facebook
^Torna sù

  • 1 www.iacopi.org
    IACOPI o JACOPI: una serie di antiche famiglie originarie della TOSCANA
  • 2 Iacopi - Jacopi
    Un cognome molto raro con (alle spalle) una storia importante !
  • 3 RICERCHE E STUDI
    Alla ricerca delle origini e della storia degli IACOPI. Sito interamente creato grazie alla ricerca e agli studi.
  • 4 AIUTI GRADITI
    Essendo ricerche storiche molto complesse è possibile vi sia qualche errore. Nel caso riscontriate delle imprecisioni vi prego di comunicarlo a maxtrimurti@gmail.com
  • 5 Benvenuto
    Buona navigazione.

IACOPI DISCENDENZE E STORIA

Una vita di ricerche per conoscere chi sono.

  

Equipaggiamento militare nel 12° e 13° secolo

EQUIPAGGIAMENTO MILITARE nel 12° e 13° SECOLO
(Pubblicato sul n. 1/2022 della RIVISTA MILITARE di CAVALLERIA, del mese di gennaio 2022)
Il XII ed il XIII secolo rappresentano un periodo chiave nella storia dell’Occidente. La cosa è vera anche per la foggia degli abiti e l’equipaggiamento militare. Due fenomeni, non legati, ne marcano l’inizio e la fine; la comparsa dell’araldica e quella delle armi da fuoco. Sia l’uno che l’altro avranno effetti sull’aspetto dei guerrieri del Medioevo, un aspetto che rimarrà ben vivo nell’immaginario collettivo.

Il cavaliere del XII e del XIII secolo
L’aspetto e l’equipaggiamento del cavaliere cambiano notevolmente fra i secoli 12° e 13° e si sostanziano in miglioramenti sotto l’aspetto protezione, in equipaggiamenti più ergonomici ed anche una volontà di mostrare la propria identità, che avrà conseguenze sulla decorazione dell’equipaggiamento dei combattenti.

Molteplici sistemi di protezione
Sotto le braghe, le calze e la camicia, il cavaliere porta due tipi di protezione: una protezione tessile ed una protezione metallica. Le protezioni tessili sono di norma integrali come una tuta a pantalone. Esse possono tuttavia essere del tipo a farsetto o a tunica aperta, imbottita per coprire le gambe, ma soprattutto il torso. Il termine francese che la individua si chiama “auqueton” che, a sua volta, deriva dall’arabo alqatun che significa cotone (una certa assonanza con il termine moderno di cotone in portoghese é algodao), che ci indica immediatamente la sua composizione. La tunica si compone di due strati di lino o di seta (spesso utilizzati entrambi) fra i quali viene posta una imbottitura di cotone. Le due parti vengono cucite insieme, formando dei “salsicciotti” nel senso della longitudine. L’imbottitura non viene realizzata solamente con il cotone ed al suo posto, o in combinazione, possono essere utilizzati il crine o diversi spessori di tessuti. La funzione dell’imbottitura è quella di assorbire l’energia cinetica dei colpi. L’equipaggiamento può essere completato da protezioni per le gambe (cale gamboisé: gambiera o gambale) (1) e guanto dello stesso tipo.
Le protezioni di metallo sono inizialmente essenzialmente di maglia, la parte principale è la cotta, che copre il torso, il braccio e che discende fino al ginocchio. La cotta è munita di guantoni e spesso di un cappuccio, sempre di maglia. Il cappuccio, che copre buona parte del viso e del capo può essere indipendente. In questo caso, si parla di camaglio (2). Due calze di maglia coprono le gambe; esse risultano allacciate sulla parte posteriore fino al 1230-1235, successivamente diventano integrali e completano l’equipaggiamento. Ed è proprio sulle calze che verranno aggiunte le protezioni per le cosce sopra evocate, contrariamente a quanto pensato, l’insieme viene a pesare meno di 20 chili.
Alcune opere d’arte, in particole alcune sculture, lasciano intravvedere sotto la cotta d’armi, quella che sembra essere una protezione del torso. Se ne individuano i bordi al livello delle spalle. La natura di questa protezione non risulta esattamente nota, l’ipotesi più verosimile è che possa trattarsi di una protezione in cuoio.
A partire dalla metà del secolo, si assiste alla comparsa progressiva di nuovi oggetti. Le protezioni di maglia cominciano ad essere completate con i primi elementi di lamina. Inizialmente, le ginocchiere, che possono risultare cucite sulle calze o fissate sulla maglia per mezzo di cinghie, quindi le gomitiere. Gli schinieri vengono poi nuovamente applicati sul davanti della parte inferiore della gamba. Verso la fine del secolo, compariranno sulle spalle, ali decorate da motivi araldici, piccoli rettangoli di cuoio bollito o di metallo, che hanno lo scopo di deviare i colpi portati dall’alto. Le prime cotte di metallo appaiono circa alla stessa epoca e verso la fine del secolo fanno la loro comparsa le prime armi a polvere da sparo, che nel secolo seguente conosceranno uno sviluppo di tipo esponenziale. A questo punto, risulta necessario ripensare e rivedere tutto l’equipaggiamento di protezione dei cavalieri, al fine di migliorarlo sempre di più e di renderlo capace di far fronte alle nuove armi; oltre naturalmente alle altre già conosciute, come gli archi lunghi (longbow) o le balestre, le cui frecce e quadrelli (verrette) possono produrre seri danni alla cotta. Alcuni tipi di punte vengono progettate per trapassare le maglie e ferire o uccidere il cavaliere da lontano. Esperienze di archeologia sperimentale hanno dimostrato l’importanza delle placche metalliche contro le frecce.

Le armi
L’arma di predilezione del cavaliere é la lancia, che si dimostra uno strumento molto utile nell’approccio al combattimento; le lance, sono, nell’immaginario collettivo, l’armamento efficace nel colpire a distanza. Poi, nel combattimento ravvicinato, il cavaliere utilizza la spada, l’arma più simbolica, che viene posta sul suo fianco nel momento dell’addobbamento (o dell’investitura). Essa costituisce anche l’immagine del suo rango, allo stesso titolo degli speroni, che il cavaliere riceve all’atto della cerimonia di iniziazione. La spada fa anche parte dei simboli regali del potere sovrano. Per ricordare l’importanza di questa arma, che rappresenta il potere militare e secolare dei sovrani, si assiste al fatto che, durante i cortei o quando il sovrano siede sul trono, le spade reali vengono portate ed esibite da cavalieri o scudieri. Di norma, non si ha l’abitudine di portare la spada quando si è seduti, ma qualunque sia il rango del cavaliere, essa rimane visibile nelle circostanze ufficiali.
Infine, per i combattimenti a corpo a corpo, il cavaliere può utilizzare la daga, che può penetrare nelle feritoie dell’elmo. La lama non rappresenta l’unico pericolo della daga; certune forme di pugnale evidenziano che, in casi estremi (ma non è detto che sia un atto cavalleresco), possono trasformarsi in armi da pugno, che potrebbero causare notevoli danni se il cavaliere avversario perde il suo elmo. Se spade e lance risultano, nell’immaginario collettivo, facilmente assimilabili al cavaliere, la daga sembra molto spesso dimenticata, sebbene sia stata uno strumento sovente utilizzato in determinate situazioni. Si tratta, in ogni caso di un complesso di strumenti che consentono a chi li porta, il combattimento a distanza, quello ravvicinato ed infine quello corpo a corpo.

Le novità da un secolo all’altro
Come sopra evocato, nel corso del 1200 avvengono cambiamenti significativi nel combattimento, che apportano modificazioni al costume ed all’equipaggiamento militare.
In primo luogo, per quanto riguarda l’uso degli elmi, i milites del 1200 iniziano ad utilizzare strumenti totalmente chiusi, che tendono progressivamente a generalizzarsi, rimpiazzando gli elmi conici con la protezione "a nasale", noti come elmi normanni (ed un modello più recente che proteggeva il cranio ed il volto). Si afferma un tipo di elmo che si incontra particolarmente nel periodo 1180-1220, di tipo cilindrico, con due fessure orizzontali per la vista e dei forellini per la respirazione, sormontato da cimieri e decorazioni sempre più complesse, che copre integralmente la testa e poggia direttamente sulle spalle, mentre i guerrieri di basso ceto ricorrono alla cervelliera (3), in pratica un semplice coppo semisferico di ferro da calzare direttamente sulla testa. Una via di mezzo tra i due tipi era il cappello d'arme (4) in pratica una cervelliera con vista (bordo) circolare che correva lungo tutto il bordo del coppo. Questo tipo di elmo si arricchirà di una protezione per la nuca e, verso il 1240, compare, infine, il grande elmo chiuso, che copre integralmente la testa, con l’inconveniente, però, di una perdita di visibilità.
A partire dal 1300 l'ingombrante grande elmo viene sostituito da manufatti di nuova concezione che, come nell'antico elmo romano imperiale, constano di un coppo, al quale vengono agganciate componenti aggiuntive (Questo è il caso del bacinetto (5), il tipo di elmo più in uso durante la Guerra dei Cento Anni) o, come nell'antico elmo corinzio, presentano un coppo con paragnatidi (para-guance) e gronda integrate, che seguono la linea del cranio come la barbuta (6). Nel corso del 1400, la produzione degli armorari europei raggiunge il culmine. In Italia (spec. Ducato di Milano) viene inventata la celata (7), un elmo completo di scarso ingombro che permette al portatore di ruotare liberamente la testa ed in Germania la bigoncia (8), che soppianteranno l’elmo a bacinetto. La bigoncia, pero, elmo tipico della cavalleria, era privo di accorgimenti difensivi propri per la mandibola e per la gola e necessitava l’accoppiamento con una mentoniera o una barbozza (9).

La cotta molto lunga, che si poteva vedere nel secolo precedente, scompare nel 1300 a vantaggio di un tipo che arriva al massimo al ginocchio. Anche gli speroni si modificano nel corso del secolo e, da semplici punte per spronare il cavallo, si trasformeranno in piccole ruote.
Parallelamente, diminuisce la dimensione dello scudo, diventando più maneggevole e quindi meno fastidioso o ingombrante, specie durante il combattimento a cavallo. Lo scudo si trasforma anche in una superficie dove mostrare vari motivi, fra i quali il blasone, riportato in rilievo o, più semplicemente, dipinto.
La cotta del 12° secolo poteva essere eventualmente indossata sotto la cotta d’arme. In effetti, questa abitudine tende a scomparire e diviene normale l’uso della cotta d’arme sopra la cotta di maglia. Questa protezione tessile supplementare non è poi così superflua come potrebbe sembrare. Essa contribuisce a definire l’identità del cavaliere che la porta, mostrando i suoi colori ed il suo blasone. La cotta d’arme si trasforma in oggetto lussuoso, arrivando persino ad essere ricamata d’oro. Questa innovazione è legata allo sviluppo dell’araldica. Anche la montura approfitterà di questa nuova moda. Di fatto, anche le gualdrappe dei cavalli finiscono per portare gli stemmi dei cavalieri. Risulta difficile stabilire una data precisa riguardo la comparsa di queste pratiche, sia per il cavallo, come per il cavaliere. Possiamo notare una gualdrappa di fiordalisi sul cavallo di Carlo Magno, in un affresco dell’abbazia delle Tre Fontane nei pressi di Roma, risalente al 1200 circa, anche se questa rappresentazione costituisce, piuttosto, un altro mezzo propagandistico di associare la monarchia francese a quella tedesca di Carlo Magno. In ogni caso, questa rappresentazione costituirebbe la più antica gualdrappa araldica conosciuta, tenuto conto anche che i blasoni appaiono sulla scene del Medioevo, intorno al primo quarto del 1200. Si può comunque affermare che da questo periodo i cavalieri iniziano a curare la loro immagine, alla quale contribuiscono cimieri dalle forme più varie, peraltro già conosciuti su monete, sigilli e pitture dei secoli precedenti.

L’equipaggiamento del pedone o del fante
Nell’immaginario collettivo, il guerriero del Medioevo evoca in primo luogo il cavaliere. Ma non si può certamente dimenticare il soldato a piedi (pedites) che costituisce, in ogni caso, la base della forza militare di un esercito. Questi possono essere soldati di mestiere, spesso mercenari, o fare parte di milizie urbane, oppure occasionalmente, di contingenti di gente dei villaggi, oppure semplici cittadini con il compito di difendere le loro case ed i loro scarsi beni. Se il cavaliere può disporre di un equipaggiamento sofisticato, non si registra la stessa cosa con i pedoni, il cui armamento ed equipaggiamento di protezione dipendono, nella maggioranza dei casi, dai suoi ridotti mezzi. In tale contesto, appare erroneo immaginare i soldati a piedi del Medioevo come un complesso omogeneo ed uniforme, armati tutti con lo stesso materiale.

