Pubblicato su Rivista Informatica "GRAFFITI on line" ( HYPERLINK "http://www.graffiti-online.com/"www.graffiti-on-line.com), del mese di gennaio 2022 con il titolo “ACCORDO OCSE PER LA TASSAZIONE DELLE MULTINAZIONALI”
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Assisi 20 gennaio 2022
Il 1° luglio 2021 la quasi totalità dei paesi membri dell’OCSE hanno firmato a Venezia l’accordo per la tassazione sulle società multinazionali che entrerà in vigore il 1° gennaio 2023.
L’Accordo di Venezia che interessa tutti ì Paesi membri dell’OCSE (1) è stato firmato da 130 dei 139 membri della struttura. Presentato al pubblico come una “svolta storica”, l’Accordo prevede l’applicazione di un tasso minimo di imposta del 15% sulle società multinazionali a livello mondiale, ma sussistono dubbi sulla validità delle norme attuative.
Per la stragrande maggioranza dei commentatori questo testo, costringendo le imprese multinazionali a pagare alle finanze pubbliche la giusta contribuzione loro guadagni, rappresenterebbe un grande passo avanti verso quella tanto attesa “giustizia fiscale” internazionale ed, allo stesso tempo, assumerebbe il crisma di simbolo della vittoria del multilateralismo sugli “egoismi” di alcune nazioni iu n particolare. Quest’analisi, indubbiamente accattivante, risulterebbe nei fatti doppiamente falsa. Da un lato essa non tiene conto del fenomeno di equità territoriale e di incidenza fiscale, la cui conoscenza risulta, tuttavia, indispensabile se si vuole correttamente valutare la giustizia - interstatale ed interindividuale - di una riforma fiscale di questo tipo. Dall’altro canto essa non tiene conto dei reali rapporti di forza internazionali che sottintendono l’accordo del 1° luglio 2021 che nella realtà appare molto meno cooperativo di quanto si voglia far credere. In fin dei conti ci si deve chiedere se debba considerarsi “giusta” l’imposizione di una tassa minima mondiale in capo alle multinazionali ? Per le piccole nazioni sovrane, sprovviste o debolmente dotate di fattori di produzione, l’assenza di un tetto minimo di tassazione e la libera fissazione di tassi d’imposta appaiono, di norma, come il mezzo per attirare a sé il capitale finanziario ed umano necessario al loro sviluppo ed a quello delle rispettive popolazioni. E’ proprio quello che hanno esattamente capito e rivendicato, più o meno direttamente, i nove paesi fiscalmente recalcitranti dell’Accordo: Irlanda, Ungheria, Estonia, Kenya, Nigeria, Barbados, Saint Vincent, le isole Grenada, Perù e Sri Lanka (già Ceylon). Da quel momento, evidentemente, l’introduzione di un tasso minimo mondiale d’imposta sulle società riflette, in primo luogo, la volontà dei grandi Stati di preservare il loro vantaggio competitivo e la loro manna fiscale, che, nei fatti, non esprime una reale operazione di giustizia nei confronti dei piccoli Paesi di piccole dimensioni e dei Paesi con un debole spazio di mercato. La legge di ripercussione fiscale ci insegna, peraltro, che i contribuenti designati come soggetti imponibili dalla legislazione, raramente sono gli stessi che contribuiscono veramente nei fatti al finanziamento delle spese pubbliche. In effetti, poiché di norma il Paese più forte economicamente scarica parte della sua imposizione sul più debole, si ha ragionevolmente ragione di pensare che l’incremento che ci si aspetta dalle entrate fiscali (qualche miliardo di euro per l’Italia) sarà, nei fatti, pagato dai salariati meno qualificati di queste grandi imprese internazionali o dai loro stessi consumatori, per mezzo di bassi salari e mediante l’aumento dei prezzi di vendita, allo scopo di non intaccare i margini di guadagno precedenti. Gli spiriti più attenti avranno già capito, a questo punto, che la fiscalità, come tutte le questioni politiche, riveste in primo luogo una dimensione geopolitica. Par fare un esempio: Janet Hellen, Segretaria al Tesoro degli USA, ha ottenuto dagli Europei che volevano continuare a tassare unilateralmente le società del GAFAM (2) americano, la rinuncia ai loro liberi diritti di imposizione. Il richiamo alla giustizia fiscale è diventato, di colpo, meno assillante e propagandistico da parte di Washington nel momento in cui si è trattato di proteggere i gioielli industriali americani. Lo spirito naif di numerosi osservatori europei, che dopo aver maledetto Trump, lodano Biden, risulta ancora una volta più sorprendente e genera solo confusione. Lo scambio commerciale é certamente più cortese con “Joe” e il potere di ritorsione appare certamente meno ostentato che con “Donald”. Eppure, la finalità rimane la stessa: America First !... Non è un caso che la riforma dell’imposizione mondiale delle società, dopo aver “pascolato” per lunghi anni nelle praterie dell’Ovest, sembra adesso essere arrivata al sodo, proprio nel momento in cui gli USA hanno deciso di aumentare il tasso nazionale d’imposta sulle loro società nazionali. L’amministrazione americana si assicura in tal modo entrate fiscali supplementari, ottenendo, nel contempo di limitare significativamente i rischi di delocalizzazione e di disturbo per le sue multinazionali che teoricamente non dovrebbero ricevere all’estero trattamenti fiscali più vantaggiosi.
Insomma: Vittoria su tutti i fronti ! E dire che con questo interessato pseudo trattamento di favore, qualcuno continua ancora ad affermare che gli Americani sono nostri alleati ed amici. Forse amici, ma … del giaguaro!...
NOTE
(1) OCSE. Organizzazione per la Cooperazione e Sviluppo Economico;
(2) GAFAM. Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft.
Massimo IACOPI
USA, FORZA e DEBOLEZZA di una GRANDE POTENZA
Pubblicato su Rivista Informatica "GRAFFITI on line" (www.graffitionline.com),
del mese di marzo 2020, con il titolo “GLI STATI UNITI D’AMERICA”
http://www.graffiti-on-line.com/home/opera.asp?srvCodiceOpera=1928
La salute dell’economia americana è sistematicamente oggetto di commenti
ammirati ed allarmistici. Ad ogni nuova crisi economica si riaccendono le
polemiche ed i pronostici sulla fine dell’era americana. Anche quest’ultima
crisi non è bastata a mettere mortalmente in crisi l’aquila americana che
continua a volare sul mondo, mentre, peraltro, sembra aver lasciato molte
più scorie nelle altre economie, specie quella europea. Analisi e possibili
risposte.
Come ci sono cicli economici esistono, con ogni evidenza, anche cicli giornalistici.
La salute dell’economia americana risulta, in tale contesto, oggetto di commenti
che, a seconda dei punti di vista, gli pronosticano o prospettive edificanti o crolli
esemplari. Ogni volta che gli osservatori si entusiasmano sul loro progresso
tecnologico - l’invio di un uomo sulla Luna nel 1969 o il lancio di internet negli anni
1970 -, subito dopo, però, essi predicono la loro inevitabile e prossima caduta,
come nel 1957, allorché Mosca lancia lo Sputnik, o nel 1971, quando cessa la
convertibilità del dollaro con l’oro, oppure, agli inizi degli anni 2000, quando
scoppia la bolla internet e che vengono rivelate le turpitudini di Enron, Worldcom
(intreccio perverso fra mafie e finanze). Negli ultimi tempi, la nuova crisi
finanziaria d’oltre atlantico ha contribuito a rilanciare le speculazioni sul declino
degli Americani, ma, come al solito, anche se molti analisti hanno giudicato questa
recente crisi di una natura diversa dalle precedenti, l’aquila americana, anche
questa volta, non ne è risultata mortalmente ferita
Quale declino ?
Eppure non si finirebbe di enumerare i fondamenti intatti della potenza
americana.
In primo luogo le risorse del loro spazio, in particolare il loro food power, da cui
dipende ancora l’alimentazione del pianeta. Dal momento che, nel 2007, essi
decidono di moltiplicare per 5 la loro produzione di etanolo per la trazione, i
prezzi dei cereali hanno iniziato a crescere sensibilmente. Il territorio dal quale
essi possono trarre le ricchezze del suolo e del sottosuolo supera d’altronde le
loro frontiere e si estende, grazie all’ALENA, al Messico ed al Canada, due
importanti paesi produttori di energia.
In secondo luogo la potenza delle sue imprese. La produzione delle loro filiali
all’estero rappresenta circa il triplo delle loro esportazioni. Questo non accade
senza contropartite: una parte della produzione viene rimpatriata oltre Atlantico
e contribuisce alle difficoltà della loro industria. Questa constatazione consente,
tuttavia, di valutare con una certa relatività il regresso degli USA e lo sviluppo
dei loro concorrenti: il 90% delle esportazioni cinesi di materiale informatico
sono l’effetto di aziende straniere, fra le quali numerose marche americane (1).
Da ultimo la loro capacità di innovazione. In questo campo, l’intervento dello
stato non si discute ed alimenta lo sfogo principale della ricerca mondiale - quasi
il 40% delle spese mondiali. Il brain drain (drenaggio dei cervelli) contribuisce
alla supremazia americana e fornisce il 15% degli ingegneri al paese.
Ben altre prove potrebbero essere portate a sostegno della tesi appena
avanzata: il dinamismo demografico che dovrebbe permettere agli USA di
ammortizzare la crisi della crescita del numero dei “pensionati”, che, invece,
minaccia l’Europa di oggi e la Cina di domani; le qualità di una manodopera, che
lavora 1800 ore per anno (contro le 1500 ore mediamente lavorate in Europa) e
che si piazza in testa nel mondo per quanto riguarda la produttività; il
pragmatismo dell’amministrazione che, ben lungi dall’immagine falsamente
diffusa “dell’ultraliberalismo”, interviene pesantemente nell’economia - per
sostenere la crescita, per contrastare l’acquisto di imprese strategiche e per
mantenere la superiorità tecnologica del paese.
Tutto questo tuttavia non convince quelli che propendono per il “declino”. Essi si
focalizzano su qualche elemento, peraltro indiscutibile. Il deficit della bilancia
commerciale estera, l’indebitamento, il debole tasso di risparmio. Le loro tesi
sono state riassunte brillantemente dal sociologo Emmanuel Todd (1951- ) (2).
Secondo questi, gli Americani si sono allontanati dalla produzione di beni
materiali; essi preferiscono importarli. E per finanziare questi acquisti essi sono
costretti ad operare sul mondo un “prelevamento imperiale”, che passa
attraverso il loro sistema finanziario, ma occorre che il resto del pianeta accetti
questo prelevamento. Per questo, Washington ha fatto valere a suo tempo lo
sforzo compiuto per difendere il “mondo libero” ed i diritti dell’uomo. Questo
argomento ha ormai perduto parte del suo valore con la fine della guerra fredda,
tanto più che la crescita delle disuguaglianze, contraddice i valori democratici, ai
quali gli Americani si rifanno. In ogni caso, quando ne hanno bisogno, gli USA
stampano nuova carta moneta con la quale acquistano i beni e servizi per le
proprie esigenze interne, aumentando in tal modo il debito, … in mano ai loro
creditori.
