezzare questa gogna, perché la nuova Italia potesse vivere,
potente ed imperiale, padrona del mare nostrum, proprio come ai tempi di
Roma. “Le porte di questa prigione sono la Corsica, la Tunisia, Malta, Cipro; le
sentinelle di queste porte sono Gibilterra e Suez. La Corsica rappresenta
un’arma puntata al cuore dell’Italia; la Tunisia minaccia la Sicilia, mentre Malta
e Cipro costituiscono un’altra minaccia contro tutti i nostri possedimenti nel
Mediterraneo centrale ed orientale.” Queste dichiarazioni, pronunciate a porte
chiuse nel febbraio 1939, saranno quelle che, concettualmente, determineranno
l’entrata in guerra nel giugno del 1940 contro le potenze occidentali.
Un terzo fattore, dopo il mare ed il Mediterraneo, arriva a complicare le carte
in tavola dopo l’entrata in guerra: l’apparente incoerenza della diplomazia
fascista che, di volta in volta, agisce nell’Europa centrale e quindi nel
Mediterraneo, nei Balcani ed infine in Africa ! In questo progressivo
mutamento di direzione, anche l’avversario del momento muta di volto: dalla
Germania d’ante guerra, Roma passa al Regno Unito, quindi alla Francia, mentre
le Forze Armate aspettano a lungo prima di conoscere, fra la Yugoslavia e la
Grecia quale sarebbe stato l’obbiettivo dell’autunno del 1940. Nel suo percorso
evolutivo politico, dalla Marcia su Roma alla guerra, sono numerosi i
cambiamenti di direzione di Mussolini in politica estera. Di fatto, nel 1925, egli
si reca a Locarno in un contesto di sicurezza collettiva con la Germania, ma
successivamente, nel 1935 firma, con il primo ministro francese Pierre Laval
(1883-1945), una serie di accordi dalla evidente tonalità anti germanica, prima
di celebrare con fasto nel 1938-1939 le sue “nozze rosse” con Adolf Hitler
(1889-1945).
Revisionismo e conservatorismo
Ma a guardare con maggiore attenzione nei fatti sopraddetti, vi si può
distinguere, nel pensiero e nell’azione di Mussolini, una innegabile coerenza.
Essa si esprime in un’altra eredità, più immediata,ma altrettanto importante
delle precedenti: la pace incompiuta del 1919 e la “vittoria mutilata”, che
avevano impedito all’Italia di annettere l’insieme dei territori promessi dagli
Alleati del 1915, nel momento della sua discesa in guerra a fianco dell’Intesa.
In effetti, l’Italia non otterrà dalla Conferenza di pace né la Dalmazia e le
previste compensazioni coloniali in Asia minore o in Africa. Questa
insoddisfazione, che ha alimentato il fuoco nazionalista dell’immediato dopo
guerra, fornisce una connotazione revisionista alla politica fascista che non
smetterà di sostenere i vinti (Ungheria e Bulgaria) e di indebolire i vincitori
(Grecia e Yugoslavia) e, se possibile, di distruggere il “mostro” della Yugoslavia,
e di sabotare il sistema di sicurezza francese nei Balcani, costruiti dai
Transalpini, proprio anche in funzione anti italiana. Di fatto, Mussolini non
apparteneva all’Europa di Versailles, costruita a vantaggio della Francia, paese
che per natura e per geografia risulta strutturalmente opposto alle ambizioni
italiane nel Mediterraneo e non solo. Tuttavia, l’annessione del Trentino e di
Trieste, poneva immediatamente l’Italia nel campo degli Stati conservatori
(Francia, Regno Unito e Stati dell’Europa centrale) nel timore di un nuovo
Anschluss o di un nuovo storico Drang nach Osten (spinta ad est). Ma molti
politici avveduti avevano perfettamente percepito la situazione: “Lo Stato
italiano, da quando esiste, si adatta con grande difficoltà ad un sistema di
politica europea, qualunque essa sia”. (Jacques Pierre Bainville, accademico e
storico francese 1879-1936). (1)
Questa ambiguità non cesserà mai di pesar sulla politica di Roma. In effetti,
Mussolini, arrivato al potere nell’ottobre 1922, non si accontenta di
recuperarla: egli vi introduce una dose ideologica che si rivelerà mortale. La
sua ambizione per l’Italia si basava, in effetti, sulla ricerca della potenza,