Le protezioni tessili
Anche per il fante a piedi si ritrovano il gambale o la cotta dei cavalieri. Risulta comunque difficile affermare che ogni pedone possedesse questa protezione, ma essa poteva essere realizzata in maniere diverse, molte delle quali molto economiche, come uno strato di lana fra due strati di lino, con gli strati trapuntati, come rinforzo del tutto. La tunica poteva essere a maniche corte ed anche a collo, per offrire una protezione al collo stesso. Come per i cavalieri, anche il pedone poteva indossare la cuffia di protezione in tessuto. A questa potevano essere aggiunti dei proteggi collo amovibili, collettini, anch’essi trapuntati e protettivi.

Le protezioni metalliche
A quest’epoca, la tunica non è più uno strumento riservato ai soli cavalieri. Alcuni pedoni di una certa disponibilità economica potevano beneficiare di questa protezione supplementare. Diversi tipi di elmi risultano visibili sulle fonti iconografiche. L’antico elmo a protezione nasale, composto da una o più parti, continua ad essere utilizzato, accanto ad un modello molto più semplice, la cervelliera, che si adatta alla forma del cranio. Tuttavia, nello stesso periodo, appaiono delle forme di protezione molto varie che la sostituiscono con maggiore efficacia. Alcuni presentano dei bordi che consentono di deviare i colpi sulla testa o al viso.

Lo scudo
Tenuto grazie a cinghie di presa in pelle, lo scudo del pedone risulta anch’esso più piccolo di quelli dell’XI e XII secolo e protegge dalla spalla al ginocchio. L’umbone, pezzo metallico che poteva essere individuato nei secoli precedenti al centro dello scudo, scompare agli inizi del XIII secolo. Se lo scudo risulta dipinto, esso non rappresenta blasoni, che costituivano una prerogativa della classe aristocratica e poteva succedere che molti soldati a piedi ne fossero sprovvisti.

L’armamento
Due tipi di armamento risultano piuttosto mal considerati: gli archi e soprattutto la balestra, giudicata allora indegna di un combattimento fra cristiani. Ciò nonostante, tutto questo non ne impedisce la loro utilizzazione, specie nella difesa delle città. Altre armi, qualificate “meno nobili”, vengono comunque utilizzate dal pedone: pali appuntiti, spiedi, impiegati per la caccia, forche, falci, asce, … . In effetti, in questo campo, vengono temporaneamente impiegati, spesso con notevole efficacia, strumenti della vita quotidiana, come surrogati di un armamento militare.
Questo tipo di uso non deve farci dimenticare alcune armi tradizionali, tipiche del fante a piedi: lance, spade, mazze, coltellacci, che costituivano il normale armamentario del pedone, quando se lo poteva permettere.
In questo contesto, vanno anche ricordate le armi collettive, spesso molto ingombranti, come i mangani nevrobalistici o a contrappeso e tutto quello che ha a che fare con un assedio.

Cavalieri non cavalieri
Considerare che i combattenti a cavallo siano tutti “cavalieri” o nobili e che i non nobili sono necessariamente i pedoni, costituisce un grave errore. Esistevano all’epoca dei semplici cavalieri, come i sergenti montati. Il loro equipaggiamento, anche se efficace, non risulta così ricco come quello dei cavalieri. Il termine sergente tende a scomparire nella seconda metà del XIII secolo e verrà rimpiazzato dal termine di scudiero. Anche questa situazione sottende, peraltro, una realtà di tipo economico: l’investitura del cavaliere costituiva una cerimonia dal costo spesso proibitivo e numerosi cavalieri rimarranno solo dei semplici scudieri, in attesa che una impresa in combattimento non contribuisca ad una loro investitura “sul campo”.

L’altro guerriero
Alcune rappresentazioni di guerrieri possono indurci in errore per quanto concerne l’equipaggiamento militare. L’iconografia militare usa alcuni dettagli specifici per indicare la diversità, per insistere sulle differenti origini dei personaggi. In tal modo, nelle scene che illustrano le Crociate, i Saraceni vengono riconosciuti, ad esempio, per un turbante intorno all’elmo. Si potrà anche evidenziare la stessa diversità per mezzo di caratteristiche fisiche, come la pelle scura, i capelli crespi, quando un guerriero non indossa più l’elmo. Questi segni possono essere utilizzati, sia sui civili, come sui militari. Per contro, alcuni elementi di equipaggiamento, sembrano essere stati utilizzati solo per indicare diversità fra guerrieri, in senso peggiorativo. E’ il caso, ad esempio, del Goliath nella cattedrale di Reims. Il gigante filisteo, più lontano da noi rispetto al giovane David, viene caratterizzato con uno scudo rotondo ed una corazza di lamelle. Questi oggetti non fanno parte dell’armamento convenzionale occidentale e questo esotismo consente di introdurre una distanza fra lo spettatore medievale cristiano e la figura biblica. Lo scudo rotondo e l’armatura a scaglie metalliche costituiscono, in tutte le arti nelle diverse regioni d’Europa occidentale, un modo simbolico per segnalare la differenza.
Le “fiamme” o frange della tunica, la cui parte inferiore presenta lunghe bande di tessuto, costituiscono degli oggetti problematici dal punto di vista della funzione. Essi potrebbero essere, a loro volta, degli indicatori negativi derivati dalla rappresentazione dei menestrelli. Se le immagini sono spesso di difficile interpretazione, le fonti scritte, invece, indicano che queste decorazioni erano reali sugli abiti civili della nobiltà, con grande disperazione dei religiosi, che non sopportavano tali fantasie. Risulta, a questo punto, alquanto difficile sapere se certi ornamenti tessili siano realmente esistiti oppure no, anche sui costumi militari.
Gli indicatori di diversità sono numerosi nell’arte medievale e per questo motivo non appare strano il fatto di incontrarne anche nell’armamento. In tal modo, si era sempre in condizioni di riconoscere chi stava dalla nostra parte o dall’altra e, molto spesso, chi era il “cattivo” della storia. Se tutto questo risultava evidente per la gente del Medioevo, non sempre costituisce la stessa cosa per quelli di oggi ed è per questo che nell’esaminare le fonti iconografiche occorre bene tenere in evidenza questi aspetti per non incorrere in errori di interpretazione.

NOTE
(1) Copertura della gamba del guerriero antico che, a differenza dello schiniere, abbracciava tutta la gamba. Più genericamente gambale o protezione di cuoio o d’altro materiale, che fascia la gamba come anche nelle armature integrali; da non confondersi con lo schiniere, che proteggeva parte della gamba, dal malleolo al ginocchio (anticamente copriva anche quest'ultimo) e che serviva per proteggere la parte che rimaneva al di fuori dello scudo;
(2) Camaglio, dal termine camail, di origine provenzale, che indicava la parte della protezione del combattente, formata da anelli di ferro ed usata per la difesa del collo e delle spalle;
(3) La cervelliera (dal latino cervellerium, cerebrarium, cerebrerium o cerebotarium) era una basilare tipologia di elmo sviluppato nel Medioevo. Si componeva di un unico pezzo di metallo, modellato a tazza, per coprire la sommità del cranio e poteva essere indossato sotto o sopra il camaglio, come per altre tipologie di elmo più pesanti.
Arma di bassissimo costo, la cervelliera restò in uso presso le classi sociali povere europee per tutto il Rinascimento;
(4) Cappello d’Arme, detto anche "Cappello di ferro", è il nome con cui si indica una particolare tipologia di elmo in ferro in uso in Europa intorno all'Anno Mille. Era molto diffuso tra le forze di fanteria ma, affiancato ad una barbozza, poteva anche essere preso in dotazione dalle forze di cavalleria pesante;
(5) Bacinetto una tipologia di elmo di origini italiane in uso nell'Europa medievale (1300). Si distingue per la forma appuntita, leggermente inclinata all'indietro, del coppo. Complice la massiccia diffusione, il manufatto venne arricchito da parti aggiuntive per la protezione del viso: nasali prima e, poi, visiere corazzate visiere corazzate (che coprivano il viso, alzandosi ed abbassandosi tramite uno o più perni d'aggancio che la assicuravano al coppo). Differentemente dalla cervelliera, suo archetipo, il bacinetto era dotato di un camaglio agganciato al coppo e non da calzarsi sotto all'elmo. Al principio del XV secolo, lo si rinforzò, sostituendo il camaglio con una gorgiera a piastre metalliche (collare di acciaio o cuoio progettato per proteggere la gola). Venne soppiantato nel Quattrocento dalla celata (vedi sotto) e dalla bigoncia (vedi sotto);
(6) La barbuta è un tipo di elmo in uso alle milizie urbane dell'Italia tra il 1300 ed il 1500. Protegge interamente il cranio con un unico blocco di metallo, senza componenti aggiuntive (visiera, ventaglia, para-guancia, ecc.). La linea generale richiama l'antico elmo della Grecia Antica (vds. elmo corinzio) e viene messa in relazione alla contemporanea riscoperta dell'Antichità (v. Umanesimo).
Passò poi in uso abbastanza generalizzato presso le compagnie di ventura.
(7) Celata, tipologia di elmo sviluppato in Europa nel XV secolo e massicciamente utilizzato in Italia (probabile luogo d'origine del manufatto), Francia, Gran Bretagna, Spagna e Paesi Bassi. Permetteva di coprire integralmente la testa del portatore;
(8) Bigoncia in lingua italiana designa solitamente una tipologia di secchio in legno usato in viticoltura (il Bigoncio), è il nome con cui si suole indicare la particolare tipologia di elmo in uso alla cavalleria pesante d'ambito germanico e borgognone nel Tardo Medioevo. Era un casco coprente il cranio, la nuca e la maschera facciale del portatore, a sezione lobata. Privo di accorgimenti difensivi propri per la mandibola e per la gola, necessitava di una mentoniera o di una barbozza (vedi sotto);
(9) Barbozza (Bart in lingua tedesca; barbote, anche guardapapo, in lingua spagnola; bevor in lingua inglese), anche barbozzo e barbotto, è una componente dell'armatura a piastre del tipo "gotico" preposta alla difesa del viso e del collo. Rispetto alla mentoniera, parte dell'elmo completo, si caratterizza per l'essere una piastra di acciaio, sagomata, da agganciare direttamente alla parte superiore della corazza.

Danimarca e le sue guerre

DANIMARCA,
storia di un paese attraverso le sue guerre

Pubblicato sul n. 294, febbraio 2022, della Rivista Informatica “Storia in Network” ( HYPERLINK "http://www.storiain.net" www.storiain.net)

La Danimarca, elemento dominante della regione nord dell’Europa per molti secoli, si vede costretta a continue lotte per mantenere la sua posizione egemonica. 150 anni fa, la Danimarca, logorata da uno stato di continua belligeranza, viene vinta dalla Prussia e dall’Austria, in seguito delle “Guerre dei Ducati”.

O
rientata versi i grandi spazi del mare, la Danimarca è stata, a suo tempo, come la Norvegia, la terra dei Vichinghi. Regno preponderante nell’Europa medievale del Nord, esso viene progressivamente soppiantato dalla Svezia nel XVII secolo, pur rimanendo comunque, sino al 1814, una rispettabile potenza, che ha operato su vasti orizzonti ed in condizioni di difendere vigorosamente i suoi interessi. In tal modo, nel corso del XIX secolo, la Danimarca non esita ad affrontare grandi potenze o temibili coalizioni. Sempre vinto, ma sempre combattente, il paese ha conservato fino ai nostri giorni una forte coscienza del suo buon diritto, del suo onore e della sua identità.
Il controllo degli “Stretti danesi” ed in primo luogo dell’Øre Sund, è apparso per molti secoli come un posta di primaria importanza. Per lungo tempo il regno di Danimarca, tenuto in scacco dalla Lega Anseatica, è riuscito alla fine ad imporvi un pedaggio nel XV secolo. La sua posizione geografica e la volontà dei suoi sovrani spiegano il ruolo preminente che ha esercitato a lungo. La sua ambiziosa dinastia è riuscita anche a realizzare una unione nordica, piazzando sotto la sua autorità la Norvegia nel 1389 e la Svezia nel 1397 e sarà nel 1445 che trasferirà la sua capitale da Roskilde a Copenhagen, un porto sul Sund.
Nell’epoca moderna, la rivalità con la Svezia, ritornata indipendente nel 1521, è stata all’origine di diverse guerre ed, a tal fine, viene istituito un esercito permanente nel corso del 1614, La flotta da guerra, la cui origine risulta molto più antica, conterà fino a 60 bastimenti di linea. Gli equipaggi venivano reclutati in Danimarca ed in Norvegia, ma anche nei feudi tedeschi del re, i ducati di Schleswig e di Holstein, come anche nelle colonie, Islanda, Groenlandia, Isole Far Oer e Spitzberg. Ma questi conflitti contribuiranno ad indebolire le finanze del regno, anche e soprattutto a causa dell’intervento, senza successo, negli affari tedeschi per sostenervi la causa protestante.

