facebook
^Torna sù

  • 1 www.iacopi.org
    IACOPI o JACOPI: una serie di antiche famiglie originarie della TOSCANA
  • 2 Iacopi - Jacopi
    Un cognome molto raro con (alle spalle) una storia importante !
  • 3 RICERCHE E STUDI
    Alla ricerca delle origini e della storia degli IACOPI. Sito interamente creato grazie alla ricerca e agli studi.
  • 4 AIUTI GRADITI
    Essendo ricerche storiche molto complesse è possibile vi sia qualche errore. Nel caso riscontriate delle imprecisioni vi prego di comunicarlo a maxtrimurti@gmail.com
  • 5 Benvenuto
    Buona navigazione.

IACOPI DISCENDENZE E STORIA

Una vita di ricerche per conoscere chi sono.

  

Perchè Francesco è andato a Damietta?

PERCHE’ FRANCESCO E’ ANDATO A DAMIETTA ?

(stampato sul Bollettino SUBASIO di Assisi n. 3/16 del settembre 2008)

Nel 1219, in piena crociata, Francesco d’Assisi parte per l’Oriente per incontrare il Sultano d’Egitto a Damietta. Una visita che, dopo 8 secoli, alimenta ancora i fantasmi dell’Occidente.

Qualche giorno dopo l’attentato dell’11 settembre 2001, mentre i vescovi sono riuniti in Vaticano, il ministro generale dei Francescani sollecita ad essere presenti nei luoghi di tensione, “ad immagine di Francesco d’Assisi che, disarmato, incontra il Sultano Malik al Kamil e riesce a dialogare con lui, mentre gli eserciti dei crociati di tutta l’Europa non pensano che a vincere il nemico”. In pieno smarrimento geopolitico mondiale, una storia esemplare e plastica come quella di Francesco poteva nuovamente tornare di un certo interesse ed utilità.

Che dicono i fatti ? Nel settembre 1219, in occasione della 5^ Crociata, Francesco d’Assisi, il fondatore dei Francescani, all’età di 37 anni, parte alla volta dell’Egitto per incontrare il Sultano Malik al Kamil. I Crociati sono in Terra Santa da più di un anno. Essi tentano, inchiodati fra il Mediterraneo ed un braccio del Nilo, di conquistare Damietta, una città difesa con accanimento e con successo dall’esercito egiziano. Il Sultano propone allora di negoziare: egli si dice pronto a restituire Gerusalemme in cambio della partenza dei Crociati dall’Egitto e questi ultimi sono divisi sul da farsi.

E’ dunque in questo contesto che Francesco attraversa le linee nemiche per andare a parlare al Sultano Malik. Egli riesce nell’intento e rientra qualche giorno più tardi nel campo degli assedianti. Nessun testo arabo descrive questo incontro. Per contro, in Occidente, l’evento suscita numerosi racconti ed alimenta le più diverse interpretazioni.

Il Vescovo di Acri, Giacomo da Vitry, presente sul luogo, ricorda nella sua “Histoire de l’Occident”, verso il 1225, come Francesco, preso come “da una ebbrezza ed un fervore spirituale inauditi”, parte per il campo del Sultano per tentare di convertirlo al Cristianesimo. Il capo mussulmano, alla fine dell’incontro, dà l’ordine di riportare Francesco nel campo nemico, chiedendogli di pregare per lui affinché Dio gli riveli “la legge e la fede che gli piacciono di più”. Giacomo da Vitry si mostra abbastanza scettico circa questa soluzione, anche se più tardi loderà l’intrepidezza del santo.

E’ probabile che Francesco abbia concepito questa visita al Sultano come facente parte della sua missione di evangelizzazione. La missione presso i  Mussulmani risulta importante presso i Francescani. Nel gennaio 1220, cinque fra di loro cercano il martirio a Marrakesh e finiscono per ottenerlo, dopo ripetute provocazioni. Lo stesso santo, nel 1221, invia senza esitare i suoi fratelli presso dei mussulmani come “delle pecorelle nel mezzo dei lupi”. Nel 1226 il Papa calma gli spiriti: egli chiede ai fratelli di Francesco di convertire gli infedeli, ma anche di pensare alle necessità dei cristiani che vivono nel Marocco; in poche parole di essere più … discreti !

Ma non è certo la discrezione che cercano gli agiografi di Francesco, per i quali l’incontro di Damietta è una sfida, una scommessa capitale. Tommaso da Celano, l’autore di una vita ufficiale del santo, comandata dal Papa nel 1228, insiste sulla “grande sete di martirio” che animava Francesco.