sull’esaltazione della forza, sul primato della guerra e sul rifiuto degli ideali
della sicurezza collettiva (perché significava accettare lo statu quo), del
multilateralismo e della Società delle Nazioni (SDN, organismo manovrato dalle
Grandi Potenze). Tutto questo sarà dimostrato a partire dal 1923 con
l’incidente di Corfù, provocato dall’assassinio di soldati italiani della Missione
Enrico Tellini (1871-1923) in Albania (2), al quale Roma risponde con
l’occupazione militare dell’isola greca, evidenziando la tendenza all’uso della
forza per la risoluzione dei problemi, ben lontano dallo spirito della SDN di
Ginevra. In effetti, il 29 agosto 1923 l'Italia occupa Corfù, dopo aver bombardato dal
mare, il vecchio forte dell'isola, innescando la crisi. Paolo Thaon di Revel (1888-1973),
ministro della Marina, con buona parte della vecchia guardia della Regia Marina, riteneva
irrinunciabile un rapporto di amicizia, se non di alleanza, tra Italia e Gran Bretagna, pena
la sconfitta in battaglia; nonostante che l'occupazione di Corfù e la guerra con la Grecia
fossero da tempo opzioni ben considerate dalla Regia Marina. Mussolini era invece
disposto a rischiare e a portare avanti una politica revisionista rispetto ai trattati di pace
e alla società delle nazioni. Anzi Mussolini in questa occasione pensò di ritirare l'Italia
dalla società delle nazioni e di forzare la mano per riuscire ad annettere Corfù e le isole
Jonie all'Italia, ma tutti i suoi ministri militari (la cui alleanza gli era allora indispensabile e
che erano molto autorevoli perché avevano guidato il paese alla vittoria nel 1918) lo
sconsigliarono risolutivamente e minacciarono dimissioni in massa, prospettandogli un
conflitto in cui sicuramente sarebbero stati in guerra contro l'impero britannico, la Grecia
e la Jugoslavia, e probabilmente anche contro la Francia (fino a quel momento favorevole
all'Italia, ma pronta a cambiar partito nel caso fosse stata coinvolta la Jugoslavia).
Il 27 settembre Corfù viene infine evacuata dalle truppe italiane, dopo che la
Conferenza degli Ambasciatori aveva riconosciuto come legittime le richieste
dell'Italia alla Grecia. Il Governo greco sarà costretto ad accettare di pagare i 50
milioni richiesti e di tributare gli onori alla bandiera italiana, che la squadra navale
ricevette al Falero, uno dei porti di Atene, per far poi definitivamente ritorno a
Taranto il 30 settembre 1923.
Dopo il periodo di prudenza corrispondente agli anni 1920, succede la
radicalizzazione degli anni 1930. La conquista dell’Etiopia doveva servire nello
spirito imperiale romano alla nascita del nuovo impero italiano e dell’homo
fascista, mentre l’intervento in Spagna assume la caratteristiche di crociata
fascista contro il Komintern. Questo indurimento corrisponde inoltre, sul piano
interno, ad una accresciuta pressione totalitaria sulla popolazione italiana.
Conviene tuttavia ricordare che l’alleanza con il 3° Reich non aveva nulla di
ineluttabile, anche se la dinamica ideologica e totalitaria costituiva una spinta
in tale direzione. Ecco, in effetti arrivare fra Roma e Berlino un ostacolo
imprevisto: l’indipendenza dell’Austria. Ma Mussolini, rimasto politicamente
isolato dopo la proclamazione dell’Impero e convinto della sua logica ideologica,
la sacrificherà a vantaggio di una alleanza esclusiva ed aggressiva (Patto
d’Acciaio, firmato il 22 maggio 1939), ben lontano dai tradizionali “giri di
valzer” della diplomazia italiana ed ai quali il suo genero e ministro degli Affari
Esteri, Galeazzo Ciano (1903-1944) pensava ancora di ricorrere. Questa
politica, che si scontrava contro forti correnti antitedesche ancora presenti
nell’insieme della società italiana, come anche all’interno dello stesso
Fascismo,contribuisce a consolidare i più duri del regime che vedevano nel
Patto lo strumento di una possibile rigenerazione dell’Europa.