Una nuova guerra civile con la Svezia, sostenuta dalle Province Unite avrà luogo nel 1643-1645. Nel corso di questo scontro il re Cristiano IV (1577-1648), a 64 anni, assume il comando della flotta per respingere la squadra nemica. Il sovrano, gravemente ferito al volto, tiene duro e non cede, galvanizzando tutte le energie e riuscendo a mettere in fuga l’avversario. Il suo successore, Federico III (1609-1670), sarà meno fortunato: la guerra del 1657-1660 sarà un vero disastro e la Danimarca perderà la Scania, la riva orientale del Sund, come anche la grande isola di Gotland, nel mar Baltico. La supremazia nel nord passa, a quel punto, nelle mani della Svezia. La Danimarca, desiderosa di rivincita si allea naturalmente a Pietro il Grande di Russia (1672-1725) contro Carlo XII di Svezia (1682-1718), ma, nonostante la vittoria, il regno danese, guidato da Federico IV (1671-1730), uscirà esangue dalla Grande Guerra del Nord (1700-1721) e nel corso del 18° secolo il paese si terrà fuori dai conflitti europei.
Questa saggia politica consente allo stato dano-norvegese di andare incontro ad un periodo florido, che, con il favore delle guerre franco-britanniche, vedrà il suo commercio svilupparsi su tutti i mari. Verranno aperti degli empori commerciali nelle Indie, in Africa e nelle Antille e, nel 1792, la bandiera danese rappresenta la 4^ marina mercantile del mondo. La flotta da guerra, anch’essa rispettabile, condurrà operazioni contro i pirati, bombarderà Algeri nel 1700 e Tripoli nel 1797.
Ma la Gran Bretagna esercita ormai in maniera sempre più stretta ed imperiosa il controllo dei mari. Essa vuole impedire a tutti i costi alla Francia di rifornirsi di materiale per costruzioni navali (legno, ferro, rame, canapa e asfalto) nel Nord dell’Europa. Nel 1799, una fregata danese, di scorta ad un convoglio mercantile, viene costretta ad aprire il fuoco su un bastimento della Royal Navy. Col passare del tempo questo tipo di incidenti tendono a moltiplicarsi e la Danimarca inizia a concertarsi con la Russia e la Svezia. I paesi neutrali intendevano far rispettare all’Inghilterra i principi del diritto internazionale: la bandiera “copre” le mercanzie. Ma Londra reagisce con una operazione di guerra preventiva ed il 2 aprile 1801, l’ammiraglio inglese Horatio Nelson (1758-1805) distrugge una parte della flotta danese all’ancora nella rada di Copenhagen.
Nel corso delle guerre napoleoniche, la flotta danese costituirà una posta in palio considerevole e la Danimarca verrà costretta a schierarsi per una o per l’altra parte belligerante. Ormai la lotta si era trasformata in una guerra totale e non c’era più posto per paesi neutrali. Nel 1807, un ultimatum britannico alla Danimarca esige la consegna della flotta. Di fronte al rifiuto danese, i Britannici reagiscono brutalmente per mezzo di una operazione anfibia ed un bombardamento della capitale Copenhagen, nel corso del quale vengono incendiate un migliaio di abitazioni e catturati 70 bastimenti, fra i quali 18 vascelli di linea. La Danimarca, di fronte a questa umiliazione, si allea a Napoleone Bonaparte (1769-1821) e truppe danesi verranno integrate nel corpo del maresciallo Louis Nicolas Davout (1770-1823), che esprimerà nei loro riguardi giudizi molto positivi. Dopo la sconfitta di Lipsia, le truppe danesi si ritirano nell’Holstein, inseguite dai Russi e dai Prussiani, mentre gli Svedesi, invece, si erano accodati alla coalizione anti Francese. Dopo una onorevole resistenza, il re Federico VI (1768-1839), ultimo alleato della Francia, firma il 14 gennaio 1814, la Pace di Kiel. Con questo trattato la Danimarca rinuncia ai suoi diritti sulla Norvegia a vantaggio del re di Svezia. L’Inghilterra si insedia nella base di Helgoland nel mare del Nord e, infine, la Danimarca viene costretta ad aderire alla coalizione alleata contro Napoleone. In tale contesto, una brigata danese verrà inviata in Francia dopo la battaglia di Waterloo, dove parteciperà all’occupazione dell’area del Passo di Calais.
I ducati dello Schleswig e dell’Holstein, sono dei vecchi territori danesi, teatri di numerose battaglie. Nel corso della Guerra dei Tre Anni (1848-1851), l’esercito danese vi affronta un’insurrezione, spalleggiata dall’esercito della Confederazione Germanica. Sebbene la Danimarca riesca a vincere con grande difficoltà, la questione non risulta definitivamente risolta. Nel 1864, approfittando della successione, aperta dalla morte del re Federico VII (1808-1863), la Prussia di Bismarck, sostenuta dall’Austria, tenta la sua rivincita. Prussiani ed Austriaci, utilizzando la nuova rete ferroviaria, per incrementare la mobilità delle loro truppe, invadono la Danimarca ed il 18 aprile dello stesso anno, dopo una preparazione di artiglieria, che vede i cannoni Krupp entrare nella storia, ben 61 mila coalizzati prendono d’assalto le trincee danesi di Dybbol. Il mulino di questa località, preso e ripreso diverse volte, è il testimone di questi feroci combattimenti. Esso domina ancora oggi una vasta pianura, qui altrettanto celebre come quella di Waterloo. I Danesi vi lasceranno sul terreno ben 5.600 uomini. Nonostante la vittoria navale di Helgoland, il re danese sarà costretto a chiedere la pace ed a cedere i famosi ducati, che possedeva a titolo personale, vale a dire 1 milione di abitanti, dei quali almeno 200 mila erano strettamente legati alla Danimarca. Il dinamismo del suo commercio estero ha avuto, come effetto, che la Danimarca è risultata, da sempre, largamente dipendente dalle fluttuazioni degli scambi internazionali.

Durante la 1^ Guerra Mondiale, la Danimarca riuscirà a conservare la propria neutralità, anche se, a volte, sarà costretta ad adattarsi ai desideri di Berlino. Fra blocco marittimo britannico e guerra sottomarina tedesca, il paese perderà 324 navi mercantili e 722 marinai. Peraltro, 30 mila Danesi dello Schleswig saranno costretti a combattere sotto l’uniforme tedesca e di questi 3.900 perderanno la vita. Dopo il 1924 le spoglie di un certo numero di essi sono stati riuniti nel cimitero di Braine, nei pressi di Soissons in Francia. Ci sono stati anche 85 volontari danesi nella Legione Straniera, dei quali una trentina morti per la Francia, hanno il loro monumento di ricordo a Rueil Malmaison.
Il Trattato di Versailles, destinato ad indebolire la Germania, aveva previsto l’organizzazione di un plebiscito nello Schleswig, che si terrà nel 1920 sotto l’egida di una Commissione alleata presieduta da un francese Paul Claudel (1868-1955). Lo Schleswig del Nord vota in maggioranza per la Danimarca e rientra a far parte del regno danese. Lo Schleswig del Sud, invece, vota massicciamente a favore della Germania e rimane, insieme all’Holstein, nell’ambito del Reich.
Come è noto, il 9 aprile 1940 la Danimarca viene stata occupata dalla Wehrmacht e tale invasione è stata preceduta da un ultimatum che ingiungeva ai 3,7 milioni di Danesi di non resistere. Contrariamente a quanto è stato scritto, il regno non si è arreso senza sparare un colpo di fucile ed unità del piccolo esercito danese hanno combattuto in diverse località della Nazione, con 26 soldati morti sul loro posto di combattimento, per l’onore nazionale e senza alcuna speranza di essere soccorsi. Dopo l’impegno della Germania a rispettare l’indipendenza politica del paese, il re Cristiano X (1870-1947) ed il governo si inclinano ai voleri del Reich. La Danimarca, in cambio della sua collaborazione, continua a godere e un certo grado di autonomia, ottenendo l’organizzazione di elezioni democratiche e la possibilità di giudicare i suoi resistenti davanti ai suoi tribunali, mentre l’esercito viene ridotto a soli 33 mila uomini.

In ogni caso, la Germania riuscirà a trovare in Danimarca volontari per lottare contro il bolscevismo. E’ pur vero che, dal 1919, ben 213 Danesi erano partiti per combattere l’Armata Rossa in occasione dell’indipendenza dell’Estonia ed, allo stesso modo nel 1939-1940, altri 1.200 Danesi si sono arruolati volontari per combattere contro l’URSS nelle unità della Finlandia, invasa dai Sovietici. Solidarietà nordica, gusto dell’avventura ed anticomunismo sono stati, pertanto, le motivazioni che consentito di arruolare un corpo franco danese, destinato a combattere sul fronte russo. Alla fine del 1941, 1500 Danesi sono stati fra i primi volontari, fra cui ben 77 ufficiali dell’esercito reale, per inquadrare questo Frikorps Danmark in combattimento. In totale, circa 6 mila Danesi hanno combattuto sotto le uniformi tedesche, che sono stati inquadrati nella Divisione SS Nordland, praticamente quasi annientata nel gennaio 1945.
Il 29 agosto 1943, per ordine del re Cristiano X e del governo, che avevano deciso di rompere con l’occupante, la flotta di guerra danese si autoaffonda. Sui 52 bastimenti, 32 verranno colati a picco, 2 si trovavano in Groenlandia, 4 raggiungono la neutrale Svezia e solo 14 verranno catturati dai Tedeschi. Ancora una volta un episodio sanguinoso della lotta per la libertà. Numerosi patrioti danesi, fuggiti nella vicina Svezia, contribuiscono a formare una brigata che, alla fine del 1944, conterà già 4.800 uomini. Altri Danesi raggiungeranno la resistenza dell’interno, che nel corso del conflitto perderà ben 850 uomini, mentre un migliaio di Danesi riusciranno a raggiungere l’Inghilterra e a continuare a combattere a fianco degli Alleati.
L’Inghilterra, a seguito dell’invasione tedesca della Danimarca, aveva reagito già a partire dal 12 aprile 1940, occupando le isola Far Oer e bloccando i due terzi della flotta mercantile danese. Da quel momento, questa navigherà per conto degli Alleati e ben 1850 marinai danesi perderanno la vita nella Battaglia dell’Atlantico. Nel 1941, gli USA stabiliscono de facto un “protettorato provvisorio” sulla Groenlandia, installandovi alcune basi aeree. Gli Americani faranno anche in modo che l’Islanda spezzi, nel 1944, gli ultimi legami con la Danimarca, dichiarando la sua indipendenza. Il 5 maggio 1945, infine, la Danimarca viene liberata dalle truppe britanniche.

La maggioranza dei Danesi avrebbe, a quel punto, preferito adottare una politica di non allineamento, ma l’aggravarsi del conflitto Est-Ovest e la Guerra Fredda li costringerà a rinunciarvi. Vecchi resistenti e militari si sono organizzati per creare una solida rete anticomunista. Le amare esperienze della storia passata indicavano chiaramente la necessità di una forte alleanza, proprio nel momento in cui i Sovietici, che occupavano a quel tempo l’isola danese di Bornholm, cominciavano a diventare minacciosi. La Danimarca si schiera, a quel punto, con il campo occidentale dei quali condivide, evidentemente, le ragioni. Una brigata danese viene dislocata il Germania ed il regno danese aderisce nel 1949 all’Alleanza Atlantica. L’attuale Segretario Generale della NATO è d’altronde, il danese Anders Fogh Rasmussen (1953- ). Questi, erede di Uffe Ellemann-Jensen (1941- ), ministro degli esteri danese dal 1982 al 1993, ha potuto apprendere presso il suo maestro che un piccolo paese come la Danimarca poteva rivestire un certo ruolo, solo assumendo pienamente la sua partecipazione alla NATO. Jensen ha saputo anche convincere, manovrando qualche personaggio, una opinione pubblica danese reticente all’idea di veder il paese impegnato nella 1^ Guerra del Golfo. Egli è stato, tra l’altro, candidato al posto di Segretario Generale della NATO nel 1995, ma il presidente francese Jacques Chirac (1932-2019), che vedeva in lui “l’uomo degli Americani”, ha posto il veto. Rasmussen, primo ministro dal 2001 al 2009, ha proseguito la tradizionale politica danese di allineamento su Washington.
Le forze danesi contano oggi circa 10.500 uomini in servizio e poco più di 4 mila riservisti, ai quali vanno aggiunti i 57 mila volontari della Guardia Nazionale. Militari danesi sono stati sotto i colori dell’ONU a Gaza dal 1956, quindi nel Congo nel 1960. Dal 1992, 25 mila soldati danesi hanno partecipato ad operazioni esterne. Di fatto, il regno danese è il primo contribuente della NATO per numero di soldati per rapporto alla sua popolazione e le perdite sono state conseguenti: ben 43 soldati danesi sono stati uccisi in Afghanistan dal 2001.