Questa analisi va direttamente all’essenziale, ovvero alla capacità degli USA di
mobilitare le risorse del pianeta a loro vantaggio. In realtà, dietro il flusso
economico, l’esame di quelli che propugnano il declino smaschera i rapporti di
forza politici e le giustificazioni ideologiche, ma forse esso pecca per eccesso,
perché l’analisi sembra sottovalutare i fondamenti della potenza economica
americana. Essa si focalizza sulle industrie tradizionali che, è vero, hanno subito
un arretramento, il tessile inizialmente, l’acciaio ieri e l’automobile oggi, al punto
che la General Motors si è trovata sull’orlo del fallimento, come la Bethlehem
Steel nel 2001. Tuttavia, durante questo periodo sono nate, nella sola Silicon
Valley, Hewlett Packard, Intel, Apple, Atari, Fairchild, Sun Microsystems,
Oracle, Cisco, Yahoo, ecc..
L’apparato produttivo americano si basa ora sulla tecnologia e sui servizi; non si
tratta indubbiamente di beni materiali, che provoca un certo disprezzo da parte
dei nostalgici del “mattone” e della “morchia” del petrolio. Il loro controllo
permette comunque agli USA di orientare a loro vantaggio i flussi di denaro, di
tecnologia e di informazioni di tutto il pianeta. Essi non si accontentano di
dominare gli oceani, essi controllano l’insieme degli elementi fluidi dell’economia e
costituiscono, in tal modo, la prima talassocrazia high tech della storia.
L’analisi dei fautori del declino, porta peraltro a delle conclusioni radicali sulla
crisi economica che attanaglia oggi il paese. E’ pur vero che il crollo del sistema
finanziario ha rivelato dei disequilibri sui quali si appoggiava la crescita degli
USA, in particolare, l’eccesso di indebitamento. Questo fatto può determinare la
perdita di fiducia nel loro modello di sviluppo e potrebbe rendere più difficile nel
futuro il “prelevamento imperiale” di cui parla Emmanuel Todd.
Queste domande appaiono giustificate, ma la risposta appare troppo affrettata.
Il solo elemento certo di oggi, la crisi partita dagli USA, che tocca oggi il mondo
intero, smentendo la tesi degli analisti che pensavano che l’Asia si sarebbe
emancipata dagli USA. Peraltro, Wall Street ha subito uno shock decisamente
meno brutale di quello sofferto dalle altre borse mondiali. Infine, il dollaro ha
paradossalmente subito un apprezzamento dall’inizio della crisi. Potrebbe persino
accadere che gli Americani possano subire meno degli altri gli effetti di una crisi
che essi stessi hanno provocato !!! La storia non è nuova al ripetersi di tali eventi.
Il dollaro, il dollaro ed il dollaro
Gli Usa potrebbero uscire dalla crisi a nostre spese ? La domanda ne provoca
un’altra: possono essi restare una economia dominante, quella che fissa le regole
e che ne approfitta per orientare a suo vantaggio il funzionamento del pianeta ?
Essi dispongono di questo potere a partire dalla 2^ Guerra Mondiale. Questa
egemonia si appoggia su tre punti fondamentali: il dollaro, il dollaro ed il
dollaro.
Il dollaro che consente agli Americani di pagare e di indebitarsi con la loro
moneta; è il “privilegio del debito senza lacrime”, messo in evidenza già negli anni
1960.
Il dollaro che sostiene i loro consumi e quindi la loro crescita ed il loro mercato
del lavoro.
Il dollaro, infine, che facilita l’acquisto delle materie prime, di beni ed
attrezzature, delle imprese e delle tecnologie del resto del mondo ed attraverso
il quale viene operato il “prelevamento imperiale” sopraccitato.
Questa situazione è stata messa in opera nel 1944 con gli Accordi di Bretton
Woods, che hanno reso la moneta verde il riferimento del sistema monetario
mondiale. In contropartita, gli USA si impegnavano ad assicurare la sua
convertibilità in oro: la loro Banca Centrale, la FED, doveva scambiare in oro i
dollari presentati dalle altre banche centrali. Nel 1971, il Presidente Richard
Nixon (1913-1994) arriva a sbarazzarsi anche di questo “fastidioso” vincolo. Da
allora il dollaro rimane allo stesso tempo la moneta degli USA e la moneta del
mondo, ma i due contraenti non sono più su un piano di parità: gli USA fabbricano
i dollari e li spendono, gli altri li ricevono e li “ammucchiano”, finendo per dare
ragione alla frase del segretario di Stato USA, John Bowden Connally (1917-
1993), che, negli anni 1970, diceva apertamente “il dollaro è la nostra moneta ed
il vostro problema !!”
Dal 1971, il mondo non è più obbligato a fare del dollaro la moneta di riferimento
e pur tuttavia esso continua a farlo per almeno tre ragioni.
In primo luogo, la forte ripresa del 1983 provoca una ripresa di fiducia negli
USA. Il ritorno ad una crescita sostenuta, i guadagni di produttività, i profitti
elevati vi contribuiscono, ma anche l’influenza delle teorie liberali e la capacità
dei finanzieri che moltiplicano le “innovazioni” (3). Come, in effetti, lo ha spiegato
Ben Shalom Bernanke (1953- ), presidente della FED, “non sono gli USA che si
indebitano ma il resto del mondo che concede loro dei prestiti”.
In ogni caso, dopo la grande crisi della fine della decade degli anni 2000, tutti di
nuovo facevano a gara per pronosticare un prossimo crollo della moneta verde, ma
i successi dell’economia americana sotto la presidenza Donald Trump (1946- ),
della fine della decade 2010, hanno ridato nuovo slancio al dollaro ed al sistema
che sottintende.
Inoltre il dollaro non ha incontrato dal 1971 veri rivali. Non lo è stato il marco
tedesco, in quanto la Germania temeva la sua internazionalizzazione ed i rischi di
inflazione che avrebbe potuto provocare; non lo è stato l’ECU, che nella pratica
non era una vera moneta; non lo è stato lo yen giapponese, che non era sostenuto
da un sistema finanziario aperto e potente; non lo è l’Euro e neppure,
evidentemente gli embrioni abortiti di moneta mondiale come il DTS. Lo sarà in
futuro la moneta cinese ?
Ma, soprattutto, i partners degli USA non hanno alcun interesse ad un crollo del
dollaro. I Cinesi minacciano a volte di diversificare le loro riserve monetarie e di
liberarsi di una parte dei loro buoni del Tesoro americano. Ma se essi li vendono,
il dollaro inevitabilmente perde valore con il conseguente corollario del crollo
delle loro esportazioni verso gli USA. In effetti negli ultimi anni i Cinesi hanno
speso molti dei loro dollari per acquisti strategici in Africa e per grandi progetti,
ma la situazione generale non sembra, al momento essere particolarmente
cambiata. Ognuno dipende da tutti gli altri nell’economia mondiale: rifiutare di
accettare il dollaro nel pagamento di acquisti americani, significherebbe uccidere
un “mercato dalle uova d’oro”, ovvero gli USA e precipitare l’intero pianeta nel
caos. I produttori cinesi, inoltre hanno assoluto bisogno dei consumatori
americani per mantenere il loro sviluppo. Le recenti vicende dei dazi lo stanno
chiaramente a dimostrare ! !
La forza della debolezza
Che cosa resta di queste argomentazioni oggi ? Entrambi conservano la loro
pertinenza, ma potrebbero perderla a medio termine.
In primo luogo, perché la crisi attuale sconvolge il modello americano; essa
ingenera molti dubbi sullo stato di salute dell’economia americana. I
risparmiatori, che posseggono, secondo la formula di Luigi Einaudi (1874-1961),
“il coraggio del montone, le zampe della lepre e la memoria dell’elefante”, sono
scottati dai sotterfugi finanziari che li hanno rovinati. Le banche d’investimento
americane sono peraltro scomparse nella tormenta. Chi sarà disposto domani a
piazzare i suoi risparmi o il suo patrimonio oltre Atlantico ? Anche se, come si è
visto, il dollaro subisce un apprezzamento durante la crisi, questo fatto può
rappresentare una prima incertezza che potrebbe minacciare la sua preminenza a
medio termine. In ogni caso, va rilevato che l’economia americana con i
provvedimenti introdotti dalla presidenza Trump ha recentemente conseguito il
pieno impiego e le sue prospettive a breve termine non appaiono critiche,
Il secondo aspetto concerne l’euro. Egli si è affermato a poco a poco a fianco del
biglietto verde. Il dollaro rimane la moneta di fatturazione del commercio
mondiale (intorno al 50%), quella delle riserve monetarie (circa due terzi di
quelle mondiali) e quella delle operazioni sul mercato dei cambi (circa la metà).
Per contro, l’euro è passato, dalla sua creazione, dal 20 al 25% delle riserve
monetarie mondiali; le obbligazioni internazionali sono oggi formulate
maggioritariamente in euro, fatto che comprova la fiducia nella sua stabilità
futura. Non è forse vero che l’euro, dopo essersi deprezzato fino al 2001, ha
continuato ad apprezzarsi rispetto al dollaro, almeno sino a due anni fà ?
Ma l’euro può sostituire il dollaro ? Certuni, come l’economista e politico Fred
Bergsten (1941- ), l’hanno annunciato sin dalla sua creazione, prevedendo,
erroneamente, il ribaltamento entro il 2010. Notevole preveggenza in ogni caso ?
Il professore Benjamin Cohen (4) invita a rimanere prudenti. L’Euro soffre di
problemi politici, ovvero delle divisioni dell’Unione: come la fiducia in esso non può
rimanere scossa quando certi governi, fra i quali la Francia, si lamentano dell’Euro
forte, mentre altri ritengono che il suo corso sia quello corretto ?
L’affermazione dell’Euro passa attraverso l’instaurazione di una vera politica
economica europea; fatto che ancora non esiste, ma la cui messa in cantiere
avrebbe potuto essere accelerata dalla crisi di oggi e che al momento appare
come una scommessa perduta.