La guerra per una nuova Europa
In realtà è esistita, anche in mezzo a questo nazionalismo incandescente, una
visione geopolitica dell’Europa. Da una parte, ambiziosi progetti di una sorte
internazionale del fascismo agitavano molti spiriti, anche se non hanno
prodotto nulla di concreto. Dall’altra, la radicalizzazione della fine degli anni
1930 e la bipolarizzazione dell’Europa hanno accentuato il contrasto fra
un’Italia rigenerata dal Fascismo e gli Stati democratici, presentati come
decadenti, minati dallo spirito dei piaceri,dal giudaismo, dal capitalismo e dalla
denatalità. L’esperienza fascista, autoritaria, nazionalista, corporativista, si
ergeva ad esempio per una rinascita del continente. La Seconda Guerra
Mondiale a fianco del 3° Reich verrà presentata dalla propaganda fascista
come il rovesciamento rivoluzionario dell’ordine liberale di Versailles, che
Mussolini aveva da sempre esecrato; tutto questo a vantaggio di un ordine
geopolitico nuovo, ostile al mondialismo ed al cosmopolitismo anglosassone. La
rivista Geopolitica disegnava i contorni, con grande sostegno di articoli e di
carte, di un dominio imperiale, di cui il Mediterraneo sarebbe stato (il pivot
centralizzatore, secondo la formula di Giorgio Roletto, (3) (1885-1967). Tale
dominio era costruito sulla nozione di spazio vitale mediterraneo unificato da
Roma e su quello di Eurafrica, nel cui contesto la penisola costituiva da ponte
fra i due continenti. Un pensiero che, con grande evidenza, si inseriva in una
geopolitica dei grandi spazi, molto in voga a quell’epoca. Si trattava, in effetti,
di un progetto, allo stesso tempo geopolitico (un Mediterraneo italiano, dal
quale sarebbero stati espulsi i francesi ed i Britannici) ed ideologico (la fine
del dominio degli Stati plutocratici e la rivincita dei popoli poveri). Il Duce ne
riassumerà la sfida nel suo discorso di entrata in guerra del 10 giugno 1940:
“Si tratta della lotta fra due secoli e due idee”.
Ma questa vasta ambizione risultava minata alla base da diverse contraddizioni:
la distruzione degli Imperi coloniali degli Occidentali necessitava di una
alleanza con i movimenti indipendentisti arabi, con i quali Roma aveva
effettivamente annodato profondi legami, ma che cozzavano con le stesse
ambizioni italiane in Africa e nel Levante. Allo stesso modo, se i programmi
geopolitici tedeschi ed italiani non presentavano sovrapposizioni (uno guardava
ad Est e l’altro verso Sud) essi impegnavano i due governi in direzioni
divergenti se non opposte: Mussolini aspirerà ben presto ad una pace separata
con l’URSS per rafforzare la sua lotta contro gli Inglesi nel Mediterraneo, ma
questo era un tasto assolutamente non gradito al Führer e del quale neanche
voleva parlare. Occorre notare, altresì, che una sorda rivalità ha opposto Roma
a Berlino per il controllo dei Balcani, dove gli Italiani hanno lottato con
continuità, con costanza ed accanimento contro i ritardi e le ingerenze del loro
ingombrante alleato. Infine, la guerra del Fascismo illustra in maniera
drammatica la terribile dicotomia esistente fra i progetti ideologici e la realtà.
In tale contesto, l’impreparazione militare - in completa contraddizione con i
progetti politici - condurrà l’Italia nella spirale delle sconfitte umilianti ed in
fine alla sua completa vassallizzazione da parte della Germania.
NOTE
(1) La sua lucida e profetica denuncia del Trattato di Versailles è contenuta nel celebre
libro Les Conséquences Politiques de la Paix, apparso nel 1920 come complemento al libro
di Maynard Keynes (1883-1946), The Economic Consequences of the Peace. Tale giudizio
fu abbracciato, retrospettivamente, anche da Raymond Aron (1905-1983), secondo il
quale Bainville vide giusto quando comprese, con largo anticipo sugli altri osservatori ed in
contrasto con le idee prevalenti all'epoca, che le durissime condizioni economiche imposte
alla Germania dal Trattato avrebbero provocato nei tedeschi il desiderio di vendicarsi,
vista l'impossibilità di liquidare l'enorme debito di guerra deciso dai vincitori in non meno
di 30 anni. Secondo Bainville, i responsabili furono il presidente USA Thomas Woodrow
Wilson (1856-1924) e il primo ministro britannico David Lloyd George (1863-1945), che
col loro moralismo naïf punirono oltremodo i nemici sconfitti, dimenticando gli imperativi
della geo-politica. Ad esempio, a Versailles si decise di smembrare l'ex Impero d'Austria-
Ungheria, cacciando la dinastia degli Asburgo, che avrebbe potuto invece costituire un
argine alle ambizioni continentali della Germania: veniva così balcanizzata l'Europa
centrale, dove all'epoca vivevano importanti minoranze tedesche. La Germania venne
invece conservata unita e centralizzata, creando le premesse per una sua rapida ripresa.