 

 

 

 


PAGE 1

 

 

Cavalleria macedone, forza di intervento rapido di Alessandro

CAVALLERIA MACEDONE,
la forza di intervento rapido di ALESSANDRO MAGNO

(Pubblicato sul n. 4, settembre-ottobre 2022, della Rivista Militare di Cavalleria

Riorganizzata da Filippo II, il padre di Alessandro Magno, la cavalleria, piuttosto ignorata dai Greci, svolge un ruolo considerevole nell’arte della guerra macedone. Martello tattico, capace di colpire forte e rapidamente, essa completa la falange, incudine rigida e lenta,incaricata di fissare il nemico.

Filippo II di Macedonia (-332 / -336) ha introdotto durante il suo regno profonde riforme nell’esercito macedone: proprio nel momento in cui le città-Stato della Grecia classica si basavano sui “cittadini-soldati”, egli dota il suo regno di un esercito permanente e professionista, finanziato da una politica espansionista. Agli opliti tradizionali succedono le falangi, con una protezione più leggera, ma equipaggiate con la famosa sarissa (1), picca lunga. Ma l’elemento più determinante delle riforme di Filippo deriva dall’associazione, sul campo di battaglia, della falange di fanteria con un corpo di cavalleria pesante, che costituisce la forza d’urto del suo nuovo esercito. Ma se tale struttura viene effettivamente riorganizzata da Filippo II, sarà con suo figlio, Alessandro Magno (-356 / -323), che la cavalleria macedone conoscerà il suo periodo d’oro, prima di perdere progressivamente la sua importanza negli eserciti ellenistici (2) dei suoi successori.

Una banda di fratelli
La cavalleria macedone si articolava intorno a diverse unità complementi, dei quali la più emblematica e la più specifica è l’unità degli Hectaroi o Hetairoi (“Etéri”, “cavalieri accompagnanti” o più semplicemente “compagni”). Si tratta di una vera e propria cavalleria pesante, in cui gli uomini sono protetti da un equipaggiamento difensivo completo, comprendente elmo e corazza. L’elmo, all’inizio di modello frigio, viene rimpiazzato all’epoca di Alessandro da un elmo di tipo della Beozia, più semplice, sul quale viene indicato, con segni distintivi, anche il rango del cavaliere. La corazza è generalmente costituita da piccole placche di metallo, collegate le une alle altre e ricoperte di cuoio o di lino. Queste corazze presentano il vantaggio di essere flessibili e di essere resistenti allo stesso tempo. Esse risultano prolungate da diverse file di frange protettive e flottanti al di sopra dell’addome. Ma esistono altri modelli di corazza, come ad esempio quelle “muscolose” in ferro o in bronzo. Infine, i cavalieri sono equipaggiati di calzari di cuoio. L’arma principale dei “Compagni” è la lunga lancia di cavalleria, denominata Xyston (3) della lunghezza di 4 – 4,5 m.. La spada curva (xiphos), portata a bandoliera sotto il braccio sinistro, completa l’armamento offensivo.
I Compagni vengono reclutati fra i giovani nobili macedoni e raggruppati in squadroni su base regionale. Alessandro, quando parte da Dios, per la conquista dell’Impero persiano, dispone di 1.800 compagni, raggruppati su 8 squadroni, un ile reale e sette altri ilai (4). Lo squadrone reale conta 300 cavalieri contro un po’ più di 200 per gli altri. Il reggimento dei Compagni, considerato come l’unità d’elite della cavalleria macedone, è dotato di un solido spirito di corpo. Non si tratta di una semplice unità di soldati a cavallo, ma di una vera “cavalleria”, vale a dire di una unità strutturata e disciplinata, indubbiamente una delle prime di questo tipo nella storia.
Il ruolo dei Compagni è chiaramente definito nell’ambito dell’esercito: secondo la metafora largamente ripresa in ogni tempo nei loro riguardi, i cavalieri pesanti macedoni servono da martello mentre la falange da incudine, al fine di stritolare la resistenza e la coesione dell’avversario, prima che diverse truppe ausiliarie vengano a completare l’operazione (5).

Il rettangolo, il cuneo e la losanga
All’epoca di Alessandro Magno, la disposizione delle forze principali sul campo di battaglia non cambia praticamente mai: falange al centro, hyspaspisti a destra della falange e Compagni a destra degli hypaspisti (6), con il loro squadrone reale a destra delle sette altre ilai. Questo dispositivo corrisponde alla tradizionale gerarchizzazione delle differenti unità, secondo la regola che il posto d’onore nel mondo greco veniva sempre attribuito all’ala destra. A livello tattico, gli squadroni di Compagni utilizzano tre formazioni principali, trasmesse dal passato a contatto con i cavalieri traci: il rettangolo, per le scaramucce effettuate in ila o per attacchi frontali; il “cuneo”, per cariche penetranti e la losanga, più polivalente, per passare dalla scaramuccia all’urto ed per agire rapidamente in diverse direzioni.
La capacità dei Compagni di effettuare una vera carica penetrante, senza, tuttavia, poter disporre di staffe, è stata spesso contestata. Essa appare comunque verosimile, tenuto conto delle varie fonti scritte che ne descrivono le tappe. Per questo motivo, i Compagni entrano nella storia grazie alla loro carica decisiva, in occasione della battaglia di Cheronea, nel –338: i cavalieri, comandanti da Alessandro, annichilano, nel vero senso del termine, il battaglione sacro tebano. Nella pratica e di fronte alla fanteria come a Cheronea, la velocità dei cavalieri crea inizialmente un effetto d’urto. Poi l'allungo, determinato dalla linghezza delle xyston consente loro di rovesciare la prima linea dei loro avversari, senza essere colpiti, prima di disimpegnarsi per ritornare poi a caricare a più riprese. La carica si sviluppa in tale contesto, per ondate successive e consente di eliminare le linee dell’avversario una dopo l’altra, fino alla rottura della formazione. Essa prosegue, poi, con una lunga mischia a corpo a corpo, nel corso della quale la spada riprende il suo ruolo.
Un'altra particolarità tattica, legata questa volta al comando: Alessandro si impegna sempre personalmente alla guida dei Compagni, dimostrando che la vittoria dipende direttamente dalla sua azione, La sua azione di comando, come l’ha messo in luce lo storico John Keegan (1934-2012), viene qualificata come “eroica”: Alessandro rivaleggia con il suo mitico antenato Achille, rischiando la sua vita, come lo avrebbe fatto un eroe omerico, ricercando senza tregua i combattimenti singolari. Circondato dai suoi Compagni, in occasione della Battaglia di Granico, di Issos o di Gaugamela, Alessandro carica sempre, mirando direttamente al capo o il re nemico, cercando di raggiungerlo e di vincerlo personalmente.
Nel corso del regno dei tre ultimi re di Macedonia, Antigono III Dosone (-263 / -221), Filippo V di Macedonia (-238 / -179) e Perseo (-213 / -166), fra 100 e 150 anni dopo la morte di Alessandro, la cavalleria pesante perde parte della sua importanza e cambiano le sue caratteristiche. Negli eserciti della dinastia degli Antigonidi, la cavalleria risulta ormai equipaggiata di scudi, senza dubbio mutuati dai Celti. In tal modo, quando Plutarco (48-125) parla degli hectaroi del re di Persia, si tratta, senza dubbio, della sua guardia ravvicinata e non più di un reggimento intero di cavalleria pesante.
La proporzione di cavalieri leggeri nell’esercito macedone sembra aver avuto un incremento a spese dei cavalieri pesanti. Peraltro, la cavalleria, nel suo insieme, che rappresentava circa il 15% degli effettivi totali, raggiunge al massimo il 10% di quello negli eserciti macedoni tardivi. Nel corso delle grandi battaglie condotte dai tre ultimi re di Macedonia, sia contro gli Spartiati a Sellasia (-222) o contro i Romani a Cynocefale (-197) e Pydna (-168), la cavalleria macedone gioca ormai un ruolo secondario, abbandonando il ruolo primario alla falange od ai peltasti (7). Le sue missioni non sono più decisive come sotto Alessandro ed i piani tattici di battaglia non si incentrano più sulle sue cariche. La cavalleria macedone si distingue a quel punto, piuttosto nelle scaramucce e negli scontri di minore ampiezza, in cooperazione con la fanteria leggera.
Il premio tardivo alla leggerezza ed alla mobilità, instaurato alla fine dell’era ellenistica, si inscrive in contraddizione completa con le opzioni di impiego tattico della cavalleria promosse da Filippo II e da suo figlio Alessandro Magno e sfocia, peraltro, su risultati poco significativi, se non deludenti. E’ proprio nella sua caratteristica di “pesante” che la cavalleria macedone si è espressa al meglio, quando essa è stata la punta di lancia di un sistema equilibrato di unità complementari. La sua potenza, la sua disciplina e la sua rapidità hanno prodotto meraviglie come forza di sfondamento nell’ambito di un esercito capace, poi, di sfruttare pienamente i suoi successi: i Compagni sono stati anche loro dei conquistatori proprio come il loro capo.

NOTE
(1) Sarissa. Era la picca usata dai guerrieri del regno di Macedonia. Lunga fino a 6-7 metri, aveva un corpo in legno di corniolo di grande diametro, una grossa punta di ferro (circa 30 cm) e un tallone anch'esso metallico. L'intera lunghezza dell'asta era ottenuta con due rami distinti di corniolo uniti da un tubo centrale di bronzo, utile anche per bilanciare il centro di gravità. Arma formidabile, se maneggiata da soldati ben addestrati, la sarissa poteva vanificare gli attacchi di un carro falcato, di una carica di cavalleria (risultato comunque ottenuto anche dai normali opliti della Grecia Antica) e frenare le cariche della temuta fanteria pesante greca;
(2) Ellenistico. Viene designato come tale, il periodo o i regni di lingua greca, apparsi dopo la morte di Alessandro nel -323 e derivati dalle sue conquiste in Persia e nel bacino orientale del Mediterraneo, fino al controllo di queste regioni da parte di Roma, nel -I secolo;
(3) Xyston. Lunga lancia in legno di corniolo dei “Compagni”. Essa possiede un ferro di lancia ad ogni estremità fatto che permette, nel caso che si spezzi da un lato,di continuare ad utilizzarla dall’altro;
(4) Ile (plurale: ilai). Rappresenta l’equivalente macedone dello squadrone. Si tratta di una unità autonoma, capace di manovrare,e di adottare diverse formazioni tattiche in funzione delle circostanze Nei testi, ogni ile viene identificato con il nome del suo capo. L’ile reale, di 300 compagni, forma gli Agema, elite dell’elite della cavalleria macedone;
(5) All’epoca di Alessandro, la cavalleria macedone prevede al suo interno unità specializzate, spesso di origine straniera, che gli consentono di compire tutta la gamma di missioni affidate alle truppe montate. Gli Alleati della Tessaglia forniscono in tale contesto 1.800 cavalieri pesanti, armati ed impiegati come i Compagni. Gli Alleati greci forniscono 600 cavalieri più polivalenti, ripartiti in tre squadroni. Questi contingenti alleati vengono i più delle volte schierati sull’ala sinistra. Esisteva, infine anche una cavalleria leggera. Essa era articolata su quattro squadroni da 150 prodomoi (giovani esploratori) macedoni. Due squadroni di 150 Traci odryssieni e di Peoni (popoli a nord dei Macedoni sui fiumi Axius e Vardar). La sola categoria di cavalieri mancanti nella cavalleria macedone era quella degli arcieri montati,una specialità tipica dei popoli delle steppe;
(6) Hypaspistai o Ipaspisti ("portatori degli scudi dei compagni"). Erano reparti oplitici scelti nell'esercito macedone di Filippo II di Macedonia, di suo figlio Alessandro Magno e in quello dei suoi successori, i Diadochi. Gli Ipaspisti erano truppe versatili, efficaci, sia in difesa, che nel distruggere reparti di fanteria pesante nemica, grazie anche alla elasticità della loro formazione. Inoltre venivano utilizzati anche in azioni tipo "commando" come incursioni notturne o scalate di mura nemiche;
(7) Peltasti. Antico fante greco, armato alla leggera e fornito di pelta. erano unità militari di fanteria leggera, che affiancavano gli opliti greci durante le battaglie. Prendono il nome dal classico scudo di legno rivestito di cuoio denominato pelta. I peltasti più esperti e richiesti dell'antica Grecia provenivano dalla Tracia.