Rimane un ultimo argomento in favore del dollaro. Nessuno ha interesse al suo
crollo, né che subisca una concorrenza troppo forte da parte dell’Euro. Le
conseguenze del suo crollo sarebbero talmente gravi per i partners degli USA
che essi si sono rassegnati a sostenerlo. Forse essi si ricordano dell’ultima volta
in cui il sistema monetario internazionale è stato suddiviso fra due monete rivali:
si trattava degli anni 1920, il dollaro che cominciava a sostituirsi alla lira sterlina
e le primizie della crisi degli anni 1930, …
Per certi aspetti, il dollaro è forte della sua debolezza, come la Russia del 1914
era ricca del suo indebitamento. Il resto del mondo, in special modo l’Asia,
sostiene il dollaro perché si tratta di difendere il suo interesse economico. In
definitiva, essi preferiscono pagare il “prelevamento imperiale”, piuttosto che
rovinarsi il loro sistema di vita. Eppure i rapporti di forza fra le nazioni non sono
sempre basati sulla pura economia mentre i rapporti fra gli uomini risultano
dall’effetto della pura razionalità. La Cina non vuole semplicemente solo vivere
meglio, il Brasile non aspira solamente ad esportare di più e, come l’India, non si
augura esclusivamente di sradicare la miseria dal suo popolo. Spesso la pulsione e
la logica di potenza si rivelano più forti della logica dell’interesse razionale. In
effetti, se si dovesse instaurare un conflitto di grossa rilevanza fra questi paesi
(Cina, India) con Washington, questi potrebbero essere tentati svendere i loro
dollari, impiegando un’arma devastante anche per loro stessi. Ebbene, in questo
caso il sistema attuale, basato sul dollaro, potrebbe veramente crollare.
NOTE
(1) Gilboy Gorge J., “Il mito dietro il miracolo della Cina” (The myth behind
China’s miracle), Foreign Affaire, luglio-agosto 2004, con dati riferiti al 2003;
(2) Todd Emmanuel, “Dopo l’Impero” (Apres l’Empire), Gallimard, 2004;
(3) Come lo dirà con molta dose di humor un osservatore: innovare in questo
campo significa trovare il mezzo di prestare del denaro a gente alla quale non si
dovrebbe prestare. Ed oggi ne abbiamo visto e patito le conseguenze di questa
insana logica;
(4) Cohen Benjamin J., “Perché l’euro non è in condizione di rimpiazzare il
dollaro ?”. L’Economia Politica, ottobre 2003.
ULTIME CROCIATE,
un panorama del 14° e 15° secolo
Pubblicato sul n. 274, marzo 2020, della Rivista Informatica “Storia in
Network” (www.storiain.net) con il titolo: “ULTIME CROCIATE TRA XIV E XV
SECOLO”)
Nel 1291, San Giovanni d’Acri, l’ultimo bastione dei crociati in Terra Santa,
cade nelle mani dei Mamelucchi. Questo avvenimento non ha significato,
tuttavia, la fine delle Crociate. Ancora per altri 150 anni, numerosi cavalieri
percorreranno il mondo alla ricerca di gloria e di “infedeli” da combattere.
La cavalleria e lo spirito delle Crociate
Alla fine del Medioevo, l’entusiasmo per la Guerra Santa rimane intimamente
legato all’ideologia cavalleresca. Fino alla fine del 13° secolo circa, uomini e donne
di ogni categoria sociale avevano partecipato alle Crociate con l’obiettivo della
“liberazione” di Gerusalemme e degli altri luoghi marcati dalla presenza di Cristo.
La Crociata in Terra Santa assomigliava, in tal modo, ad una specie di
“pellegrinaggio in armi”, che riuniva Cristiani di tutte le origini. Col passare del
tempo, il viaggio diventa sempre più caro, fino a diventare accessibile solo ad un
ridotto strato sociale. Allo stesso tempo, in maniera concomitante, un numero
crescente di poeti, menestrelli ed altri personaggi che scrivono per conto della
nobiltà, insistono sul fatto che un cavaliere deve andare a cercare la gloria,
combattendo lontano e mettendo le sue armi al servizio di Dio.
Il “viaggio” contro gli “infedeli” (1), per usare i termini dell’epoca, diventa
progressivamente un segno di distinzione sociale.
Dopo la 1^ Crociata (1096), la maggior parte dei nobili e del clero considera che
la partecipazione alla guerra contro i “nemici del Cristo” può allo stesso tempo
permettere di salvare la propria anima, di aumentare la rispettiva fama e di,
eventualmente, arricchirsi. Gli aspetti materiali e spirituali non si escludono
mutualmente. Per di più, altri fronti di crociata vengono rapidamente ad aprirsi
lontano dalla Terra Santa: la penisola iberica, inizialmente, dove i principi
cristiani combattono i “Mori”; quindi i bordi del Baltico, dove i Cavalieri Teutonici
affrontano i pagani della Prussia, della Livonia e della Lituania. A partire dal 13°
secolo, i Cristiani che desiderano combattere l’infedele hanno a disposizione
diverse possibilità per compiere il loro voto.
Quando gli ultimi Crociati vengono espulsi dalla Terra Santa, la linea del fronte si
sposta nel Mediterraneo orientale e nei Balcani. Cipro, Rodi e la Grecia diventano
le basi avanzate della lotta contro le potenze, mamelucca ed ottomana. Questi
avamposti cattolici sono generalmente dominati da dinastie di origine francese o
italiana (Lusignano, Acciaioli, ecc.). Molti di essi discendono dai capi crociati che
si erano ritagliati dei feudi sulle spoglie dell’Impero bizantino, a seguito della
Crociata del 1204, quando un esercito franco-veneziano aveva conquistato
Constantinopoli (Bisanzio) e vi aveva insediato un imperatore cattolico. Nel 1259,
un principe greco, Michele 8° Paleologo (1223-1282), riconquista
Constantinopoli, ne espelle l’ultimo imperatore latino e quindi si fa incoronare
Basileus, a sua volta. Viene così restaurato un potere imperiale greco-ortodosso,
ma gli sconvolgimenti interni, il frazionamento del paese in piccole entità
politiche e la spinta dei Turchi ottomani, renderà difficile la sua sopravvivenza.
Le spedizioni marittime
A partire dagli inizi del 14° secolo, alcuni mercenari catalani, provenzali ed
aragonesi iniziano ad ingerirsi negli affari bizantini. Invitati, in un primo tempo,
per combattere i Turchi, essi si insediano in diverse regioni della Grecia e
seminano il terrore, sia fra i Cristiani, sia presso i Mussulmani. Le “Compagnie
catalane” hanno fatto parlare a lungo di sé, poiche ancora nel 1451, l’araldo
d’arme e grande viaggiatore francese, Gilles le Bouvier (1386-1455), li cita fra le
bande di pirati che schiumano sulle rive del Mar Nero.
Parallelamente ai “Catalani”, i Cavalieri Giovanniti dell’Ospedale Gerosolimitano si
insediano nell’isola di Rodi, che trasformano in una testa di ponte nella lotta
contro i Mamelucchi ed i Turchi ottomani. Sotto il loro governo, la città di Rodi,
capitale dell’isola, viene dotata di mura e di una cittadella, dove risiede il Gran
Maestro dell’Ordine. Successivamente, arriva il momento delle spedizioni
principesche, il cui scopo é - ufficialmente – quello di proteggere quel che resta
dell’impero bizantino di fronte alla crescente potenza dell’Impero ottomano. La
dinastia ottomana, derivata dall’antico impero selgiuchide, conduce una politica
espansionista a danno dei piccoli principati turchi e dei regni cristiani d’Anatolia
e dei Balcani. Conseguentemente, l’obiettivo della Crociata si evolve. Il recupero
della Terra Santa rimane nei voti di tutti, ma una parte sempre crescente dei
responsabili politici europei considerano che é molto più urgente mettere un
freno all’avanzata ottomana.
Nel 1343 e nel 1345, papa Clemente 6°, Roger (1291-1352) lancia due spedizioni
allo scopo di difendere la città greca di Smirne (attuale Izmir in Turchia). Il
principe Uberto o Umberto 2°, il Vecchio, de la Tour du Pin, (1312-1355)
conte di Vienne, ottiene un successo militare, ma, inaspettatamente, si ritira,
subito dopo aver conseguito la vittoria, consentendo, poi ai Turchi di riprendere
la loro offensiva. Due decenni più tardi, nell’estate del 1366, il conte Amedeo 6°
di Savoia (1334-1383), il Conte Verde, sbarca sotto i bastioni di Gallipoli
sull’Ellesponto, la prima città occupata dai Turchi sul suolo europeo. La posizione
é strategica, poiché consente di impedire al sultano di alimentare i suoi sforzi nei
Balcani. Ma, per Amedeo, l’impresa riveste anche un carattere personale:
l’imperatore bizantino, Giovanni 5° Paleologo (1332-1391), non é altro che suo
cugino e l’Acaia, una provincia bizantina del Peloponneso, viene rivendicata da un
ramo cadetto della sua famiglia. Nel mese di agosto di quell’anno, la città cade
nelle mani dei Savoiardi, ma nello stesso tempo si viene a sapere che l’imperatore
era stato catturato dai Bulgari, anch’essi ortodossi, ma politicamente opposti ai
Paleologhi. Amedeo 6° decide, a quel punto, di dirigersi nel Mar Nero, assedia la
città di Varna in Bulgaria e riesce a far liberare il suo imperiale cugino. Dopo una
serie di feste sontuose, il conte rientra in Europa, coperto di gloria, ma anche
alquanto indebitato.
La Grecia non é il solo paese che attira i crociati occidentali. L’anno che precede
la spedizione savoiarda, il 1365, Pietro 1° di Lusignano (1328-1369) conduce un
attacco contro Alessandria, ricco porto egiziano. Questa volta, l’avversario non é
il giovane e dinamico Impero ottomano, ma lo Stato dei Mamelucchi, che controlla
ancora la Terra Santa. Sostenuta da papa Urbano 5°, Grimoard (1310-1370), la
spedizione del re di Cipro ha come scopo quello di mettere in crisi l’Egitto, per
obbligarlo ad allentare la tenaglia sulla Palestina. La prima fase dell’operazione
ottiene un significativo successo, in quanto il porto egiziano viene conquistato
nell’ottobre del 1365 e messo al sacco. Dopo questo evento, i volontari al servizio
del re, si reimbarcano e mettono la vela verso l’Europa, mentre Pietro di
Lusignano ed i suoi consiglieri avevano previsto la condotta di una campagna molto
più lunga. Temendo di essere accerchiati dalle truppe egiziane che stavano
giungendo per dare man forte alla città di Alessandria, anche i Ciprioti saranno
poi costretti a reimbarcarsi e rientrare nel loro paese.
Ancora una volta, i Crociati si ritirano dopo una prima vittoria, senza
preoccuparsi delle condizioni del paese che lasciavano dietro di loro.
Se il successo appare spesso scontato per quanto concerne il campo militare, ai
Crociati occidentali manca completamente una visione strategica a lungo termine.
Forse l’interesse principale di quelli che partecipano a questo tipo di avventura
non era proprio quello strategico ed in molti casi l’aspetto venale della spedizione
aveva il sopravvento su tutto il resto.