Bainville riassunse la sua opinione sul Trattato con la seguente formula: «una pace troppo
dolce per ciò che essa ha di duro e troppo dura per ciò che essa ha di dolce»;
(2) Mussolini, nel condannare l'eccidio, invia un ultimatum al Governo greco
pretendendo da esso, oltre alle scuse formali, l'istituzione di una commissione
d'inchiesta che individuasse i colpevoli, la pena capitale per questi ultimi, un
risarcimento economico di 50 milioni di lire e che la flotta greca rendesse gli
onori alla bandiera italiana con un'apposita cerimonia. La proposta viene
parzialmente accolta dal Governo greco e Mussolini replica, dopo aver schierato
nel mar Ionio una squadra navale composta dalle corazzate Conte di Cavour, Giulio
Cesare, Andrea Doria e Caio Duilio, occupa il 29 agosto 1923, Corfù, dopo aver
bombardato dal mare, il vecchio forte dell'isola, innescando la crisi.
La reazione di Mussolini, certamente sperequata e forse dettata anche
dall'ambizione di annettere stabilmente Corfù all'Italia, era comunque in linea con
la condotta anti-greca assunta da tempo dalla politica estera italiana, sia per
quanto riguardava l'Albania meridionale, rivendicata dalla Grecia, sia per la
questione del Dodecanneso. L'accordo segreto italo-greco siglato a Parigi il 29
luglio 1919 prevedeva, infatti, la cessione, con l'esclusione di Rodi, del
Dodecanneso alla Grecia, mentre all'Italia sarebbe spettato il mandato
sull'Albania centrale e su una zona meridionale dell’Asia minore.
La crisi di Corfù ha offerto dunque al governo italiano l'occasione di non dare
alcun seguito ai patti convenuti con quello greco riguardo al Dodecanneso, tanto
più che le ambizioni espansionistiche italiane sull'Albania erano fortemente
contrastate in seno alla Società delle Nazioni e quelle sull'Asia minore erano
irrimediabilmente compromesse dall'esito ormai assunto dalla guerra greco-turca,
allora in corso. La prova di forza che vide protagonista l'Italia, servì inoltre a
convincere la Jugoslavia ad aprire quelle trattative diplomatiche che avrebbero
portato, di li a poco, alla stipula del Trattato di Roma col riconoscimento della
sovranità italiana sulla città di Fiume;
(3) Giorgio Roletto è stato, assieme ad Ernesto Massi (1909-1997), negli anni
trenta del secolo scorso, il fondatore - presso l'Ateneo giuliano - della Scuola
italiana di Geopolitica, attorno all'omonima rivista (Geopolitica. Rassegna
mensile di geografia politica, economica, sociale, coloniale), edita tra il 1939
ed il 1942. Attraverso questa rivista sono state diffuse per la prima volta in
Italia le teorie geopolitiche, fortemente osteggiate per la loro carica di novità
dall'ambiente della geografia "ufficiale". Tutto questo, nonostante che la rivista
"Geopolitica" godesse dell'appoggio del gerarca Giuseppe Bottai (1895-1959) ed
avesse riportato nel primo numero un indirizzo di saluto del noto geopolitico
tedesco Karl Haushofer (1869-1946), docente all'Università di Monaco. Nel
dopoguerra la geopolitica italiana entra nell'oblio per motivi ideologici, in quanto
considerata una disciplina di stampo nazista ed imperialista; Giorgio Roletto,
messo da parte si concentrerà, quindi, su studi di geografia economica su paesi e
località dell'Adriatico e del Mediterraneo orientale (la Jugoslavia, Israele, la
funzione economica del porto di Trieste, ecc.), lavori nelle cui pagine, tuttavia,
riecheggiano ancora le antiche idee "geopolitiche".