BIBLIOGRAFIA
Bey Frederic, Issos e Geugamela, Cerigo Editions, 2020;
Corvisier Jean Nicolas, Bataille di Cheronee, Economica, 2012;
Delbruck Hans, Warfare in Antiquity, Bison Book, 1990;
Karunanithy David, The Macedonian War Machine, Pen § Sword Military, 2013;
Keegan John, L’Art du Commandement, Perrin, 2006;
Dixon K.R. e Southern P., The Roman Cavalry, Routledge, 1997;
MacCall J. B., The Cavalry of The Roman Republic, Routledge, 2002;
Contamine Philippe, La Guerre au Moyen Age, PUF, 2003;

 

Dalla caduta dell'URSS alla guerra d'Ukraina

DALLA CADUTA DELL’URSS ALLA GUERRA d’UKRAINA
Trent’anni di illusioni e di frizioni


Pubblicato sul n. 300, settembre 2022, della Rivista Informatica “Storia in Network” ( HYPERLINK "http://www.storiain.net/"www.storiain.net) con il titolo “DALLA FINE DELL'URSS All'UCRAINA: TRENT'ANNI DI ILLUSIONI ED ATTRITI”
e lo pseudonimo di Max Trimurti.

L’ebbrezza da vincitori degli USA, di fronte ai timori ed alle umiliazioni della Russia ed al peso della geografia, alleata alla costanti della storia. Confronto fra due logiche imperiali, dove tutto sembrava concorrere ad un confronto fra Americani e Russi sotto le sembianze di una nuova guerra fredda, prima di tutto geopolitica.

La storia comincia con la disintegrazione interna dell’URSS nel 1991 che gli Occidentali avrebbero potuto evitare, proprio per timore di vedere sparire la stabilità che si erano riusciti a creare, non senza difficoltà, nell’ambito della guerra fredda. Henry Kissinger (1923- ) con la lucidità tipica della sintesi fornita dalla padronanza della storia e del realismo, vedeva due conseguenze ineluttabili al crollo degli imperi: “Gli sforzi messi in opera per approfittare della debolezza del centro imperiale e quelli spiegati dall’impero in declino per ristabilire la sua autorità sulla periferia”. Egli, in tal modo, ha profeticamente descritto, il meccanismo che, nel giro di una trentina d’anni, ci ha portato all’invasione dell'Ukraina, da parte della Russia.

Illusioni contro Umiliazioni
Il decennio 1990 si potrebbe definire come quello delle illusioni occidentali e quello dell’umiliazione russa. In effetti, l’illusione si centrava principalmente nella speranza di una integrazione della Russia nel campo occidentale, che Washington considerava come essenziale per far fronte alla crescita della potenza cinese a lungo termine. Assolutamente da evitare che le due potenze terrestri potessero unirsi di fronte alla potenza talassocratica USA, secondo lo schema del geopolitico britannico, degli inizi del XX secolo, Halford Mackinder (1861-1947). La Russia di Boris Eltsin (1931-2007) diventa, pertanto, in questo contesto, membro del Fondo Monetario Internazionale (FMI), della Banca Mondiale e fa il suo ingresso nel club ristretto del G7, mentre la sua economia subisce un trattamento da cavallo, ispirato dalla scuola neoliberale di Chicago: soppressione del controllo dei prezzi, liberalizzazione del commercio, privatizzazione delle imprese statali, il tutto a vantaggio degli oligarchi ed a danno del livello di vita dei Russi, che subisce un tracollo. Nel 1993, la NATO inaugura una istituzione di collaborazione militare con quelli che non potevano o non volevano aderire all’Alleanza, chiamata Partenariato per la Pace (PPP) ed alla quale la Russia aderisce nel 1994. Viene così messo in opera un meccanismo di collaborazione che ha il principale compito di sotterrare la guerra fredda.
Eppure, dietro questa apparente facciata occidentalizzata, si nascondeva una realtà ben diversa. In effetti, la Russia continuava a percepirsi come una grande potenza, che, per questo motivo, doveva essere trattata dagli USA come tale (in altre parole da pari a pari), nell’ambito di un partenariato strategico che rispetti i suoi interessi. La Russia non poteva rinunciare alla sua sfera di influenza, come è dimostrato dalla definizione del concetto geopolitico di “straniero vicino”, nel quale Mosca poneva l’insieme delle repubbliche ex sovietiche e che custodiva in sé i germi dell’inevitabile conflitto geopolitico con gli Stati Uniti. Ciò nondimeno, queste ambizioni si scontravano con quattro umiliazioni particolarmente difficili da accettare da parte della Russia.
La prima si basa sul crollo della sua potenza. Certamente, proprio perché Stato successore della defunta URSS, la Russia recupera il seggio permanente all’ONU con il suo annesso diritto di veto ed anche gli altri seggi nelle altre istituzioni internazionali, come anche l’arsenale nucleare. In queste condizioni, Mosca si dimostra incapace di impedire agli USA, inebriati dalla loro iperpotenza, di agire a loro piacimento negli affari internazionali, di giocare al gendarme del mondo, senza mai dimenticare i loro interessi e di esportare i loro valori nei quattro angoli del pianeta, al fine di realizzare il progetto dell’America-mondo.
La seconda umiliazione viene dalla frammentazione territoriale che ha fatto regredire le frontiere russe ai limiti di quelle del XVII secolo, facendole perdere i suoi territori conquistati dallo zar Pietro I il Grande e dalla zarina Caterina II, fra i quali l’indispensabile Crimea, senza la quale Mosca perde il suo accesso privilegiato al Mar Nero ed al Mediterraneo.
Ancora, terza umiliazione, la società russa va incontro ad una terribile recessione. Iperinflazione e disoccupazione, debito estero abissale, fughe di capitali, crollo del rublo, scomposizione dello stato, alcoolismo, aborti, delinquenza, nulla sembra risparmiare il nuovo Stato sorto dalle ceneri dell’URSS.
Un ultimo, quarto oltraggio, la Cecenia, che tenta una secessione armata che mette in pericolo le sorti dalla Federazione di Russia.
Tuttavia, il peggio doveva ancora arrivare con la guerra del Kossovo. Non si dirà mai abbastanza sulla gravità dell’operazione militare, lanciata dagli USA con le forze della NATO, per strappare questa provincia ai Serbi, culla storica della loro nazione, nel nome del diritto all’autodeterminazione dei popoli, un principio decisamente corretto, ma, purtroppo, applicato a geometria variabile. Illegale, ma legittimo alla luce dei diritti dell’uomo, l’attacco contro un popolo che storicamente risultava vicino a Mosca, mette in evidenza l’impotenza russa a contrastare l’azione militare americana. Per di più, diventava ormai difficile affermare che la NATO conservava una struttura puramente difensiva e che non rappresentava il braccio armato dell’egemonia USA.

Realismo contro ideologia
E’ proprio in queste condizioni che, nel 1999-2000, arriva al potere Vladimir Putin (1952- ) patriota russo, formato alla scuola del KGB, traumatizzato dalla fine della potenza sovietica. In realtà, una prima svolta aveva avuto luogo nel 1996, con l’arrivo alla direzione della diplomazia russa e quindi alla guida del governo, due anni più tardi, di Evghenji Maksimovic Primakov (1929-2015). Mosca inizia in quel momento a guardare in direzione della Cina, dell’India, dell’Iran, altre potenze continentali. La guerra del Kosovo non farà altro che contribuire ad un ulteriore deterioramento delle relazioni con l’Occidente. Ciò nonostante, i primi segni inviati dal giovane presidente potevano apparire positivi agli occhi di Washington, soprattutto dopo gli attacchi terroristi dell’11 settembre del 2001. Putin, in quel momento alle prese con il terrorismo ceceno, opta per un riavvicinamento con gli Americani, lanciati nell’operazione Enduring Freedom in Afghanistan. In tale contesto, gli viene richiesta la sua cooperazione e gli viene consentito di installare basi nei paesi dell’Asia centrale. A questa prima fase iniziale collaborativa seguiranno diversi accordi che tenderanno a configurare meglio questo partenariato, fra i quali il Trattato SORT (Strategic Arms Reduction Treaty) di disarmo strategico, sulla riduzione delle testate nucleari, firmato il 24 maggio 2002 e seguito, quattro giorni più tardi, dall’insediamento del Consiglio NATO-Russia.
Tuttavia, nonostante le buone premesse, ben presto vengono alla luce notevoli frizioni. L’uscita degli USA dal Trattato ABM nel giugno 2002 e la forzata invasione (illegale ed illegittima) dell’Irak, nel marzo del 2003, mettono in evidenza le smisurate ambizioni degli USA, come anche la loro evidente impunità. Nello stesso tempo i Russi si sono sentiti minacciati nei loro interessi immediati. Oltre alla tragedia di Beslan, nel settembre 2004, che segna l’apogeo della campagna terroristica dei Ceceni e che Putin aveva schiacciato nelle rovine di Grozny, lo “straniero vicino” dei Russi subisce ondate di rivoluzioni colorate, specialmente a , dove scoppia, sempre nel corso del 2004, la Rivoluzione Arancione. Non senza ragione, Mosca ha voluto vedere, nella caduta del potere pro-russo, l’azione sovversiva degli Americani attraverso le loro potenti ONG. E’ pur vero che, dalla Casa Bianca, il presidente George W. Bush (1946- ) ha condotto una lotta ideologica in favore della democrazia, che egli ha descritto in termini molto chiari nel suo discorso inaugurale del suo secondo mandato, nel gennaio 2005. La politica americana, secondo Bush junior, consisteva ormai a “ricercare e sostenere il progresso di movimenti e di istituzioni democratiche in tutte le nazioni ed in tutte le culture, con lo scopo ultimo di mettere fine alla tirannide nel mondo”. A Mosca, dove il potere putiniano aveva cominciato a serrare le viti, si rendono perfettamente conto del senso del messaggio. Da un lato, come dall’altro, appare evidente la rimessa in discussione del partenariato strategico.