La Crociata e la Guerra dei Cent’anni
Pietro di Lusignano, sebbene la sua eclatante vittoria di Mamelucchi non abbia
avuto un seguito significativo, é stato celebrato in Occidente come un vero eroe
ed il poeta Guglielmo de Machaut (1300-1377) traccia un ritratto del
personaggio in questi termini: “... in nessun testo, dall’epoca di Goffredo di
Buglione, che ha fatto molta paura ai Saraceni, si trova alcun personaggio dal
quale i Saraceni siano stati così messi a mal partito e che si sia tanto opposto ad
essi; in quanto da Cipro al Cairo egli li ha fatto tremare e gemere” (2).
In generale, per la massa dei Crociati della fine del Medioevo la gloria personale
conta quanto – se non molto di più - della difesa del Cristianesimo o della salvezza
dell’anima. Perlomeno, la maggioranza dei testi relativi alle Crociate, redatti negli
ambienti aristocratici, si dilungano più sulle questioni d’onore e di fama che su
considerazioni di ordine spirituale o strategiche. Non manca, peraltro, qualche
moralista, specialmente il militare francese Filippo de Mezieres (1327-1405) o il
poeta inglese John Gower (1330-1408). Entrambi non hanno mai smesso di
ricordare che queste spedizioni condotte per la “vana gloria” mirano ad uno scopo
essenzialmente profano e, pertanto, non posseggono alcun valore per la causa
sacra che é rappresentata dalla difesa della Chiesa ed il recupero della Terra
Santa. Concretamente, imprese come queste, sono destinate all’insuccesso e non
servono altro che a deteriorare i rapporti dei Cristiani orientali con i loro vicini
mussulmani.
A tale riguardo, il Mezieres parla con cognizione di causa, in quanto, questo
cadetto della piccola nobiltà della Piccardia aveva partecipato ai combattimenti
davanti a Smirne (1345) ed Alessandria d’Egitto (1365), prima di dedicarsi alla
scrittura ed alla politica (é poi stato il consigliere di Pietro di Lusignano, quindi
dei re francesi, Carlo 5° (1338-1380) e di Carlo 6° (1368-1422)). Quello che
egli propugna, non é una nuova spedizione principesca, ma un’impresa molto più
ampia, pianificata a lungo termine e coinvolgente tutte le nazioni cristiane. Per
Filippo di Mezieres, la crociata non può avere successo se non prevalgono in
Europa condizioni di pace, specialmente fra la Francia e l’Inghilterra.
Fino a quando i combattimenti della Guerra dei Cento Anni sono nel loro
parossismo, gli affari orientali passano in secondo piano nell’agenda dei re e dei
principi. Fatto comunque che non impedisce alla guerra santa di essere, a volte, al
servizio della politica nazionale. Questo é proprio il contesto, nel quale il re di
Francia, Carlo 5° ed il papa Urbano 5° tenteranno di coinvolgervi le Grandi
Compagnie di vecchi mercenari, che seminavano il terrore nel regno dei gigli, nei
momenti di tregua o di pace. Nel 1365, il connestabile Bertrand du Guesclin
(1320-1380) entra in Spagna alla testa di “molti soldati delle compagnie, inglesi,
guascone, bretoni, normanne e di altre nazioni, che si trovavano nel regno di
Francia” (3). L’obiettivo dichiarato é quello di combattere i Saraceni (ovvero i
Mori), ma, una volta attraversati i Pirenei, i Francesi si schiereranno sotto le
bandiere del re d’Aragona contro il re di Castiglia, Pietro 1° il Crudele (1334-
1369). Se quest’ultimo riceve, secondo le cronache francesi, il sostegno del re
mussulmano di Granada, egli é molto legato con gli Inglesi. Du Guesclin conduce,
in tal modo, la classica operazione “due piccioni con una fava”, liberando con un
solo colpo: da un lato, la Francia da una parte importante di briganti e mercenari
che vi pullulavano e dall’altro, di mettere a mal partito un alleato dell’Inghilterra.
Per contro, quando il papa negozia con l’influente capo dei mercenari Arnaldo
Regnaud de Cervole o Cervolle, soprannominato l’Arciprete (1300-1366; che
darà la sua adesione alla crociata del Conte Verde), per inviarlo in Crociata ed
allontanarlo dal territorio di Avignone, l’impresa si risolve in un fallimento. Se si
dà credito alle Cronache di Francia dello storico Jean Froissart (1337-1405), il
capo mercenario avrebbe più semplicemente sviato il denaro ricevuto allo scopo
di organizzare una spedizione per difendere l’Ungheria contro i Turchi, prima di
farsi assassinare da uno dei suoi stessi uomini, nel 1366.
Se un colpo di mano contro un nemico cristiano può, se capita l’occasione, essere
mascherato da “crociata”, la guerra contro i “nemici della fede” deve servire
anche a riavvicinare gli avversari durante i momenti di tregua. Alla fine del 14°
secolo, il re Carlo 6° di Francia e Riccardo 2° d’Inghilterra (1367-1400) cercano
di concludere un accordo fra i loro rispettivi paesi. Uno dei compiti meno evidenti
risulta quello di fare accettare quest’idea alla nobiltà ed ai principi che vedono di
buon occhio il prolungarsi della guerra. I consiglieri dei due monarchi – fra i quali
Filippo de Mezieres, appunto – cercano in ogni modo di ricordare che la divisione
fra cristiani risulta pregiudizievole alla causa della Fede e che, al contrario,
combattere gli infedeli fa parte della vocazione del cavaliere. Per di più,
numerosi uomini d’arme di nobili origini finiscono per rimanere senza impiego in
questi periodo di tregua. Occorre dunque fornire loro l’occasione di battersi,
possibilmente lontano dal territorio del regno ...
La fine delle crociate principesche
Quando alcuni ambasciatori della città di Genova si presentano alla corte di
Francia per chiedere aiuto contro i pirati dell’Africa del Nord, il duca Luigi 2° di
Borbone (1337-1410), zio del re, si rende disponibile per organizzare una
spedizione. Anche un contingente inglese si aggiunge all’avventura: il corpo di
spedizione, che si imbarca nel 1390, raggruppa volontari francesi ed inglesi
guidati da marinai genovesi. L’obiettivo dell’impresa é la città fortificata di
Mahdia, posta sulle coste del regno di Tunisi e considerata come una delle
principali basi di appoggio dei pirati nord africani. Inizia, pertanto, un lungo
assedio, punteggiato da combattimenti e si arriva in tal modo alla fine
dell’autunno, periodo durante il quale il mare diventa pericoloso. I comandanti del
corpo di spedizione cristiano decidono di rientrare e si accontentano di imporre
un tributo al Governatore di Mahdia. Navigando verso l’Europa, Luigi di Borbone
insiste per avere un’occasione per mettere in risalto il suo valore. I capitani
genovesi, a quel punto, dirigono la flotta crociata verso alcune città italiane,
colpevoli, a loro dire, di commerciare con i “Saraceni”... La crociata del duca di
Borbone ha contribuito a creare un vero entusiasmo fra la nobiltà francese ed
inglese ed, in tal modo, il movimento della crociata si amplifica. Durante il 14°
secolo, diversi volontari raggiungono, per la durata di una stagione, i Cavalieri
Ospedalieri a Rodi (contro i Mamelucchi e gli Ottomani), ma anche i Cavalieri
Teutonici in Prussia, per partecipare alle campagne contro la Lituania pagana.
Quest’ultima destinazione incontra un successo particolare intorno agli anni
1390, senza dubbio per effetto dell’addestramento effettuato nell’ambito della
spedizione di Mahdia. L’Ordine Teutonico risulta, a quel tempo, in piena lotta
contro il granduca di Lituania, Ladislao Jagellone (1362-1434), che aveva appena
ricevuto il battesimo e la corona di Polonia (1386-87). La Samogizia, una piccola
provincia costiera del Baltico risultava non ancora evangelizzata. La guerra
contro i pagani d’Europa del Nord continua, così, con la scusa di combattere i
pagani rimasti, anche se ormai non si tratta più di una vera guerra religiosa, ma
piuttosto dell’occasione per regolare “sul campo” le differenze di opinioni fra i
Teutonici e gli Stati cristiani di Polonia e Lituania.
Tuttavia, non appena comincia a diffondersi la notizia riguardante il battesimo
del granduca di Lituania, il flusso di volontari verso il fronte del Baltico inizia a
scemare fino ad esaurirsi. Anche la sconfitta dei Cavalieri Teutonici nella
battaglia di Tannenberg (1410) non riesce a ravvivare la fiamma dello spirito
delle crociate. Il fiammingo Guillebert o Gilbert de Lannoy (1386-1462), uno
degli ultimi signori francesi a recarsi in Prussia nel 1413, constata che le crociate
contro i pagani del Baltico appartengono ormai al passato. Lasciando i suoi ospiti,
egli si lancia in un lungo viaggio che lo conduce fino alla città russa di Novgorod e
Pskov, quindi in Lituania, in Polonia ed in Boemia. Secondo le sue note di viaggio,
questo cavaliere e diplomatico sembra ormai più interessato dal fatto di
“osservare (veoir) il mondo”, che dalla lotta contro i miscredenti.
La volontà di unire la cavalleria inglese e francese in una impresa comune,
l’attrazione per l’avventura in paesi lontani e la ricerca dell’onore personale
costituiscono le motivazioni di una delle ultime grandi crociate dell’Europa
medievale. Nel 1396, un esercito, comandato dal figlio del duca di Borgogna, Jean
de Nevers (il futuro Giovanni senza Paura, 1371-1420), si mette in marcia per
l’Ungheria. Agli inizi, l’idea era quella di riunire i principi francesi ed inglesi di
Lancaster, d’Orleans e di Borgogna per portare aiuto al re Sigismondo di
Lussemburgo, re d’Ungheria (1368-1437), il cui paese risultava minacciato dalle
truppe del sultano Bajazet o Bejazit 1° Yildirim (1360-1403). Ma, dopo la
successiva rinuncia dei presumibili capi della crociata, toccherà ai grandi ufficiali
francesi il compito di assumere la responsabilità della condotta delle truppe,
venendo, tuttavia, a mancare un principe esperto e sufficientemente autorevole
da non essere contestato dagli altri collaboratori. Quando l’esercito turco si
presenta di fronte ai Crociati davanti alla città di Nicopolis, il re d’Ungheria
presenta un piano di battaglia che avrebbe dovuto, a suo dire, assicurare la
vittoria ai cristiani. Ma i giovani e focosi Filippo d’Artois, conte d’Eu (1358-1397
conestabile di Francia) e Jean 2° le Meingre, detto Boucicaut (1364-1421),
figlio dell’omonimo Maresciallo di Francia), impongono il loro punto di vista sulla
strategia da seguire, con gran danno per gli Ungheresi e per gli ufficiali francesi
più anziani. Il risultato sarà catastrofico: il 25 settembre 1396 l’esercito francoungherese
verrà massacrato. Il fior fiore della cavalleria francese viene
decimato, i sopravvissuti al disastro vengono giustiziati, imprigionati o posti sotto
riscatto. Con Nicopolis viene spezzato l’entusiasmo per le crociate.