LA POTENZA di ROMA ANTICA
Pubblicato su Rivista Informatica "GRAFFITI on line" (www.graffiti-online.
com), del mese di maggio 2020, con il titolo “PARTONO DAL DOMINIO
SUL MEDITERRANEO LE CONQUISTE TERRITORIALI ROMANE” ed
unificato, come parte prima, con “Mare Nostrum, il bacino privato di ROMA
http://www.graffiti-on-line.com/home/opera.asp?srvCodiceOpera=1933
A Roma noi dobbiamo la nostra lingua, il sistema metrico, la nostra
amministrazione … e, più in generale la cultura latina. Roma ha organizzato
l’Europa ed in parte l’Oriente, ispirandosi largamente ai Greci ed agli
Etruschi, fino alla sua caduta nel 476, che segna l’inizio del Medioevo.
Se Roma non è stata fatta in un giorno, essa non si è neanche costruita da
sola ! La civiltà romana antica si è largamente ispirata alla Grecia,
attingendo in special modo alle arti ed al suo sistema politico, ma anche
e soprattutto, nelle fasi iniziali, agli Etruschi, di cui si è appropriata la
religione e la tecnica, fra le quali: l’idraulica. Ciò nondimeno, Roma ha saputo
impiantare in Europa un modello di società molto elaborato, specie per quello che
riguarda il diritto, la costituzione e le leggi, la guerra e l’organizzazione militare,
l’architettura e la tecnologia. L’antichità romana continua ad avere una grande
influenza nel mondo attuale, non fosse solo per le lingue latine che perdurano
ancora oggi in Occidente.
Nell’8° secolo a.C. e più precisamente nel -753 secondo gli storici, nasceva Roma
sul Monte Palatino, uno dei suoi sette colli, che formano oggi la capitale d’Italia.
La città, poi l’Impero, conoscerà una evoluzione costante fino alla sua caduta, nel
476, allorché il suo ultimo imperatore Romolo Augustolo (451-dopo 511),
abdicherà davanti al generale Flavio Odovacer o Odoacre (433-493), re degli
Eruli, figlio di Edicone, generale e ministro di Attila, re degli Unni.
L’Impero romano al suo apogeo nel 2° secolo, circondava tutto il Mediterraneo,
estendendosi fino al Sahara a sud, alle rive del Danubio ad est, all’Inghilterra a
nord e fino all’Iran nella sua parte orientale. Le ragioni del declino dell’Impero
romano d’Occidente, quello d’Oriente continuerà come impero bizantino fino al
1453, sono ancora oggi oggetto di dibattito fra gli storici: per alcuni, la
superpotenza romana avrebbe fatto crescere al suo interno una decadenza
morale fra la dirigenza e nei ranghi dell’esercito. Per altri, la prossimità costante
dei Barbari, necessaria al reclutamento dell’esercito (questi popoli arriveranno al
50% degli effettivi delle legioni) avrebbe fatto saltare la disciplina romana
Indebolita, l’organizzazione militare non sarebbe stata più capace di far
rientrare le tasse, elemento base, fra gli altri, per pagare i soldati, mentre i
popoli conquistati preferiranno il dominio dei Barbari a quello dei Romani, perché
più presenti nel concreto e nella vita di tutti i giorni.
Agli inizi si parte, nel mito, con un omicidio …
La leggenda racconta che Remo e Romolo (morto nel -716 circa) sarebbero
all’origine della fondazione di Roma. Romolo e suo fratello gemello Remo
sarebbero i figli della vestale Rea Silvia, una sacerdotessa condannata alla
castità, ma che il dio Marte provvede a visitare in sogno per darle i due gemelli.
Rea Silvia è la figlia di Numitore, re della leggendaria città di Albalonga (Alba la
Longa, posta ad una ventina di km. da Roma, che sarebbe stata fondata proprio
da Enea, il principe troiano, dopo il suo precedente soggiorno ad Erice, in Sicilia).
Amulio. dopo aver spodestato da trono suo fratello Numitore e nel timore che i
suoi nipoti potessero, crescendo, reclamare i loro diritti, prende a pretesto il
fatto che essi sono figli di una vestale (che aveva fatto voto di castità), per
decretare la loro eliminazione, ordinando che vengano gettati nel fiume Tevere.