E la NATO si allarga
Nel cuore del processo di uscita dalla guerra fredda, ma anche da quello che ha condotto alla guerra in Ukraina, si trova il problema della supposta promessa fatta a Mikhail Gorbacev (1931-2022) dagli USA di non estendere la NATO verso Est. Nonostante le ripetute refutazioni dello storico americano Mark Kramer di Harward, una promessa verbale di non allargamento è stata effettivamente formulata da James Baker (1930- ), Segretario di Stato di George Bush, nel febbraio 1990, nel momento dei negoziati sulla riunificazione della Germania. Se ne trova traccia nelle note scritte da Baker: “Germania unificata ancorata in una NATO cambiata (politicamente) - la cui giurisdizione non si estenderebbe verso Est !”, come viene riportato da Mary Elise Sarotte (1968- ) nel suo libro 1989: the Struggle to Create Post Cold War Europe. Risulta, tuttavia, vero che in quello stesso momento la dissoluzione del Patto di Varsavia e dell’URSS era semplicemente inimmaginabile. E’ ancora più vero che questo dubbioso affare è diventato per i Russi una specie di mito fondante nei loro rapporti con l’Occidente. E l’essenziale del problema risiede esattamente in questa promessa, secondo i Russi non mantenuta.
La NATO, dunque, si allarga. Un allargamento sostenuto da un asse Washington-Berlino-Varsavia, richiesto legittimamente dai paesi dell’Europa orientale che, forti della loro precedente drammatica esperienza, conoscono bene il carattere espansionistico di una grande potenza, conoscono il nazionalismo imperiale russo e ricercano pertanto una protezione che gli USA. Questi, decisi a respingere la Russia il più ad est possibile, erano ben decisi a fornire loro, seguendo le schema formulato da Zbigniew Brzezinski (1928-2017), esplicitato nella Grande Scacchiera (1997). Nello stesso anno 1997, la Polonia, l’Ungheria e la Repubblica Ceca vengono, conseguentemente, autorizzate a candidarsi per l’adesione alla NATO, secondo i criteri democratici ridefiniti nel 1995, entrata che diventerà affettiva nel corso del 1999. Da quel momento, l’ingrandimento della famiglia NATO continuerà, con l’entrata a partire dal 2004 agli Stati baltici, alla Slovacchia, alla Romania, alla Bulgaria ed alla Slovenia, per concludersi nel corso del 2009 con gli ingressi di Croazia ed Albania e con quello del Montenegro nel 2017.
La posta in palio per gli USA era di primaria importanza. In effetti, la NATO ha loro consentito e consente tuttora di controllare i loro alleati europei, di avere un piede sul continente europeo, senza il quale essi si troverebbero nella situazione che la geografia ha dato loro: un’isola continente tagliata dalla massa euroasiatica. Orbene, l’avanzata della NATO ha contribuito a riattivare nella controparte russa, questa paura ossessiva dell’invasione. Vale la pena sottolineare che la Russia ha sì di che rallegrarsi delle ricchezze dell’Heartland, ma soffre di due mali geografici: il suo incapsulamento, che la separa dagli accessi ai mari caldi, da una parte e, dall’altra parte, la vulnerabilità del suo spazio che non dispone di alcuna barriera fisica di protezione. L’Ukraina, via di invasione verso la Moscovia e porta verso il Mediterraneo: non è necessario possedere una grande perspicacia per capire l’importanza geopolitica a prescindere di questa nazione, specie per i Russi. Qualche tempo fa, Jack F. Matlok Jr. (1929- ), vecchio ambasciatore americano a Mosca, ha affermato che “l’espansione della NATO costituiva la più profonda gaffe strategica fatta a partire dalla fine della guerra fredda”.
L’allargamento del 2004, la Rivoluzione Arancione dello stesso anno, la politica neoconservatrice del “Regime Change” di George W. Bush, l’installazione di uno scudo antimissile in Polonia ed in Romania (con la scusa di contrare i missili iraniani …) e la rimessa in discussione da parte degli Americani del Trattato ABM, sono stati interpretati da Putin come i segni di una ostilità crescente. In occasione della Conferenza sulla Sicurezza, tenutasi a Monaco di Baviera nel 2007, il Capo del Kremlino ha indicato la NATO, senza alcuna ambiguità possibile, come il nemico della Russia. Anche il presidente francese Jacques Chirac (1932-2019), verso la fine del suo secondo mandato, ha espresso la sua inquietudine di fronte a questa evoluzione ed ha invitato ad una seria riflessione ai fini di ipotizzare una struttura di sicurezza che coinvolgesse la Russia nei riguardi di uno statuto dell’Ukraina che potesse garantire la sua sicurezza. Ma Bush, a questo invito ed ad altri provenienti da paesi europei, ha risposto con un gentile ma fermo diniego.
Putin, a quel punto, ha approfittato della determinazione degli Americani e della corta visione delle dirigenze europee. Indubbiamente, il vertice della NATO, tenutosi a Bucarest nell’aprile 2008 rifiuterà all’Ukraina ed alla Georgia lo statuto ufficiale di candidato, che Washington voleva loro attribuire, proprio per il veto incrociato di Francia e Germania. Tuttavia, gli USA continueranno a lasciare la porta aperta a questi due paesi, compresi nello spazio dello “straniero vicino” russo, nella speranza di poterne approfittare. A questo punto, è stato sufficiente per Putin attendere l’errore fatale del presidente georgiano Mikhail Saakashvili (1967- ) per ottenere nell’agosto 2008 il pretesto per un’invasione che spezzerà la dinamica pro NATO di Tbilissi, strappandogli ben due province (Abkhazia ed Ossezia del Sud). Eppure, il messaggio putiniano era di estrema chiarezza: egli userà ormai la forza per bloccare future adesioni. Ma in Occidente non hanno dato il giusto peso al netto avvertimento. Bruxelles, almeno visibilmente, ha continuato a far finta di non aver capito. Lanciata nella sua politica di allargamento a tutti i costi e di esportazione della pax democratica, che si potrebbe definire anche come “imperialismo dolce”, l’UE non rinuncia all’ipotesi di far aderire nel suo seno l’Ukraina, con sovrano disprezzo dei più elementari interessi di sicurezza russi. Ukraina si trasforma, a quel punto, in una minaccia per Mosca, tanto più che l’adesione all’UE coincide, quasi temporalmente, con quella alla NATO. Prosperità, democrazia, protezione americana ai margini della sua frontiera: altrettanti pericoli che la Russia vede avanzare minacciosi contro di sé. Putin, in questo caso, ha la colpa di aver pensato che non ci sarebbe stata altra via d’uscita e di disporre di sufficiente cinismo per infrangere ed infischiarsene delle regole di convivenza internazionale.

Le guerre per procura
Insediato alla guida di un governo forte, seduto sopra immense riserve di gas, arricchito dall’aumento dei pressi del petrolio, consolidato da una restaurazione interna del suo paese sul piano sociale, religioso e culturale, destinato a rendere ai Russi la loro fierezza - condizione indispensabile per un ritorno in forza sulla scena mondiale -, Putin lancia il suo paese in uno scontro con l’Occidente, di cui la Cina gli concede il privilegio. Un combattimento, che assume progressivamente un carattere ideologico sempre più marcato. In un discorso pronunciato nel 2013 al Forum di Valdai, il presidente russo denuncia i paesi occidentali che a suo avviso, “adottano delle politiche che mettono sullo stesso piano le famiglie numerose e le coppie dello stesso sesso, la fede in Dio ed il culto di Satana”. Da un punto di vista geopolitico, egli riprende per sé l’ideologia slavofona e le tesi euroasiatiche (sostanzialmente anti occidentali) care al filosofo e politologo russo Alexander Dugin (1962- ), per il quale l’inevitabile scontro fra civiltà avverrà fra la civiltà tradizionalista, da un lato e l’Occidente decadente, dall’altro.
Con il decennio 2010, la Russia di Putin entra in uno scontro progressivamente più forte e più ampio con l’Occidente, in un crescendo che porterà all’invasione dell’Ukraina. Il contesto appare favorevole, dal momento che gli USA iniziano a rinunciare al loro ruolo di gendarme del mondo con il presidente Barak Obama (1961- ). In occasione della crisi della Libia del febbraio 2021, il Kremlino lascia passare all’ONU la risoluzione n- 1973 del 17 marzo 2011, che autorizzava la Francia ed il Regno Unito, saliti sul treno del neoconservatorismo, proprio nel momento in cui gli Americani ne sono discesi, ad intervenire a sostegno dei ribelli, ma senza impegno diretto sul terreno, nel rovesciamento del sanguinoso regime dell’autocrate di Tripoli. Il seguito risulta ben noto: Parigi e Londra, come anche i loro alleati Qatarini, non rispetteranno il mandato dell’ONU. La Russia, a quel punto, ha buon gioco nel gridare alla prevaricazione, anche se è lecito dubitare dell’atteggiamento naif dei dirigenti del Kremlino in tutta la questione. Con la guerra civile in Siria, Mosca passa dal lasciar fare al bloccaggio delle iniziative occidentali, mettendo il suo alleato Bashar el Assad (1965- ) sotto la sua protezione, come lo dimostra il primo veto posto a partire dall’ottobre 2013 all’ONU e quindi intervenendo militarmente in suo favore a partire dal 2015. Nell’affare, la Russia riesce a vincere su tutta la linea, ad esempio quando Obama rinuncia ad una operazione militare nel 2013. Infine, Putin passa all’azione diretta nel 2014, al fine di difendere i suoi interessi immediati nell’area dello “straniero vicino”, con l’annessione della Crimea e la Guerra per procura nel Donbass. Una crisi, conviene ricordarlo, che nasce dall’accordo di associazione proposto a Kiev dall’UE, che, da parte sua, sembrava incapace di rinunciare all’Ukraina e di non aver tratto alcun ammaestramento dai fatti della Georgia.
Altro punto capitale: l’estensione geografica dell’attivismo russo che ha riproposto quello dell’URSS degli anni 1960-70. Oltre alla Siria, l’influenza della Russia si fa sentire, ormai, in Egitto, in Algeria, nel “puzzle” libico e chiaramente in Africa. Ovunque gli Occidentali mostrano segni di regressione. Le sanzioni economiche del 2014 hanno dato un impulso supplementare al riavvicinamento della Russia con la Cina, mentre Mosca rimane essenziale nella risoluzione della questione siriana ed irakena. In definitiva, la Russia è ritornata ad essere un attore fondamentale sullo scacchiere internazionale. Ormai si deve comunque trovare un accordo con Mosca. Donald Trump (1946- ), per concentrarsi meglio sul pericolo cinese, aveva evidenziato una volontà di riallacciare, senza successo, i contatti con la Russia, e di riproporre quel famoso “reset” che anche Obama a suo tempo aveva anch’egli tentato invano. In effetti, si trattava ormai di una tardiva resipiscenza. Di fatto, queste aperture sono state sempre interpretate da Putin come indizi di debolezza, che ha sempre rifiutato di accogliere la mano tesa. A tutto questo vanno aggiunti i numerosi bloccaggi presso il Consiglio Nazionale di Sicurezza, come al Congresso dei Rappresentati, che hanno contribuito ad impedire alla Casa Bianca anche un minimo di riavvicinamento con Mosca. I pregiudizi negativi e reciproci rappresentano ostacoli difficilmente superabili in un tempo breve, da una parte e dall’altra.
In fin dei conti, con la sua aggressione all’Ukraina, diventata terreno di scontro degli imperi, Putin ha superato una nuova (ultima ?) tappa del ritorno in potenza della Russia sulla scena mondiale e del suo rifiuto dell’attuale ordine mondiale, immaginato da Washington. In effetti, le sue dichiarazioni al venticinquesimo Forum di San Pietroburgo, del 15 giugno 2022, poi quelle al Vertice del 23-24 giugno dei BRICS, i nuovi Paesi non allineati, hanno reso flagrante le vere intenzioni del presidente russo: l’invasione dell’Ucraina è, dunque, solo un pretesto in un disegno di più ampio respiro, che persegue l’obbiettivo, con l’appoggio più o meno palese della Cina, della distruzione dell’unipolarismo del morente impero americano e della liquefazione della sua area periferica, denominata Unione Europea.
PAGE 9

 

 

Caterina 2^, despota illuminato

CATERINA 2^,
despota illuminato

Pubblicato su Rivista Informatica "GRAFFITI on line" (www.graffiti-online.com) del mese di maggio 2022, con il titolo “FATTI E MISFATTI DELLA ZARINA CATERINA II”
http://www.graffiti-on-line.com/home/opera.asp?srvCodiceOpera=2020

La zarina, “Semiramide del Nord” per gli uomini del secolo dei Lumi, un’orco senza scrupoli per le sue vittime, è stata una donna autocrate, dalla sensualità straripante, sfuggita a qualsiasi regola. Arrivata al potere a seguito di un colpo di stato, Caterina 2^ di Russia, despota imperialista, ha le mani macchiate di sangue. Ma la donna è stata anche un’ammiratrice ed una corrispondente degli Illuministi. Storia di un incredibile destino e ritratto contrastato di una dei più grandi “uomini di stato” del XVIII secolo.