Verso il 1260 S. Bonaventura da Bagnorea, Ministro Generale dell’Ordine Francescano, impone una nuova “Vita di S. Francesco”. A proposito dell’incontro, egli aggiunge un elemento narrativo: per provare la verità del Cristianesimo, Francesco propone, come prova, di attraversare le fiamme di un fuoco insieme ai “preti” saraceni. Questi rifiutano la prova ed il Sultano non permette che Francesco affronti da solo le fiamme. Questo episodio spettacolare viene ripreso da Giotto nei suoi affreschi della Basilica superiore di Assisi.

Si tratta in questo caso di una vera e propria “ordalia”, di un giudizio per mezzo del fuoco, peraltro già interdetto dal Concilio del Laterano del 1215 ! In effetti si sarebbe portati ad interpretare il fatto narrato piuttosto come un “rilancio” ed una mitizzazione dell’evento da parte di Bonaventura, da utilizzare come contraltare ad un analogo episodio della vita di S. Domenico, il fondatore dei Frati Predicatori, un ordine amico, ma anche concorrente, dei Francescani.

Durante l’inverno 1207-08 Domenico ha una disputa a Prouille, vicino a Carcassonne, con dei Catari e consegna ad uno dei suoi contraddittori un foglio che riporta le sue argomentazioni teologiche. La sera il cataro getta il foglio nel fuoco, a titolo d’ordalia, e questo invece di bruciare rimane intatto. Per Bonaventura, nell’episodio di Damietta, è invece lo stesso Francesco che, con il suo corpo, incarna l’ortodossia cristiana.

Alla fine del Medioevo, l’episodio di Damietta si inserisce anche nelle lotte che oppongono i Francescani “conventuali”, sottomessi alla gerarchia dell’Ordine e gli “spirituali”, che propugnano una ascesi rude ed un rifiuto di ogni bene terreno (specie la proprietà). Il frate spirituale Angelo Clareno, che scrive nel 1326, ammira la predicazione efficace di Francesco, che il Sultano invita persino a visitare Gerusalemme. Ma egli sottolinea anche che il suo viaggio consente al diavolo di insinuarsi nell’ordine francescano. In altri termini egli vuol dire che il viaggio di Francesco ha lasciato il campo libero ai fratelli che desideravano tradire l’ideale di povertà evangelica tanto caro al santo. Ugolino da Montegiorgio, verso il 1330, va anche più lontano, nei famosi “Fioretti”: il Sultano accorda a Francesco il diritto di predicare nel suo regno e promette di convertirsi. Il santo appare dopo la sua morte a due francescani, ai quali ordina di andare a battezzare il Sultano. Ugolino “trasforma in tal modo”, per usare le parole di John Tolan (1), “una storia ambigua in una vittoria totale”.

Nel 15° secolo, di fronte alla minaccia turca, l’accento viene posto sulla ostilità del Sultano: i Mori, impermeabili alla parola, devono essere combattuti con le armi. I Protestanti si impadroniscono presto dell’episodio: il luterano Erasmo Albert se la ride, nell’”Alcoran dei Cordelieri” del 1542, a proposito della presunta conversione miracolosa del Sultano. I Gesuiti però contrattaccano, dedicando a S. Francesco una cappella nella loro Chiesa del Gesù a Roma.

Tutto cambia di nuovo nel secolo dell’Illuminismo. Voltaire vede nel Sultano un uomo “che passava per essere un amante delle leggi, della scienza ed il riposo e la pace più che la guerra”. Per lui, il fanatico sarebbe proprio S. Francesco, preso dal desiderio insano del martirio, che, peraltro, il Sultano giudica non pericoloso e che rimanda indietro con “bontà”.

I Francescani, da parte loro, da 800 anni, non hanno smesso di decantare il viaggio in Oriente del loro santo fondatore, per legittimare il fatto che è stata loro affidata la Custodia dei Luoghi Santi. Con questa logica si arriverà nel 19° secolo, per esempio con lo storico francese della crociate Joseph François Michaud, addirittura a considerare S. Francesco come il precursore della missione “civilizzatrice” del movimento coloniale.

Per altri storici, al contrario, l’uomo che parlava agli uccelli, diviene l’apostolo della pace e l’oppositore della Crociata armata (2). Tuttavia secondo lo storico Franco Cardini, che ha probabilmente ragione, crociate e missione evangelizzatrice possono tranquillamente coesistere. Rimane comunque il fatto, storicamente provato, che Francesco non ha mai apertamente espresso dissenso con l’idea della “guerra santa”.

In definitiva l’incontro di Damietta è diventato nel corso dei secoli un “luogo della memoria”, dal quale non si finisce mai di trarre utili ammaestramenti ed esempi ad uso del mondo contemporaneo.

NOTE

(1) Tolan John, “Il Santo presso il Sultano. L’incontro di Francesco d’Assisi e dell’Islam”, Seuil, 2007;

(2) L’ipotesi viene ripresa, oltre che dal Tolan anche da alcuni storici come Stephen Runciman, James Powell o Chiara Frugoni.