Ma l’ordine viene mal eseguito ed i neonati, abbandonati in un paniere sul fiume,
riescono a sopravvivere (per la probabile protezione degli dei) e vengono
scoperti, ai piedi del Palatino, sotto una pianta di fico selvaggio posto all’ingresso
di una grotta, da una lupa, che li allatta e da un picchio verde, l’uccello del dio
Marte. Più tardi, i gemelli, cresciuti dal pastore Faustolo (il supposto marito della
“lupa”) sul monte Palatino ed ai quali era stato rivelato il segreto della loro
nascita, uccideranno Amulio (sgozzato da Remo secondo alcuni, trafitto dalla
spada di Romolo secondo altri) e restaureranno il loro nonno sul trono di
Albalonga. I miracolati decidono, in seguito, di fondare una città nel luogo in cui
erano stati gettati al fiume. Allo scopo di stabilire chi dei due fratelli avrebbe
governato questa nuova città, viene effettuata una consultazione degli auguri,
consistente nell’osservazione del volo avvoltoi per un determinato periodo di
tempo. A quanto sembra, il responso sarebbe stato favorevole a Romolo, ma
quando Remo si accorge che il fratello aveva barato in questa consultazione,
cercherà di reclamare i suoi diritti, ma Romolo provvederà ad eliminare suo
fratello, autonominandosi, in tal modo, primo re della città di Roma, così
denominata pare proprio in onore di suo fratello ucciso !!! Qualcuno, raccontando,
fra l’altro, una storia meno aulica riporta che la lupa che aveva allattato i gemelli
non fosse altro che una nota prostituta del luogo, detta anche la “Lupa”, consorte
del pastore Faustolo. Ecco così che, in ogni caso, la lupa che ha allattato i gemelli
diventerà anche il simbolo della nuova città.
Affari di politica.
Per 300 anni, Roma vivrà al ritmo dei suoi re, ponendo le basi della sua politica di
conquista, che durerà quasi un millennio. Dal 6° secolo a.C., riesce a federare le
città latine vicine, creando, in tal modo, una forza capace di resistere agli
Etruschi, che sono già i dominatori della regione. Nell’anno -509, come risposta
alle guerre civili ed alle lotte di potere che lacerano la federazione, Roma diventa
una repubblica, spartita fra due gruppi di abitanti: i patrizi ed i plebei. I primi
sono i discendenti delle famiglie che hanno fondato Roma, essi possedevano la
terra e sedevano negli scranni del Senato, una assemblea che serviva da Consiglio
del re. I secondi sono gli uomini liberi, i cittadini. Una suddivisione ineguale,
poiché solo i patrizi possono pretendere di esercitare le funzioni prestigiose,
formando in tal modo un consolato (l’insieme delle famiglie dirigenti), molto simile
ad una oligarchia. Occorreranno due secoli di lotte incessanti fra i due gruppi
perché questa organizzazione arrivi alla emanazione del diritto romano, che
consente ai plebei l’accesso alle cariche di tribuno o di magistrato e di
partecipare alle elezione dei dirigenti. Una volta trovata questa stabilità politica,
può avere inizio l’espansione e la conquista di Roma del resto del mondo
conosciuto. Mossi inizialmente da motivi di sicurezza e successivamente attirati
dalle ricchezze dei loro potenti vicini, i consoli romani, espressione della Roma
imperialista, sottometteranno inizialmente le regioni dell’Italia peninsulare
(Etruria, Lazio, Umbria), quindi le isole vicine (Sicilia, Sardegna e Corsica), ed
infine tutto il Mediterraneo. Tuttavia, le guerre di conquista non impediranno
l’evoluzione politica di Roma. Augusto, Tiberio, Nerone, Tito, altrettanti nomi
tramandati alla posterità; fra i grandi conquistatori Giulio Cesare (100-44 a.C.) è
senza dubbio il più celebre. Oltre alle sue competenze di stratega, l’uomo è
conosciuto per la sua abilità politica: egli apre il Senato alla plebe, rinforza i
diritti del popolo, ridistribuisce le terre mentre i suoi trionfi (grandi cerimonie
che commemorano le vittorie del generale) gli conferiscono una grande
popolarità. In questo modo egli accede alla carica di Dittatore a vita (magistrato
eletto dal popolo e dotato di pieni poteri) oltre a quella di imperator, incarico ed
onore di comandante delle legioni, che ricompensano le sue qualità militari.