Dalle isole Canarie alla Georgia: fra crociata, pirateria ed esplorazione
Il trauma causato dalla sconfitta di Nicopolis, oltre che la ripresa delle ostilità
fra la Francia e l’Inghilterra spiegano il relativo disinteresse per le Crociate agli
inizi del 15° secolo. La lotta contro le potenze mussulmane – in linea di massima
contro l’Impero ottomano – diventa progressivamente un affare privato delle
dinastie dell’Europa orientale, che vengono a trovarsi in prima linea e sempre più
rare diventano le crociate che vengono lanciate, anche se gli avventurieri di
molte nazioni continuano a recarsi sempre più lontano. Il maresciallo Boucicaut,
uno dei rari sopravvissuti di Nicopolis, viene nominato governatore di Genova nel
1401. (4) Dopo aver preso brutalmente in mano gli affari della città, egli fa
requisire la flottiglia e lancia un raid su Famagosta, porto mercantile disputato
fra Genova ed il re di Cipro, Giano di Lusignano (1375-1432), prima di attaccare
alcune città mussulmane in Medio Oriente. Nella stessa epoca, due cavalieri
francesi Gadifer de la Salle (1340-1415) di Poitiers ed il normanno Jean de
Bethencourt (1362-1425) partono, al servizio del regno di Castiglia, alla
conquista delle isole Canarie dove vivono i Guanci, una popolazione pagana di
origine berbera. L’evangelizzazione e la sottomissione degli abitanti rientra negli
scopi dell’impresa, che riceve il sostegno del Papato avignonese. A quanto sopra
va aggiunto un interesse commerciale, in quanto dalle Canarie vi si trova in
abbondanza un licheno, chiamato scientificamente Roccella tintoria, molto utile
nella tintura della lana (5). In effetti Jean de Bethencourt ha interessi nel
commercio del tessile, che fa un grande uso di coloranti. Ideale cavalleresco ed
interesse economici non risultano più incompatibili.
Nel 15° secolo, la difesa e l’espansione della Cristianità si confonde volentieri con
la ricerca dell’avventura, ovvero del profitto. Del resto, i principi francesi non vi
partecipano più personalmente, anche se continuano a sostenere le imprese di
qualche individuo temerario. Più di ogni altro, il duca di Borgogna, Giovanni il
Buono (1396-1467), figlio dell’eroe sfortunato di Nicopolis, dimostra un suo
interesse per la crociata. Egli lascia intendere di essere pronto ad assumere la
guida di una nuova spedizione contro i Turchi - cosa non farà mai - ed invia alcuni
dei suoi familiari a percorrere i paesi dell’Oriente, come spie, diplomatici o
corsari. In tale contesto, il capitano di galere fiammingo Wallerano de Waurino
o Wavrin, nipote del letterato Jean de Wavrin (1397-1473) e l’ammiraglio
Goffredo de Thoisy prendono il mare nel 1441, per andare a dar manforte ai
Cavalieri Ospedalieri, assediati nell’isola di Rodi. Le sette navi borgognone
metteranno più di sei mesi per arrivare a Rodi, ed, al loro arrivo, i Cavalieri
avranno già vittoriosamenre respinto l’assalto dei Mamelucchi.
Siamo, a questo punto, alla vigilia di una nuova crociata condotta dal re di Polonia
e d’Ungheria, Ladislao 3° Jagellone (1424-1444) e dal legato pontificio Giuliano
Cesarini (1398-1444). Il ruolo dei Borgognoni era, secondo il piano di battaglia, di
bloccare il passaggio del Bosforo per impedire al sultano Murad 2° (1403-1451)
di far passare il suo imponente esercito in Europa. Wavrin e Thoisy non possono
portare a termine la loro missione e Murad, riuscirà a schiacciare l’esercito
crociato davanti alla città di Varna, il 10 novembre 1444.
Allorché sopraggiunge la notizia del nuovo disastro, gli ammiragli borgognoni
decidono di accorrere in soccorso dei capi dell’esercito crociato, che sperano di
trovare ancora in vita (6). La flotta si divide in due parti, prima di lanciarsi in
questa ricerca senza successo. A partire dalla primavera, Thoisy bordeggia le
coste del mar Nero, facendo la guerra di corsa alle navi che può catturare ed
attaccando le città tenute dai Turchi. Egli arriva fino all’attuale Georgia, dove
viene fatto prigioniero, mentre cercava di impadronirsi di un vascello
appartenente a cristiani orientali. Dopo la sua liberazione, egli percorre il mar
Nero ed il mar d’Azov, prima di rientrare in Fiandra, dove supervisiona i cantieri
navali del duca di Borgogna. Wallerano di Wavrin risale il Danubio, visita i paesi
che si affacciano sul fiume e fornisce sostegno per un certo periodo al principe
valacco Vlad 3° Dracula (1431-1476), detto Tepes (l’Impalatore). Entrato in
disacordo con i Valacchi, Wavrin rientra a sua volta in Fiandra e detta i suoi
ricordi allo zio cronista Jean de Wavrin.
Un’ultima annotazione sembra opportuno doverla dedicare alla 4^ Crociata
abortita di papa Pio 2° Piccolomini (1405-1464). Nell’ottobre 1458 il papa
riunisce un Congresso dei rappresentanti dei principi cristiani a Mantova con la
Bolla “Vocavit nos pius”, per intraprendere un'azione comune contro i Turchi
Ottomani che avevano conquistato definitivamente Constantinopoli e stavano per
prendere possesso di tutto l’Impero bizantino, sotto la guida di Maometto 2°
Fatih (il Conquistatore) (1432-1481). A tal fine, il 19 gennaio 1459 il Papa
istituisce un nuovo ordine religioso cavalleresco, l’Ordine di Santa Maria di
Betlemme ed il 18 giugno dello stesso anno parte per Ancona allo scopo di
condurre personalmente la crociata. Il 19 luglio seguente, dopo un viaggio
lentissimo e prostrante, a causa del caldo e delle infermità, il papa giunge
finalmente nel capoluogo dorico, dove trova circa cinquemila volontari, affluiti da
varie parti d'Europa per imbarcarsi, ma solo due galee delle quaranta promesse
da Venezia. Anche dal ducato di Borgogna, il 21 maggio 1464, parte dal porto di
Ecluse una piccola flotta di una ventina di navi, al comando dell’ammiraglio
Goffredo di Thoisy e del suo secondo Jacquot de Thoisy (suo parente). Sei
vascelli vengono affidati ad Antonio, il Bastardo di Borgogna (1421-1504). Il
corpo di spedizione, dopo aver costeggiato le coste spagnole e fatto una sosta al
Santuario di San Giacomo di Compostela, riceve della notizia della morte del
papa, avvenuta il 15 agosto e dell’annullamento della Crociata contro i Turchi. A
questo punto, il duca richiama in patria la piccola flotta, che rientra in Fiandra
dopo una lunga “santa crociera” in mare.
Conclusione
Il 29 maggio 1453, come sopra evocato, il sultano Maometto (Mehmet) 2° si
impadronisce di Constantinopoli dopo un lungo assedio ed in tale occasione né i
principi dei Balcani, né i crociati venuti dall’occidente sono stati in condizione di
proteggere la capitale bizantina. Le ultime isole e principati greci verranno
conquistati gli uni dopo gli altri, fino al 16° secolo. Sebbene punteggiata da
successi che hanno permesso ai loro autori di trarne gloria e (a volte) fortuna, i
crociati tardivi hanno introdotto, al massimo, un tempo di ritardo nella conquista
ottomana. Per quanto riguarda le altre destinazioni evocate nel corso
dell’articolo, l’azione di cavalieri occidentali non é stata quasi mai determinante.
Le Canarie, dopo un periodo sotto il dominio di Bethancourt, passano saldamente
nelle mani del Regno di Castiglia e la pirateria nel Mediterraneo occidentale
subisce appena un momentaneo arresto dopo l’assedio di Mahdia. La Lituania
entra a pieno titolo nell’Europa cristiana sotto il regno di Ladislao e di suo cugino
Vytautas (Vitoldo) Didysis (1344-1430). Dal punto di vista strategico, le
spedizioni cavalleresche condotte nei quattro angoli del mondo conosciuto non
sono state determinanti. Ma rimane, comunque, da spiegare come mai vi hanno
partecipato così tanti volontari.
Onore di casta, pressione sociale, brivido per l’avventura, ricerca del profitto,
salvezza dell’anima o dedizione e zelo per la difesa della Cristianità: le ragioni
per partire in crociata per terra e per mare sono numerose per i nobili della fine
del Medioevo. Non si dovrebbe, in ogni caso, omettere anche un’altra componente
di rilievo rappresentata dalla curiosità. Il fiammingo Guillebert o Gilbert de
Lannoy (1386-1462), raccontando il suo periplo attraverso i paesi dell’Europa del
Nord-Est, evidenzia il suo interesse per i costumi e le lingue dei popoli che ha
incontrato, per le particolarità della natura o dell’architettura. Walleran de
Waurin o Wavrin (nipote di Jean de Wavrin), da parte sua, dice di essersi
interrogato sulle rovine di Troia, mentre si trovava sull’isola di Tenedo (attuale
Bozcaada, in Turchia). Gli autori di racconti della conquista delle isole Canarie,
che hanno accompagnato La Salle e Bethencourt, riportano essi stessi
impressioni dettagliate sulle isole e sui loro abitanti. Le crociate in Prussia, nei
Balcani, nel Mediterraneo o al di là dello Stretto di Gibilterra sono state, in ogni
caso, un affare di militari, preoccupati prima di tutto delle cose attinenti alla
guerra e capaci di una grande brutalità. Infine, i ricordi che ci hanno lasciato
alcuni di loro ci consentono di comprendere che questi soldati di professione
evidenziano un interesse non solo professionale per i paesi attraversati e persino
un certo rispetto per l’avversario infedele. In definitiva, verso la fine del
Medioevo, i Crociati iniziano a trasformarsi, varie volte, in diplomatici ed in
esploratori.