Nel 1796 il Charles Joseph, VI Principe di Ligne (1735-1814), nell’apprendere la morte di Caterina II di Russia, ebbe ad esclamare “Caterina la Grande non c’è più. Queste parole sono veramente terribili da pronunciare ! L’astro più brillante che ha illuminato il nostro emisfero si è appena spento !“ Eppure solo qualche decennio prima, l’incommensurabile impero della Zarina era ben lontano dall’abbagliare così tanto le aristocrazie occidentali che, in generale, manifestavano piuttosto indifferenza, se non disprezzo per una terra giudicata ancora semi barbara.
Il regno di Pietro I il Grande (1694-1725), all’inizio del XVIII secolo, aveva ben sottolineato, con S. Pietroburgo l’apertura da parte della Russia di una finestra sul Baltico e quindi sull’Occidente. Ma il vero radicamento della Russia in Europa si deve piuttosto all’effetto dell’opera di Caterina. Osannata come una Semiramide del Nord dai cantori del secolo dei Lumi, o come “orco senza scrupoli” dalle vittime delle sue insaziabili mire territoriali, o, infine, come una vera e propria Messalina dagli “abbandonati” nel giro di valzer dei suoi numerosi “favoriti”, la Zarina, con il suo straordinario percorso, ha suscitato e suscita ancora oggi i giudizi più controversi. In effetti, per François-Marie Arouet detto Voltaire (1694-1778) la donna è “il più grande uomo del secolo”, ma nel momento della Rivoluzione Francese, alcuni feroci libelli la denunciano come “la Messalina del Nord”.
Caterina, a dire il vero, non ha una sola goccia di sangue russo nelle sue vene. Sofia Frederika di Anhalt Zerbst era, in effetti, una piccola principessa di una piccola corte della Germania del Nord, in cui nulla sembrava far presagire un destino così grande. Di fatto, nel 1762, a 33 anni, la donna diventa Caterina 2^ Alekseevna (1729-1796), l’imperatrice di uno dei più vasti stati del mondo, che ha suscitato nei contemporanei i giudizi più contrastanti.
Al di là di queste immagini, ovvero di questi miti, il personaggio risulta fra le più grandi figure della storia russa. Inserendosi sul solco di Pietro I i987il Grande (1694-1725), Caterina 2^ prosegue la sua politica di apertura all’Europa, pur imprimendole un suo proprio marchio, nello spirito dei Lumi.
Sofia Frederika Augusta d’Anhalt-Zerbst nasce, appunto. nel maggio 1729. Suo padre, il principe feldmaresciallo prussiano Cristiano Augusto (1690-1747), di piccola nobiltà tedesca, è un luterano convinto e devoto, più preoccupato della salute della sua figlia che della sua ascensione sociale. Per contro, sua madre, Giovanna Elisabetta d’Holstein Gottorp (1712-1760), bisnipote del re di Danimarca e Norvegia, Federico III (1609-1670), nutre rapidamente progetti reali per sua figlia.
Cristiano Augusto fa impartire a sua figlia una educazione aperta ed “europea”, tipica delle corti tedesche del XVIII secolo. Un pastore vigila sulla sua educazione religiosa e le insegna la storia e la geografia; una governante francese, Elisabetta Cardel, la inizia alla lingua ed alla letteratura del suo paese. Jean de La Fontaine (1621-1695) e Jean-Baptiste Poquelin detto Moliere (1622-1673) sono i suoi autori favoriti e la futura zarina ricorrerà all’uso del francese per redigere le sue Memorie e per corrispondere con Voltaire e Denis Diderot (1713-1784).
La vita della giovane ragazza si sviluppa in maniera tranquilla nell’affetto dei suoi fino a quando, il 1° gennaio 1744, una lettera firmata da Elisabetta 1^ (1741 - 1762), imperatrice di Russia, che invita Sofia a recarsi a S. Pietroburgo, arriva a scuotere la sua esistenza. In effetti, Elisabetta 1^, figlia di Pietro I il Grande, celibe senza figli ed al potere dal dicembre 1741, decide, due anni più tardi, di proclamare suo nipote, il Duca di Holstein Gottorp, Pietro Ulrico (1728-1762), erede al trono russo. Ecco dunque che la zarina concentra le sue attenzioni sulla principessa tedesca, proprio nell’intento di trovare una sposa per il futuro Pietro III di Russia.
Questa sorprendente decisione appare alla fine dei conti una scelta obbligata: nessuna corte d’Europa, Parigi, Vienna o Berlino, ha accettato di lasciar partire una delle proprie figlie per la Russia, un mondo giudicato pericoloso ed incerto. Ma la piccola principessa d’Anhalt-Zerbst rappresenta anche una carta vincente: l’autoritaria Elisabetta 1^, è convinta che la giovane, per il fatto di appartenere ad una casata secondaria, poteva essere uno strumento decisamente più docile e vede nella stessa, lontana discendente del re di Danimarca, anche un mezzo per continuare l’opera di Pietro I il Grande, avvicinando la Russia agli stati europei del nord.
In tal modo, il 9 febbraio 1744, Sofia, quattordicenne, e sua madre arrivano a S. Pietroburgo, in Russia, in un paese così smisurato, che se da un lato affascina la giovane, dell’altro le incute un riverente timore, se non spavento.
Per rendersi bene accetta, la piccola protestante abbraccia immediatamente la fede ortodossa e si fa battezzare ufficialmente con il nome di Iekaterina (Caterina) Alexievna, un gesto che le permette di affermare la sua “russità”. Diventata Granduchessa con il matrimonio con il Granduca Pietro del 21 agosto 1745, la giovane è costretta a muoversi in una corte in cui tutto le è sconosciuto, a sopportare il carattere tirannico di Elisabetta e le cattiverie di suo marito.
Ma il disaccordo cresce rapidamente fra gli sposi. Pietro, immaturo, se non puerile (non pensa altro che a bere o a giocare con i suoi soldatini di piombo), si mostra profondamente nostalgico del suo Holstein natale, mentre Caterina, più adulta e senza dubbio più cinica, aspira a dimostrare la sua volontà di adottare lo stile di vita e la cultura russi. La donna si getta, di fatto, anima e corpo in un costante lavoro di “naturalizzazione” nel nuovo ambiente, nello studio della lingua e della religione della sua nuova Patria, attirandosi, in tal modo, le buone grazie dei suoi futuri sudditi. Tuttavia, la giovane donna si mostra severa nei confronti del suo nuovo paese: “La disposizione alla tirannia si coltiva laggiù più che in ogni altro luogo della terra abitata”, scriverà nelle sue Memorie.
Per circa una quindicina d’anni, Caterina, isolata a corte, si consola anche nelle braccia di molteplici amanti ed attende pazientemente la sua ora, convinta di avere sposato non tanto un uomo, ma piuttosto un paese. Caterina, è diffidente e non in linea con l’autoritarismo e la diffidenza di Elisabetta 1^, che la rimprovera di tardare nel dare un erede al trono. E’ finalmente nel 1754, ovvero nove mesi dopo il suo matrimonio, che nasce un bambino, il futuro Paolo I Petrovic Romanov (1754-1801).
Pietro che non prova alcun attrattiva per la sua giovane sposa, è affetto da sterilità ed, in realtà, il neonato è figlio di Serghei Saltykov (1726-1765), ciambellano del Granduca ed amante di Caterina dal 1752. All’indomani della nascita, Paolo viene sottratto alla madre da parte di Elisabetta, che vuole vegliare da sola alla sua educazione. Questa separazione forzata peserà profondamente sulle relazioni fra la madre ed il figlio, prive di calore e di fiducia.
Caterina si rifugia nella lettura: oltre agli Antichi (Platone, Tacito, Plutarco), la donna scopre Charles-Louis de Secondat, barone de Montesquieu (1769-1855), in particolar modo “Lo Spirito delle Leggi” e Voltaire. Più tardi, nel momento del suo regno, Caterina deriverà da Montesquieu la sua concezione del “buon monarca”, giusto, equilibrato, come opposizione al tiranno; e sarà da Voltaire che la donna trarrà il suo gusto per la tolleranza religiosa ed un certo rispetto della persona umana.
Tuttavia, Caterina non avrà mai la testa filosofica e soprattutto non sarà mai una idealista. Se si nutre delle nuove idee è sempre per fini pratici, nella concreta preoccupazione degli interessi dello Stato. Allorché Diderot le farà visita a S. Pietroburgo, nel 1773, e che le consiglia di condurre delle riforme rapide ed ambiziose, la monarca gli risponderà: “Voi lavorate solamente sulla carta, che soffre tutto, mentre me, povera imperatrice, lavora sulla pelle umana che è ben altrimenti irritabile e sensibile al solletico”.
Alla morte di Elisabetta, il 25 dicembre 1761, Pietro 3° diventa imperatore. Se egli adotta delle misure popolari - come la scomparsa della cancelleria segreta (polizia temibile ed arbitraria), la riduzione delle imposte sul sale o l’autorizzazione accordata ai vecchi credenti o Starovieri (1) (esiliati da sua zia) di praticare liberamente la loro fede - egli si mostra maldestro ed anche provocante nei riguardi dell’esercito. La firma, l’11 giugno 1762, di una alleanza diplomatica e militare con la Prussia, nemica tradizionale della Russia, porta il malcontento dei militari al parossismo.
In questo clima di tensione - Caterina risulta ostile agli orientamenti germanofili dello zar, che giudica nefasti per la Russia - e di pericolo personale crescente - Pietro III è sul punto di ripudiarla per sposare la sua amante e di rinnegare Paolo di cui sa che non è suo figlio -, Caterina intriga nell’ambito della Corte per fomentare un colpo di stato militare. “Si trattava, in sostanza, di perire con lui o di morire per mano sua, oppure di salvare me stessa i miei figli e forse lo stato, dal pericolo di naufragio che le facoltà morali e psichiche di questo principe facevano chiaramente intravedere”, scrive ancora nelle sue Memorie. Caterina, guidata da questi propositi si prepara all’inevitabile scontro, sostenuta da un piccolo gruppo di fedeli, fra i quali il conte Nikita Ivanovic Panin (1718-1783), precettore del giovane Paolo dal 1760, il generale principe Nikolaj Sergeevic Volkonsky (1753-1821), il generale Aleksej Razumovsky (1709-1771). ma anche dagli ufficiali della Guardia, guadagnati alla sua causa dal favorito del momento, il capitano di artiglieria Grigorj Grigorievic Orlov (1734-1783) (suo amante dal 1761), che incarna proprio le tradizioni slave calpestate da suo marito.
Questi uomini, devoti alla sua causa, risulteranno all’origine del complotto che consentirà a Caterina, il 28 giugno 1762, di arrestare lo zar e di autoproclamarsi, a 33 anni, imperatrice (zarina) “per il bene della Russia e della fede ortodossa”. Qualche giorno più tardi, Pietro III, viene avvelenato e quindi strangolato all’insaputa di Caterina, da un partigiano troppo zelante della giovane Zarina, così come verrà successivamente condotto a termine l’assassinio del giovane Ivan VI Romanov (1741-1764) (2), imprigionato già dal 1741, per assicurare il potere della nuova imperatrice.
Questo colpo di forza, frutto dell’usurpazione e del crimine, suscita critiche virulente in tutte le corti, dove la giudicano come una avventuriera e nell’opinione pubblica europea, anche nel momento in cui la nuova imperatrice afferma la sua intenzione di continuare la “europeizzazione” del paese.
Senza essere veramente bella, Caterina è una donna che ha ancora un suo fascino e la gente viene soprattutto sedotta dalla vivacità del suo spirito. E’ una donna che ha letto molto e sa esprimere il suo parere su quasi tutto. Sebbene attratta dall’Illuminismo e molto ispirata dalle idee di filosofi come Montesquieu, la Zarina è fermamente convinta della necessità che il principe debba disporre di un potere senza limiti per il bene del suo popolo. Il suo spirito, appassionato nel fare chiarezza su tutto, vuole soprattutto mettere ordine in Russia. Di fronte ad una situazione catastrofica delle finanze, decide di fondare una banca d’emissione, che stampa gli “assegnati”, secondo le esigenze della tesoreria imperiale. Beneficiando di una fiducia illimitata da parte dei sudditi, riesce in tal modo a raccogliere, oro e successi in ogni settore. Istituisce dei Ministeri e costituisce 50 Governatorati in Russia che fino ad allora ne aveva appena otto e, spinta da una vera mania di legislazione, arriva persino a regolamentare l’educazione e ad introdurre la vaccinazione. Caterina sogna di armonizzare le leggi e per questo chiede persino il parere del popolo, che delega una vera folla di suoi rappresentanti nell’ambito di una Grande Commissione di Riforme, ma ben presto, stanca delle interminabili discussioni che vengono condotte in questi falsi “Stati Generali”, si rende conto che certi strumenti risultano molto piacevoli da maneggiare, ma poi alla fine “non resistono alla prova dei fatti”. In effetti la realtà della Russia ed i suoi sogni di espansione la conforteranno adeguatamente nelle sue pratiche d’autocrate.
“L’impero russo è così grande che qualsiasi altra forma di governo diversa da quella assoluta, gli sarebbe nociva”, afferma la Zarina ed in questo contesto appare molto difficile adattare le teorie filosofiche europee alla situazione russa. Se da un lato essa compiange i servi della gleba, dall’altro sa bene che ha bisogno dell’appoggio dei nobili, che prima non disponevano di alcun potere e di nessuna autonomia. Cosciente del ritardo sociale del suo paese rispetto all’Occidente, Caterina fa finta di ascoltare Diderot, quando questi soggiorna per qualche tempo in Russia. Il filosofo cerca di consigliarla sul miglior modo di governare e soprattutto vuole convincerla ad abolire il servaggio, di cui, invece, la Zarina non farà che rinforzarne il peso.
“Con i vostri grandi principi si potranno di certo scrivere molti bei libri, ma si potranno risolvere ben pochi problemi”. Con queste parole Caterina risponde alle insistenze del filosofo ed ai discorsi degli utopisti sognatori, tanto più che proprio nello stesso periodo si è scatenata una rivolta popolare negli Urali che minaccia seriamente tutta la struttura dell’Impero.
Per la donna, la Russia deve partecipare al concerto internazionale delle nazioni alla pari dell’Inghilterra, dell’Austria, della Francia o della Prussia, ovvero tentare di assicurare il suo predominio sul continente.
La prima vittima illustre di questi progetti geopolitici espansionisti è rappresentata dal Regno di Polonia, alla testa del quale si trova un suo vecchio amante Stanislao II Augusto Poniatowskj (1732-1798). La Zarina, approfittando dell’indebolimento di questo stato, in preda ad un profondo processo di decomposizione, vi interviene diverse volte militarmente con la scusa di difendere la libertà di culto degli ortodossi e Voltaire, infatuato dell’autocrate, non manca in questo caso di esprimerle le sue felicitazioni per la sua manifesta volontà di “tolleranza religiosa” (peraltro “portata sulla punta delle baionette”). Con questa logica politica, Caterina riuscirà, nel giro di 20 anni, dal 1772 al 1795, ad impossessarsi, con il contributo dell’Austria e della Prussia, di un terzo del territorio polacco, per un totale di 455 mila km2 di terre, in Ucraina, in Bielorussia e in Lituania. Il suo imperialismo è ormai patente …
I suoi amanti come Orlov o ancora il Principe di Tauride, Grigorj Aleksandrovic Potemkin (1739-1791), hanno, in tale contesto, l’occasione per mettersi in luce in queste spedizioni militari. Il secondo, in particolare, carico di onori ed investito di alte funzioni, si farà promotore del celebre viaggio nel 1787 della Zarina lungo le rive del Dniepr, attraverso la “nuova Russia”. Gli ambasciatori che l’accompagnano, sebbene non completamente convinti da villaggi, sorti troppo rapidamente dal nulla e da contadini ben vestiti, saranno comunque ottimi veicoli propagandistici per rinforzare il prestigio russo negli ambienti europei. Inoltre, in questa dimostrazione di opulenza, la Zarina riesce a coinvolgere anche l’Imperatore Giuseppe II d’Asburgo-Lorena (1741-1764-1790), peraltro già suo alleato nella lotta contro la Sublime Porta.
Ma è contro l’Impero Ottomano che la Zarina, riprendendo un vecchio sogno di Pietro I il Grande, concentra presto tutte le sue forze. Con la firma del Trattato di Kutchuk-Kainardji, nel 1774, gli Ottomani concedono alla Russia le rive settentrionali del Mar Nero. L’impero vi guadagna il diritto di navigare liberamente nel Mar Nero o negli Stretti e quello di proteggere i Cristiani ortodossi nell’Impero Ottomano - disposizione che giustificherà in seguito l’impegno russo nella “Questione d’Oriente” (3). Inoltre, la Crimea viene riconosciuta indipendente, prima della sua annessione di fatto, realizzata da parte della Russia nel 1783. Nove anni più tardi, nel 1792, la firma del Trattato di Jassi sanziona il ritiro definitivo dell’Impero ottomano. La Russia raggiunge le sue frontiere dette “naturali” a sud e si impone come potenza marittima con lo sviluppo, nel 1795, del porto di Odessa (nome attribuito in onore di Omero per l’Odissea) e del porto di Sebastopoli.
Anche se non riuscirà ad impadronirsi di Costantinopoli, come era nelle sue aspirazioni, la Zarina conseguirà, nondimeno, l’obiettivo di porsi agli occhi dell’Europa come la Protettrice dei Cristiani dei Balcani.
Naturalmente orientata verso il continente europeo sul piano diplomatico, la Russia deve anche aprirsi all’Europa sul piano interno. Per Caterina II questa apertura è essenziale per la modernizzazione intellettuale, sociale ed economica del paese. Ma l’impresa non è semplice. Da una parte, la Russia, rimasta ai margini delle grandi correnti di pensiero (umanesimo, rinascimento e riforma) che hanno arricchito l’Europa, fa la figura di un paria sulla scena culturale europea. Dall’altro, la struttura della società russa presenta dei potenti arcaismi. Con la sua nobiltà di servizio docile (4), il suo clero spesso ignorante e la sua massa contadina asservita ed analfabeta, la nazione appare refrattaria ai cambiamenti ed alle evoluzioni e soprattutto ostile a qualsiasi innesto venuto dall’estero.
Caterina II inizia tuttavia un certo numero di riforme. Fra queste lo statuto per l’amministrazione del governo dell’impero. Adottato nel novembre 1775, esso ritaglia nello spazio russo “governi” rappresentanti di unità demografiche di circa 300 mila abitanti: i governatori di queste nuove circoscrizioni esercitano delle funzioni amministrative, finanziarie e militari. Per contro, vengono istituiti tribunali locali, che introducono, in modo molto nuovo in Russia, una separazione netta fra il potere giudiziario ed il potere amministrativo. Allo stesso modo, la riforma dell’insegnamento, adottata nel 1786, mette in opera un sistema primario e secondario gratuito, aperto a tutti, servi eccettuati, ma non ancora obbligatorio. Ma altri tentativi di riforma falliranno come quella del codice delle leggi, lanciato nel 1776. L’imperatrice, ispirandosi allo Spirito delle Leggi di Montesquieu ed al trattato Dei Delitti e delle Pene di Cesare Beccaria (1838-1794), si dichiara favorevole all’uguaglianza di tutti davanti alla legge e proclama il carattere inumano della tortura. Tuttavia i lavori della commissione legislativa vengono sospesi dal 1786, a causa della guerra contro l’impero ottomano.
Nella sua impresa di modernizzazione, Caterina II ricorre a riforme imposte dall’alto dallo stato autocratico alle popolazioni dell’impero. In maniera più originale, la sovrana cerca di inquadrare e di incoraggiare l’apertura del paese all’Europa, attraverso delle misure di sprone che giustificano la sua reputazione di “despota illuminato”. Desiderosa di promuovere una più grande libertà intellettuale, la donna facilita la diffusione delle idee venute dall’Ovest, creando, nel 1768, un fondo speciale incaricato della traduzione delle opere letterarie e scientifiche europee. La sovrana favorisce ugualmente l’insediamento in Russia di artisti europei, come Giacomo Antonio Quarenghi (1744-1817) ed altri, impregnati di cultura neoclassica ed incaricati di orchestrare il rinnovamento architettonico di San Pietroburgo. Infine, l’imperatrice manterrà una fitta corrispondenza con Diderot, Voltaire ed altri, come Friederich Melchior von Grimm (1723-1807), che evidenzia un interesse sincero per l’Europa dei Lumi e vuole allo stesso tempo dimostrare lo spirito europeo di una Russia moderna, aperta e colta, in piena rottura con l’eredità “barbara” del XVI e XVII secolo.
Tuttavia, agli occhi dell’imperatrice, l’apertura intellettuale ed artistica del paese deve, per essere efficace, essere sostituita da una aristocrazia colta, attiva ed intraprendente. Ebbene la nobiltà russa, da troppo tempo privata di ogni spirito di iniziativa, non è in condizioni di giocare questo ruolo. Conviene pertanto, anche in questo caso, ricorrere a misure di sprone e ad “innesti europei”. Ispirandosi a scrittori di economia liberale, come Adam Smith (1723-1790) e alla prassi di governo inglese, l’imperatrice moltiplica gli incoraggiamenti all’iniziativa privata. La sovrana crea la Società economica libera per aiutare i proprietari a modernizzare l’agricoltura e proclama un Ukase (editto), nell’ottobre 1762, che toglie i monopoli sulle attività industriali e commerciali ed autorizza ogni individuo ad “intraprendere”. Questo provvedimento consente a migliaia di contadini di stato di lanciarsi nella produzione artigianale del tessile, del cuoio e della ceramica.
Caterina, pur ponendosi nel solco e nella continuità dell’opera di Pietro I il Grande, se ne discosta su dei punti essenziali, come il liberalismo economico o la tolleranza religiosa … Ostinata e decisa, la donna viene consigliata e sostenuta in tutte le sue imprese politiche dal principe di Tauride, Grigorj Aleksandrovic Potemkin, uomo chiave del regno, incontrato nel 1774, di cui la sovrana farà il primo governatore generale della Nuova Russia. Ma la morte del Potemkin, nel 1791, darà rapidamente luogo ad intrighi e ad avventure sfrenate che arricchiranno la “leggenda nera” della Zarina.
Dopo aver saputo utilizzare al meglio l’ambizione dei suoi numerosi amanti, Caterina, alla fine della sua vita, si lascerà però circuire da un misero e losco figuro, il generale Nikolaj Aleksandrovič Zubov (1763-1805). Si racconta di questo personaggio che fosse talmente onusto di decorazioni, tanto che nelle cerimonie ufficiali egli assomigliasse piuttosto a “un mercante di nastrini e di chincaglierie”. Eppure quella donna, che, almeno sino a quel momento, aveva coniugato così bene “il fascino di Cleopatra con l’anima di Bruto”, non si era mai fatta condurre in politica dalla sua straripante e divorante sensualità e soprattutto non aveva mai condiviso con alcuno il suo potere assoluto. In effetti, la Zarina si farà convincere dall’ultimo amante ad intraprendere una rischiosa e dispendiosa spedizione contro la Persia, che verrà poi molto opportunamente sospesa solo in seguito della sua morte.
Che bilancio trarre dall’opera di Caterina II ? Conviene innanzitutto non esagerare l’ampiezza o la profondità delle riforme intraprese sotto il suo regno. Le basi autocratiche dello stato non sono mai state messe in discussione; non è stata mai presa in considerazione una eventuale evoluzione costituzionale in Russia ed i rari movimenti che hanno cercato di scuotere la tutela autocratica sono stati repressi in maniera esemplare ed implacabile. Questo è il caso dell’insurrezione di Emeljan Ivanovic Pugacev (1742-1775) (5), un personaggio illuminato che si fa passare, tra l’altro, per lo Zar Pietro III, miracolosamente sfuggito agli assassini.
In più, i valori di tolleranza e di apertura propugnati nella prima metà del regno hanno avuto la tendenza ad esaurirsi a partire dagli anni 1780. Questo indurimento si spiega con la paura dell’imperatrice di vedere la Russia “contaminata” dalle idee della Rivoluzione Francese, che la spaventavano e che le faranno scrivere al von Grimm, nel 1793: “l’uguaglianza è un mostro”.
D’altra parte, se Caterina II ha indubbiamente tentato di promuovere una riflessione sul servaggio della gleba, molto rapidamente l’ostilità ostinata e feroce della nobiltà a qualsiasi evoluzione della condizione dei servi, l’hanno dissuasa. Il bilancio sociale e politico della sua azione non risponde pertanto agli obiettivi previsti dai progetti iniziali. Ma l’apertura intellettuale e culturale della Russia all’Europa, reale e di lunga durata, ha nettamente contribuito alla nascita di una nuova identità russa.