La vita a Roma
In Occidente ed in Oriente, nelle province conquistate da Roma, le si sviluppano
infrastrutture: costruzione di strade in tutto l’Impero per lo spostamento rapido
delle legioni e del commercio, il cui tracciato di alcune di esse viene utilizzato
ancora oggi, acquedotti, che portano l’acqua delle sorgenti in città, ponti, edifici
amministrativi, mutuati dall’architettura greca, ospedali, installazioni termali,
che comprendevano anche biblioteche, ginnasi ecc.. In città, i quartieri ricchi
sono provvisti di un sistema fognario ed alche di bagni pubblici. L’igiene e la
salute sembrano rivestire una grande importanza nella società romana, come
anche la moda. Si sa, ad esempio, che le Romane si adornavano di chignon posticci
di capelli biondi, provenienti da donne germaniche. Questa conoscenza della vita
quotidiana romana si deve alla scoperta delle rovine di Pompei nel 17° secolo.
Questa città periferica, pietrificata dalla lava, dopo l’eruzione del Vesuvio del 1°
secolo, ha rivelato una notevole quantità di domus e di edifici pubblici riccamente
decorati di mosaici, affreschi, di oggetti abituali, di terme, di mobilio, … .
La vita sociale romana si organizzava attorno a due tipi di abitanti: gli schiavi,
che hanno rappresentato un quarto della popolazione e gli uomini liberi. Si
trattava effettivamente di uomini, poiché la donna romana aveva lo stesso
statuto dei figli, vale a dire sottomessa al capo famiglia, sia esso il padre o il
marito. Nelle città, i figli vengono educati, a scuola o da un precettore privato,
schiavo, affrancato o straniero. Occorre sapere che i Romani recalcitravano
alquanto davanti alle discipline intellettuali, avendo spiccata preferenza per le
attività pratiche … è per questo motivo che i medici, gli scrittori, gli insegnanti
provenivano, più frequentemente, dalla classe degli schiavi o da quelle degli
stranieri, greci o orientali.
L’eredità culturale
La cultura latina è, nella accezione comune del termine, la cultura dei Latini,
popolo che abitava la regione del Lazio nell’Antichità. Per estensione, la cultura
latina designa quella di Roma antica e dell’Impero romano che l’ha diffusa nelle
province conquistate.
Il primo retaggio di questa civiltà è la lingua latina e le sue varianti adottate in
numerosi paesi europei. I Romani imponevano, in effetti il latino come lingua
ufficiale nei paesi conquistati. E’ in questo modo che anche le lingue germaniche
ed orientali contengono numerosi termini di origine latina. In ogni caso, l’alfabeto
latino è stato una eredità che ha ricevuto il mondo intero, perché si è diffuso ed
imposto nella maggior parte dei paesi d’Europa e d’America. Allo stesso modo il
Codex, la prima forma di libro rilegato, la numerazione decimale e le cifre romane
costituiscono retaggio della civiltà romana, così come il nostro calendario che
dobbiamo a Giulio Cesare, anche se con i successivi aggiustamenti gregoriani.
Di fatto è proprio Giulio Cesare che decide nell’anno -45 di abbandonare il
vecchio calendario, basato su un anno di 354 giorni, per creare il calendario
giuliano di 365 giorni negli anni normali e di 366 ogni quattro anni (anni bisestili).
Non va poi dimenticato l’apporto di Roma nelle costruzioni, con l’impiego del
cemento e negli stessi sistemi costruttivi.
Infine, Roma è anche all’origine della diffusione della religione cristiana.
Inizialmente considerati come degli adepti di una nuova setta, i Cristiani vengono
perseguitati, specialmente da Nerone, a partire dal 1° secolo. A poco a poco la
religione si diffonde per il suo rivoluzionario messaggio di uguaglianza degli
uomini davanti a Dio e l’imperatore Constantino il Grande (272-337), che
concederà la libertà di culto a tutto i Cristiani e che si convertirà al
Cristianesimo nei suoi ultimi giorni di vita nel 4° secolo. Roma è dunque alla base
dello sviluppo della Chiesa cristiana, la cui sede è ancora oggi a Roma.