NOTE
(1) Nel Medioevo, il termine viaggio ha il senso di spostamento, ma anche quello
di spedizione militare; infedele o miscredente sono termini che designavano i non
cristiani; Saraceni é invece un termine che veniva applicato, in un primo tempo,
agli Arabi del Medio Oriente, quindi a tutti i mussulmani ed infine ai mussulmani
ed ai pagani. Diverse Crociate sono state anche condotte contro gli eretici. Negli
ultimi secoli del Medioevo, l’esempio più significativo é stato quello degli Hussiti
di Boemia;
(2) Guglielmo di Machaut, La conquista di Alessandria (La Prise d’Alexandrie),
Orleans, 2011, Tallandier, Parigi, 2007;
(3) Cronaca del regno di Giovanni 2° e di Carlo 5° di Francia, Edizione Delachenal,
Parigi, 1910
(4) Nel 1395 il doge di Genova aveva avanzato la proposta di mettere la sua città
sotto la sovranità francese, sperando di conseguire, in tal modo, una certa
stabilità interna. Ebbene, il maresciallo Boucicaut, per la sua condotta dura e
temeraria, renderà ben presto impopolare il “partito francese” ed i suoi uomini
verranno scacciati da Genova nel 1409;
(5) Lichene da cui si estrae una sostanza colorante color violetto, utilizzata a fini
tintoriali. Il suo uso risale a tempi immemorabili e nel 14° secolo si fa risalire
l’origine di un’industria riguardante il lichene. Per molti secoli la raccolta del
lichene per la tintura o l’azzurraggio (della lana specialmente) ha rappresentato
una delle attività più fiorenti delle Canarie fino al 19° secolo;
(6) Ladislao, re di Ungheria e di Polonia viene ucciso sul campo di battaglia, come
anche lo stesso legato Cesarini.
BIBLIOGRAFIA
Chamorel Florian, Ad partes infidelium, La croisade de Amedée VI de Savoie,
Lausanne 2016 ;
Chollet Loic, Les Chevaliers Teutoniques : de la Terre Sainte à la Baltique,
Bayeux, 2019 ;
Chrissis Nikolaus G., Carr Mike, Contact and conflict in Frankish Greece and
the Aegean, 1204-1453. Crusade, Religion and Trade between Latins, Greeks and
Turks, Farnham, 2014 ;
Housely Norman, The later Crusades, 1274-1580 fron Lyon to Alcazar, Oxford,
1992 ;
Lalande Denis, Jean 2° Le Maingre dit Boucicaut (1366-1421), etude d’une
biographie heroique, Ginevra, 1988 ;
Paviot Jacques, Noblesse et croisades à la fin du Moyen Age. Cahiers de
recherche medievales et humanistiques n. 13, 2006.
1
JACQUES de CHABANNES, SIRE
de LA PALISSE:
“Un quarto d’ora prima di morire
era ancora vivo”
(Pubblicato sul n. 282, dicembre 2020, della Rivista Informatica “Storia in
Network” - www.storiain.net, con il titolo “JACQUES DE LA PALICE: PRIMA
DI MORIRE ERA ANCORA VIVO”, con lo pseudonimo di Max TRIMURTI)
Povero Jacques 2° de Chabannes, signore di La Palisse ! Un erudito burlone
del 1600 ha voluto mettere in evidenza solo la semplicità dei versi della
canzone, composta dai suoi soldati per rendere omaggio al suo coraggio.
e l’espressione “un quarto d’ora prima della sua morte, egli era ancora in
vita” viene ancora considerata, dopo circa 5 secoli, la regina del truismo
(1) o, per meglio dire, del “lapalissiano” non può essergli in alcun modo
attribuita. Meno ancora è da attribuire al personaggio quella che lo
seppellisce definitivamente fra i virtuosi del pleonasmo e della tautologia (2)
combinati. Di fatto, nulla evidenzia nella carriera di Jacques 2° de Chabannes
(1470-1525), Signore di Lapalice o La Palisse (nel Borbonese) e di altri luoghi,
un gusto particolare per l’ovvio o per lo … “sfondamento di porte spalancate”. Ben
al contrario !
La fine di un eroe delle guerre d’Italia
Il personaggio è un rude soldato, discendente da una dinastia di capitani di
mercenari e di scorticatori che, nel 15° secolo. vengono elevati alle più alte
S
2
cariche dello stato: Gran Panettiere e Gran Maestro, specialmente sotto Luigi
11° (1423-1483). Il nostro La Palice serve con ardimento tre re – Carlo 8°
(1470-1498), Luigi 12° (1462-1515) e Francesco 1° (1494-1547) - e si illustra
su tutti i campi di battaglia delle Fiandre, dell’Artois, d’Italia e dei Pirenei. Alla
battaglia di Marignano, egli è uno dei consiglieri di Francesco 1°, che, al termine
della battaglia, lo nomina Maresciallo di Francia e quindi partecipa nel 1520 al
famoso incontro del campo del Drappo d’Oro fra Francesco 1° e Enrico 8°
d’Inghilterra (1491-1547). Nel corso dell’assedio di Pavia, nel 1525, La Palice,
prima di morire, viene fatto prigioniero da un ufficiale spagnolo che non vuole
dividere il suo riscatto con il soldato italiano, che, in realtà, l’aveva catturato ed
in tal modo finisce uno degli eroi della guerra d’Italia, il cui motto era: “Io non
cedo a nessuno !”.
Tuttavia, sebbene non appartenente più a questo mondo, egli è costretto, dalla
storia, a cedere ad uno spirito pacifico, leggero e spontaneo, che lo assume per
bersaglio senza intenzione di nuocergli, ma solamente per farlo ridere. L’uomo in
questione si chiama Bernard de la Monnoye (1641-1728), membro
dell’Accademia di Francia ed infaticabile autore di epigrammi caustici. Si tratta
di un simpatico erudito di Digione, distinto latinista e giurista pentito, che
consacra la sua vita alla letteratura, alla poesia, alle traduzioni dal greche, latine,
spagnole o italiane ed alle ricerche filologiche e che è stato in corrispondenza
con numerosi eruditi europei. La sua traduzione dei canti di Natale della
Borgogna gli procurano un grande successo popolare. I suoi scritti sul duello,
sull’educazione del Delfino, sulle lettere e le arti sotto Luigi 14° (1638-1715),
come anche le sue erudite traduzioni di Dante Alighieri, di Orazio, di Virgilio
Marone o della Glosa di S. Teresa d’Avila – che vuole dedicare a Luisa
mademoiselle de la Valliere (1644-1710) entrata nell’ordine del Carmelo – gli
valgono, nel 1713, l’ingresso all’Accademia di Francia. Ma, allora, come si spiega
l’interesse per La Palice, nella carriera di un personaggio, che, di guerriero,
presenta solamente le molteplici tornate accademiche alle quali ha partecipato,
molto spesso con successo ? Il maresciallo di Francia entra nella sua vita e nei
suoi scritti attraverso una canzone, composta in sua memoria, dai suoi compagni
d’arme: “Ahimé, la Palice est morto./ E’ morto davanti Pavia; / Ahimé se non fosse
3
morto, / farebbe ancora invidia”. (“Helas, La Palice est mort. Est mort devant
Pavie; helas s’il n’estoit pas mort, /il ferait encore envie”).
Questa strofa, ispira alla vedova del maresciallo, Maria Anna de Melun, un
epitaffio, che farà scrivere su un suntuoso monumento funerario, del quale
rimane oggi solamente qualche elemento scolpito: “Ci git le seigneur de La Palice.
S’il n’etait mort, ferait encore envie” (Qui giace il signore de La Palice. Se non
fosse morto, farebbe ancora invidia).
Piccolo gioco di parole lessicale
Nel 18° secolo, questi versi circolano ancora. A quest’epoca la s si scrive come
una f, ma senza la sbarretta trasversale ed ecco così ottenuta, con l’aggiunta di
un gioco di parole, la trasformazione: S’il n’etait mort, il serait encore en vie” !
Bernard de la Monnoye non si trattiene più dalla gioia con questo giochetto
lessicale, primo colpo “alla La Palisse” nella storia. Decine di altri verranno dopo
di lui, partendo dalla sua canzone fiume, La Chanson de La Palisse (3) in 51 distici,
in onore di un prode cavaliere, che, con certezza, avrebbe fatto volentieri a meno
di questo genere di allori. L’Accademico di Francia meriterebbe, in ogni caso,
l’inferno per questi versi scherzosi che, da due secoli, ridicolizzano colui che gli
spagnoli chiamavano come il “Il grande maresciallo di Francia”. Un ridicolo che,
senza dispiacere al proverbio, l’ha ucciso una seconda volta e che prova, a
dispetto di tutti i fatti lapalissiani, che si può essere morti ed ancora “in vita”.
Ma c’è anche una giustizia, figlia della legge del contrappasso ! L’accademico ha
lasciato, a suo tempo, un opera erudita importante ed ammirata dai suoi
contemporanei, fra i quali Pierre Corneille (1606-1684) o François Marie
Arouet, detto Voltaire (1694-1778), ma egli non poteva pensare che la sua
canzonetta, senza pretese, sarebbe stata, invece, la sola cosa che sarebbe
rimasta ai posteri di lui e, per di più, perché riscoperta nel 19° secolo dal famoso
scrittore Edmond de Goncourt (1822-1896).
NOTE
4
(1) Adattamento ital. dell’ingl. truism (der. di true «vero»): verità ovvia,
evidente, indiscutibile, tale che è o sarebbe ridicolo enunciarla o superfluo
spiegarla;
(2) Il pleonasmo (dal greco πλεονασμóς: pleonasmós, "esagerazione") è la figura
retorica per cui si ha un'aggiunta di parole o elementi grammaticali esplicativi a
un'espressione, già compiuta dal punto di vista informativo e sintattico. Nel caso
in questione la ridondanza sta nel “sarebbe ancora in vita” che viene dopo
“morto”. Altri pleonasmi possono essere: “A me mi …” “scendi giù”, “A noi ci …”,
questo è il luogo dove ci vado …”, “ma però …”.
In linguistica, la tautologia è una figura retorica che consiste nell'aggiunta di
contenuto ridondante e dal significato ripetitivo all'interno di un dato discorso al
fine di porre maggiore enfasi. Spesso indica anche un'ovvietà: per esempio dire
se non fosse morto sarebbe vivo oppure dire che una tautologia è una tautologia è
senza dubbio tautologico;
(3) « Messieurs, vous plaît-il
d'ouïrl'air du fameux La Palisse,
Il pourra vous réjouir
pourvu qu'il vous divertisse.
La Palisse eut peu de biens
pour soutenir sa naissance,
Mais il ne manqua de rien
tant qu'il fut dans l'abondance.
Il voyageait volontiers,
courant par tout le royaume,
Quand il était à Poitiers,
il n'était pas à Vendôme!
« Signori, vi piaccia udire
l'aria del famoso La Palisse,
Potrebbe rallegrarvi
a patto che vi diverta.
La Palisse ebbe pochi beni
per mantenere il proprio rango,
Ma non gli mancò nulla
quando fu nell'abbondanza.
Viaggiava volentieri,
scorrazzava per tutto il reame
e quando era a Poitiers,
non era certo a Vendôme!
5
Il se plaisait en bateau
et, soit en paix soit en guerre,
Il allait toujours par eau
quand il n'allait pas par terre.
Il buvait tous les matins
du vin tiré de la tonne,
Pour manger chez les voisins
il s'y rendait en personne.
Il voulait aux bons repas
des mets exquis et forts tendres
Et faisait son mardi gras
toujours la veille des cendres.