NOTE

(1) I Vecchi Credenti o Starovieri, sono gli ortodossi russi che sotto la guida dell’arciprete Avvakum hanno rifiutato di applicare le riforme liturgiche imposte dal patriarca Nikon (Nikita Mínov o Nikita Minin) a partire dal 1652-53. Essi furono scomunicati nel 1667 ed Avvakum, bruciato vivo nel 1682;
(2) Ivan VI Romanov, nipote dell’imperatrice Anna Ivanovna (1693-1740), viene proclamato zar nel 1740 all’età di 2 mesi. Rovesciato da un colpo di stato nel dicembre 1741 a vantaggio di Elisabetta 1^ Petrovna, egli viene imprigionato nella fortezza di Schlusselburg, dove viene assassinato nel 1764;
(3) La “Questione d’Oriente” evoca l’insieme dei problemi che, a partire dal 1850 e fino alla 1^ Guerra Mondiale, nasceranno dal declino dell’Impero ottomano;
(4) A partire dal 1722, la tabella dei ranghi (il Tchin) sottomette i nobili russi ad un obbligo di servizio perpetuo, che condizionava il loro posto nella gerarchia sociale;
(5) Pugacev, cosacco del Don, scatena, nel settembre 1773, un vasto movimento di protesta contadina chiamato Guerra dei contadini o Ribellione dei Cosacchi, in Russia. Egli dichiara di voler liberare il popolo russo dal giogo del servaggio e di riproporsi l’intenzione di “sbarazzarsi” della “tedesca”. L’estrema ferocia della rivolta convince la Zarina ad impiegare l’Esercito ed alla fine Pugacev, abbandonato dai suoi principali gregari, viene catturato e quindi giustiziato. Egli sarà decapitato a Mosca nel 1775.

 

Copyright © 2013. www.iacopi.org  Rights Reserved.