Il brillait comme un soleil,
sa chevelure était blonde,
Il n'eût pas eu son pareil,
s'il eût été seul au monde.
Il eut des talents divers,
même on assure une chose:
Quand il écrivait en vers,
il n'écrivait pas en prose.
Il fut, à la vérité,
un danseur assez vulgaire,
Mais il n'eût pas mal chanté
s'il avait voulu se taire.
Si divertiva in battello
e, sia in pace sia in guerra,
andava sempre per acqua
se non viaggiava via terra.
Beveva ogni mattina
vino spillato dalla botte
E quando pranzava dai vicini
ci andava di persona.
Voleva per mangiar bene
vivande squisite e tenere
E celebrava sempre il Martedì
Grassola vigilia delle Ceneri.
Brillava come un sole,
coi suoi capelli biondi.
Non avrebbe avuto pari
se fosse stato solo al mondo.
Ebbe molti talenti,
ma si è certi di una cosa:
quando scriveva in versi,
non scriveva mai in prosa.
Fu, per la verità,
un ballerino scadente,
ma non avrebbe cantato male,
se fosse stato silente.
6
On raconte que jamais
il ne pouvait se résoudre
À charger ses pistolets
quand il n'avait pas de poudre.
Monsieur d'la Palisse est mort,
il est mort devant Pavie,
Un quart d'heure avant sa mort,
il était encore en vie.
Il fut par un triste sort
blessé d'une main cruelle,
On croit, puisqu'il en est mort,
que la plaie était mortelle.
Regretté de ses soldats,
il mourut digne d'envie,
Et le jour de son trépas
fut le dernier de sa vie.
Il mourut le vendredi,
le dernier jour de son âge,
S'il fut mort le samedi,
il eût vécu davantage. »
Si racconta che mai
sia riuscito a risolversi
a caricar le pistole
se non aveva le polveri.
Morto è il signor de la Palisse,
morto davanti a Pavia,
Un quarto d'ora prima di morire,
era in vita tuttavia.
Fu per una triste sorte
ferito da mano crudele,
Si crede, poiché ne è morto,
che la ferita fosse mortale.
Rimpianto dai suoi soldati,
morì degno d'invidia,
e il giorno del suo trapasso
fu l'ultimo della sua vita.
Morì di venerdì,
l'ultimo giorno della sua età,
Se fosse morto il sabato,
avrebbe vissuto più in là. »
(La Chanson de La Palisse, Bernard de la Monnoye)
GLI SVIZZERI,
temibili guerrieri al servizio della FRANCIA !
Pubblicato su Rivista Informatica "GRAFFITI on line" (www.graffitionline.com),
del mese di ottobre 2020, con il titolo “TUILERIES, 10 AGOSTO 1792, LA
TRAGICA FINE DEI SOLDATI SVIZZERI”
http://www.graffiti-on-line.com/home/opera.asp?srvCodiceOpera=1949
I miliziani elvetici, a partire dal 1453, hanno spesso combattuto a fianco
degli eserciti francesi. Più disciplinati, più determinati, questi mercenari
erano anche i meglio pagati.
Ogni sanculotto in buona fede lo potrà affermare: non è stata altro che una
carneficina. Gli Svizzeri, da perfetti soldati di mestiere o “mercenari”, abito
rosso con risvolti bianchi, rovesci e paramenti blù reale, galloni e bottoni
d’argento, pantaloni e ghette bianche, giacca blù reale, avevano obbedito agli
ordini del capitano Jost Dürler (1745-1802), loro comandante ad interim.
“Sospendete il fuoco” e più nessun proiettile era partito dal loro lato. Ebbene il
10 agosto 1792 a Parigi, in un palazzo delle Tuileries, sebbene abbandonato dalla
famiglia reale, i rivoltosi avevano dato sfogo alle loro voglie: 600 Svizzeri, fra i
quali 15 ufficiali, uccisi sul posto; feriti che verranno eliminati in occasione dei
massacri di settembre; ed un centinaio di fortunati evacuati dai Parigini,
indignati di tanta violenza gratuita.
Quel giorno stavano per terminare quattro secoli al servizio del re di Francia.
Una lunga storia iniziata dal febbraio 1453, quando Carlo 7° (1403-1461)
conclude a Montil-les-Tours il primo accordo fra il trono di Francia ed i cantoni
svizzeri, prosegue nel 1479, quando Luigi 11° (1423-83) firma una
“capitolazione” (altrimenti detta “convenzione” o “trattato”) con le città di Berna,
di Zurigo, Lucerna e Friburgo. Mediante l’esborso di 20 mila franchi-oro più 14
fiorini e mezzo stipendio mensile per combattente, le città firmatarie forniranno
al monarca francese 6 mila di questi “robusti uomini a piedi”, che si erano
illustrati tre anni prima nella battaglia di Morat (Murten) distruggendo l’esercito
del duca di Borgogna, Carlo il Temerario (1433-1477).
Raggruppati dal 1480 in Normandia nel campo di Pont de l’Arche, i fanti svizzeri
insegneranno ai Francesi la maniera di utilizzare la picca lunga e la balestra, cara
alla leggendaria figura di Guglielmo Tell. Essi insegnano anche l’arte di manovrare
in formazioni compatte e, soprattutto, la disciplina, che all’epoca era già uno degli
elementi di forza delle milizie elvetiche.
I risultati sono talmente probanti che il successore di Luigi 11°, Carlo 8° (1470-
1498), porta a 10 mila gli effettivi di questi soldati professionisti, che invia a
combattere in Italia, affidando loro la guardia della sua impressionante
artiglieria: circa 140 bocche da fuoco. Il 31 dicembre 1494 gli Svizzeri marciano
in testa dell’esercito reale che penetra in Roma. Due mesi più tardi cade a sua
volta la città di Napoli. Dal 1497, Carlo 8° crea la “compagnia dei 100 Svizzeri”,
combattenti scelti, ai quali affida la sua sicurezza personale, quella della sua
famiglia e quella del suo palazzo. Da allora, i 100 Svizzeri, le loro uniformi
colorate e le loro alabarde, fanno parte del paesaggio reale e formeranno il
nucleo della futura guardia svizzera della casa reale.
Nel frattempo nel 1505 il papa Giulio 2° della Rovere (1443-1513) richiede 200
uomini alla Dieta svizzera ed il 22 gennaio 1506 viene costituita la prima unità
ufficiale svizzera della Guardia del Papa, che vestirà i colori rosso blu e giallo,
che erano i colori araldici dei Medici.
Luigi 12° (1462-1515) prosegue la doppia tradizione: quella delle campagne
militari in Italia e quella delle unità mercenarie elvetiche che costituiscono
l’ossatura dell’esercito. Ma all’assedio di Novara, nel 1500, essi si trovano opposti
ad altri Svizzeri, questa volta al servizio di Ludovico Maria Sforza, detto il
Moro (1452-1508) duca di Milano. Ma non ci sarà spargimento di sangue fra
Svizzeri: le direttive dei cantoni di reclutamento si oppongono ai combatti
fratricidi e gli Svizzeri dei due campi si rifiutano di incrociare i ferri. L’episodio
avrebbe potuto servire di lezione, ma Luigi 12° trova il modo di entrare in
contrasto con i Cantoni, di modo che nel 1513 gli Svizzeri si ritroveranno tutti
uniti dietro l’erede del clan degli Sforza, Massimiliano (1493-1530). E questa
volta, nuovamente a Novara, l’esercito reale francese viene disfatto, a riprova
che la storia raramente si ripete allo stesso modo.
Francesco 1° di Francia (1494-1547), pur non essendo riuscito a riconciliarsi con
i Cantoni, lancia le sue truppe all’assalto della Lombardia e degli Sforza,
sostenuto da Papa Leone 10° Medici (1475-1521). l’imperatore tedesco,
Massimiliano 1° d’Asburgo (1459-1519) e Ferdinando 2° d’Aragona e Spagna
(Ferdinando di Trastamara) (1452-1516). Più di 30 mila Svizzeri, pronti ad
intervenire, si trovano ad attenderlo al passaggio delle Alpi. Ma il nuovo sovrano
prende degli itinerari trasversali e, attraverso un movimento aggirante,
effettuato in piena montagna in condizioni inimmaginabili, prende i suoi avversari
alle spalle, obbligandoli a modificare radicalmente i loro piani di battaglia.
Venerdi 13 settembre 1515 fra i canali e le strade di Marignano, tre corpi
elvetici di circa 9 mila uomini ciascuno, armati sia di picche, sia di lunghe spade a
due mani, si lanciano all’assalto dei Francesi al suono rauco dei corni dei Cantoni
di Uri e di Unterwald. La furia delle cariche di cavalleria francese ed il fuoco di
60 grossi cannoni si scontrano con la determinazione collettiva svizzera. Si
combatte fino alle 11 di sera. Il giorno dopo il combattimento riprende con un
vero bagno di sangue per gli Svizzeri, che perdono ben 12 mila uomini ma
guadagnano la stima di Francesco 1°. Fatto cavaliere da Baiardo sul campo di
battaglia, il vincitore magnanimo, impedisce che i feriti vengano eliminati e che si
inseguano i fuggiaschi.
Gli avversari di ieri voltano pagina. In effetti, il 29 novembre 1516, Francesco 1°,
che ha capito il valore militare degli Elvetici, firma un Accordo di “Amicizia
duratura e perpetua” fra il regno di Francia ed i Cantoni svizzeri, nella Pace di
Friburgo, nel quale gli Svizzeri si impegnano a non mettersi più al servizio di un
nemico della Francia. Seguirà a questo accordo, nel 1521, un Trattato di
“alleanza reciproca”, firmato a Parigi dal Re di Francia e dai rappresentanti dei
Cantoni, Peter Falk (1468-1519) e Sebastian de Diesbach (1481-1537, il
vincitore della battaglia della Bicocca), che durerà fino al 1792, quando sarà
superato dalle circostanze drammatiche evocate all’inizio del lavoro. Risultato: in
nove anni, un totale di 150 mila Svizzeri vengono ingaggiati, in cambio di monete
sonanti nell’esercito di Francesco 1°, per combattere in grande maggioranza in
Italia. Il 23 febbraio 1525, davanti a Pavia, essi sono circa 8 mila su un effettivo
di 33 mila soldati del re e devono fare fronte all’esercito degli imperiali, dai quali
riceveranno una cocente sconfitta.
Il 7 giugno 1549, Enrico 2° (1519-1559) ed Urs de Sury il Giovane (1528-1593)
rinnovano solennemente l’alleanza franco-svizzera a Parigi, come lo faranno
successivamente Enrico 3° (1551-1589) ed il colonnello Ludwig Pfyffer von
Altishofen (1524-1594) il 2 dicembre 1582. Ma le casse del regno sono vuote ed i
sovrani francesi, per pagare i loro fanti svizzeri, praticano una forma originale di
“cavalleria” finanziaria, chiedendo in prestito il denaro necessario alle … città
svizzere !.
La comparsa della religione riformata, divide tra l’altro i Cantoni, alcuni dei quali
abbracciano la nuova fede, mentre altri restano fedeli alla fede cattolica. Nella
Francia delle guerre di Religione e delle guerre civili, gli Svizzeri combattono nei
due campi. Nel settembre 1589, in occasione della battaglia di Arques, i due
reggimenti svizzeri di Gaspard Gallaty (morto nel 1619) aiutano Enrico 4° (1553-
1610) a mettere in scacco la Santa Lega. Il 14 marzo 1590, a Ivry, nei pressi di
Evreux, in Normandia, si trovano di nuovo di fronte gli Svizzeri dei due
contendenti. A battaglia vinta, Enrico 4°, mentre i lanzichenecchi tedeschi
vengono massacrati dai suoi uomini, concede la grazia agli Elvetici che hanno
combattuto per la Santa Lega, lasciando loro anche le armi ed alla condizione che
rientrino immediatamente a casa loro.
Nel 1602 Enrico 4° trasforma la tradizionale prestazione di giuramento dei
deputati cantonali a Parigi, in una cerimonia di grande spettacolo nella chiesa di
Notre Dame. Il suo esercito comprenderà quattro reggimenti svizzeri:
d’Arreger, Lanthen Heid, Grissach e Diesbach.
Nel 1616 il giovane Luigi 13° (1601-1643) procede ad una riorganizzazione. Egli
dispone la fusione dei quattro reggimenti in una sola unità, il Reggimento delle
Guardie Svizzere, che arriverà ad avere fino a 30 compagnie. Questo reggimento
va di pari passo con quello delle Guardie Francesi nell’ambito della stessa brigata
scelta, direttamente collegata alla Casa Reale.
Peraltro, affinché una alleanza possa durare, occorre che sia di reciproca
convenienza. Il cardinale “primo ministro” cardinale Richelieu (1585-1642) invia,
nel 1635, contro le rivendicazioni territoriali degli Spagnoli e degli Imperiali,
quattro reggimenti di fanteria e sette squadroni di cavalleria, comandati dal
Enrico 2° duca di Rohan-Gié (1579-1638), in soccorso al Cantone di Grigioni. Si
tratta della “marcia della Valtellina”, modello di schieramento tattico in
territorio di montagna. In segno di riconoscenza, gli Svizzeri ritrovano in massa il
cammino per la Francia, tanto che alla fine del regno essi costituiranno ben 10
reggimenti di fanteria.
Nel 1643, quando Anna d’Austria (1601-1666) diventa reggente, l’esercito
impiega 21 mila Svizzeri che si vedranno nello stesso anno in prima linea a Rocroi,
poi nel giugno 1658, nella Battaglia delle Dune, nei pressi di Dunquerque. Nel
1663, Luigi 14° (1638-1715), come l’aveva fatto Enrico 4° a suo tempo, da un
risalto spettacolare al giuramento di Notre Dame. E quando, nel 1671, il suo
ministro, François Michel Le Tellier marchese di Louvois (1641-1691), decide la
creazione di un esercito permanente (fino a quel momento, si reclutavano gli
effettivi in funzione delle campagne da effettuare), egli comincia con un
reggimento svizzero di 2400 uomini divisi in 12 compagnie, comandate dal
capitano Johann Jacob von Erlach (1628-1694). Bandiera: Croce bianca, fiamme
di colore rosso nero e bianco. Le casse dei tamburi portano invece le armi di
Berna.
Tre altri reggimenti svizzeri saranno reclutati nel 1672 (a questa data, l‘esercito
reale conta 45 mila fanti stranieri su 80 mila francesi). Poi vengono creati altri
quattro reggimenti fra il 1673 ed il 1690. A partire dal 1688, tutti porteranno
l’abito rosso, con il rovescio ed i paramenti di colore diverso, a seconda del
reggimento. Naturalmente i loro tiratori scelti sono diventati moschettieri,
scambiando la balestra di un tempo con delle armi da fuoco moderne.
Anche se sono protestanti, gli svizzeri vengono autorizzati a praticare la loro
religione senza problemi, anche dopo la revocazione dell’Editto di Nantes, che in
Francia, segna il ritorno alla repressione contro i riformati. Poiché essi sono
esentati dalle imposte, così come le loro mogli, molti di loro contrarranno dei bei
matrimoni legando il loro destino a quello di ricche giovani donne. Ma anche la
Corona calcola, in … senso inverso. Il vantaggio militare che presenta l’impiego dei
soldati di mestiere si accompagna anche ad un vantaggio economico. Come verrà
scritto da generale Charles De Gaulle (1890-1970) nel suo libro “La France et
son Armée”: “Un soldato straniero ne vale tre agli occhi del Re, rappresenta un
uomo in meno per il nemico ed uno di più nei nostri ranghi. Si tratta, infine di un
Francese in più, che si può lasciare alla cultura ed all’industria”. Va aggiunto che
uno straniero morto comporta un premio da versare ai suoi aventi diritto (e non
sempre !), ma niente di più ed inoltre, in caso di ecatombe, non c’è da temere la
collera popolare.
In questo contesto, gli Svizzeri di Luigi 15° (1710-1774) prenderanno parte
largamente alle guerre di successione di Polonia (1733-38) e d’Austria (1741-48).
Comandati da Maurice de Courten (1692-1766), essi si illustrano a Fontenoy (in
Belgio), l’11 maggio 1745 contro gli Inglesi, Austriaci e Olandesi. Ma il 2 luglio
1747 a Lawfeld, i reggimenti François Philippe de Diesbach-Steinbrugg (1682-
1764), Monnin e Georges Mannlich de Bettens (1669-1751), lasciano sul campo
1.800 uomini. Di fronte ai Prussiani di Federico 2°, a Rossbach, il 5 novembre
1757 saranno ancora i reggimenti Diesbach e Peter von Planta (1700-1768) che
salvano l’onore delle armi francesi, effettuando una ritirata in buon ordine, nel
momento in cui l’esercito del maresciallo di Francia, Carlo de Rohan Soubise
(1715-1787) si sbanda. Senza dimenticare il reggimento svizzero di fanteria
coloniale di Franz Adam Karrer (1666-1740) (poi comandato da Franz Joseph
von Hallwyl, 1719-1785), creato nel 1719, che farà parlare di sé in Luisiana e nel
Canadà.
Nel 1764, il ministro Etienne François de Choiseul (1719-1785) firma una nuova
“Capitolazione”. Gli effettivi vengono riportati a 11 reggimenti svizzeri su due
battaglioni ciascuno. Due di questi reggimenti, quelli di Johann Baptiste von
Eptingen (1714-1783) e di Wilhelm Bernard von Muralt (1737-1796) saranno
schierati nel 1768 in Corsica contro i partigiani di Pasquale Paoli (1725-1807).
Infine arriva il dramma del 1792 ed il massacro delle Tuileries.
Sebbene la rivoluzione abbia creato un esercito nazionale, essa non avrà alcuna
difficoltà a fare ricorso , inizialmente, a volontari stranieri ed a soldati di
mestiere, in seguito. Il 27 settembre 1803, il Consolato firma con i Cantoni
svizzeri una nuova “capitolazione” che gli fornisce 16 mila uomini. Quattro
reggimenti di svizzeri nasceranno pertanto anche sotto l’Impero. Il primo
reggimento viene creato con il decreto 15 marzo 1805, gli altri tre con il decreto
12 settembre 1806. Il maresciallo Jean Lannes (1769-1809) diventa allora
Colonnello generale degli Svizzeri. Il paradosso vuole che la monarchia, una volta
restaurata nell’aprile 1814, dopo l’abdicazione di Napoleone, disponga l’ordine di
dissoluzione di tali unità, colpevoli di aver servito agli ordini “dell’usurpatore”. Ma
il 15 maggio 1814, Carlo 10° di Borbone (1757-1836) che non è ancora il Conte
d’Artois, ridiviene nondimeno Colonnello generale degli Svizzeri e dei Grigioni,
titolo che portava prima della Rivoluzione e che porterà sino alla sua accessione
al trono. I colonnelli Nicolas de Gady de Vincy (1766-1840) e Emanuel Franza
Rudolph von Graffenried (1762-1838) si succederanno al suo fianco come
aiutanti di campo.
Un battaglione svizzero, ricostituito durante i Cento Giorni con il nome di 2°
Straniero, viene dissolto nell’estate 1815, al secondo ritorno al trono dei Borboni.
Nel 1824, Enrico 5° di Borbone, Conte di Bordeaux (1820-1883) prende il posto
di Carlo 10° come colonnello generale, con il conte Pierre François Marie de
Courten (1750-1839) come aiutante di campo. Riappaiono in tal modo una brigata
svizzera della guardia e dei reggimenti di linea svizzeri. Poiché la loro paga era
doppia, a volte tripla di quella dei soldati delle altre unità, gli Svizzeri di Carlo
10° non sono molto amati nell’esercito francese. Ed ancora meno dagli operai che
vedono in essi la guardia pretoriana del regime. Nel 1827, quindi nel 1828, hanno
luogo dei tafferugli in grande stile fra Elvetici e Parigini e nel novembre 1828 dei
soldati del 2° Granatieri francese vengono alle mani con gli Svizzeri. Se si
aggiunge a tutto questo il ricordo della tragica giornata del 10 agosto 1792,
niente di straordinario se gli Elvetici disertino in massa in occasione delle tre
giornate della rivoluzione del luglio 1830. Quanto ai loro ufficiali, essi otterranno
senza difficoltà dei salvacondotti del governo provvisorio, felice di potersi
sbarazzare senza difficoltà di un possibile avversario.
Eppure gli Svizzeri non hanno ancora finito di servire sotto la bandiera francese.
la Legione Straniera, creata da Luigi Filippo (1773-1850) il 10 marzo 1831, verrà
organizzata da un ufficiale di origine svizzera, veterano delle guerre del 1°
Impero, il barone Augustin Stoffel (1781-1854), per altri il fratello Christoff
Anton (1780-1842). Il suo 1° Battaglione riunisce tutti quelli che hanno prestato
servizio nelle unità svizzere dopo la Restaurazione. Alcuni dei loro compatrioti
saranno poi trasferiti nel 3° Battaglione, in cui dovranno coabitare con i
Tedeschi. Il ritornello della Legione testimonierà, poco dopo, questa forte
impronta elvetica: “Tieni, ecco del sanguinaccio, ecco del sanguinaccio, ecco del
sanguinaccio / per gli Alsaziani, gli Svizzeri ed i Lorenesi”.
Questi combattenti scelti, “Francesi per effetto del sangue versato”, porteranno
le armi sotto la monarchia di Luigi Filippo, il 2° Impero di Napoleone 3° (1808-
1873) e quattro repubbliche, la 2^, la 3^, la 4^ e la 5^ attuale.
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