Perchè i turchi hanno conquistato Bisanzio

PERCHE’ I TURCHI HANNO CONQUISTATO BISANZIO

(Pubblicato su Impero Romano d’Oriente - dicembre 2007)

 

 

La caduta dell’impero bizantino, il 29 maggio 1453, viene spesso vista come il simbolo della vittoria dell’Islam sulla Cristianità. Eppure al di là di una evidente frattura col passato, in questo caso ha il sopravvento anche una continuità imperiale.

Il 29 maggio 1453, giorno dell’ingresso dei Turchi a Costantinopoli, viene considerata come una della date che hanno fatto passare il mondo medievale nell’era moderna. Per quelli che l’hanno vissuta, si è trattato in primo luogo della fine di un mondo, quello dell’Impero Romano.

Nato dalla città di Roma ed estesosi sulla quasi totalità del mondo conosciuto dell’Antichità, L’Impero Romano, muore in un'altra capitale, la cui nascita nel 330, la cui nascita aveva già segnato, per alcuni storici, il passaggio dall’Antichità al Medioevo. La sua eccezionale longevità si era ripartita fra Roma, dal -753 (data convenzionale della fondazione di Roma) al 330 e Costantinopoli dal 330 al 1453. Vale a dire, rispettivamente, 1423 e 1123 anni !!

La città, più che millenaria, aveva in precedenza subito l’assalto di tutti i nemici dell’Impero: Goti, Avari, Persiani, Bulgari e Arabi. Ogni volta Costantinopoli aveva saputo respingere i suoi nemici, grazie a due elementi fondamentali: la sua ricchezza, che era sempre trasformata in mezzo di corruzione o di civilizzazione per domare i suoi avversari e la solidità delle sue difese. Ma nel 15° secolo questi due elementi di forza di Bisanzio appartenevano già al passato ormai remoto: le casse erano sistematicamente vuote e la comparsa dell’artiglieria rendeva le difese della città definitivamente obsolete.

I territori dell’impero erano stati perduti uno dopo l’altro, a vantaggio principalmente di due avversari che si accanivano su di essa da quasi quattro secoli: i Turchi ed i Crociati. In effetti pochi storici mettono in evidenza che nel 1071, la sconfitta dell’Imperatore Romano 4° Diogene, nella battaglia di Manzikert (o Manziscerta), aveva aperto ai Turchi le porte dell’Anatolia, mentre l’impero perdeva nello stesso anno anche le città di Bari e di Brindisi, gli ultimi avamposti bizantini in Italia. Fatto questo che determinerà l’invasione dei Normanni in Balcania, seguita ben presto dalle Crociate. Si è molto spesso portati a dimenticare che la prima conquista di Costantinopoli, quella che aveva portato un colpo terribile e fatale allo splendore della città, era stata realizzata dai cavalieri franchi della 4^ Crociata.

In definitiva Bisanzio, “miscredente” per i Turchi, zelanti neofiti dell’Islam ed “eretica” per i Franchi, ovvero per l’Europa Cattolica - separata dalla Chiesa Orientale dopo lo Scisma del 1054 - era l’oggetto di una duplice concupiscenza.

In questa corsa, gli Occidentali avevano preso una buona lunghezza d’anticipo, occupando Costantinopoli per 57 anni, dal 1204 al 1261 e spartendosi la quasi totalità dei suoi territori europei ed insulari dell’Impero. Ma in realtà la potenza marittima ed il potere economico e finanziario di Venezia e di Genova sono stati, nel lungo periodo, un elemento molto più determinante sull’inesorabile declino di Bisanzio, rispetto alla forza militare dei Turchi.

In effetti gli Ottomani non erano che uno dei principati turkmeni nati dalla dissoluzione dello stato turco Selgiuchide d’Anatolia alla fine del 13° secolo. In effetti essi era ben lungi dall’essere fra i più forti. Se hanno potuto prosperare verso un tale avvenire, mentre gli altri si spossavano in lotte fratricide e dovuto al fatto che essi si sono trovati di fronte una preda resa vulnerabile dagli eventi della 4^ Crociata e dalle manomissioni economiche di Venezia e Genova.

In questo contesto, l’immagine più forte che ha lasciato alla posterità la giornata del 29 maggio 1453, quale quella della vittoria dell’Islam sulla Cristianità dovrebbe per certi aspetti essere riconsiderata. Primo perché abbiamo visto che non si trattava più di una ma di due cristianità che si trascinavano un pesante contenzioso di reciproca ostilità. Sarebbe d’altronde molto difficile affermare che l’Occidente Cristiano avrebbe potuto sostituirsi alla Bisanzio in crisi nella lotta contro il turco, proprio per il fatto che aveva contribuito a questa crisi allo stesso modo dei Turchi. Infine i rapporti dei tre protagonisti dell’atto finale erano decisamente molto più complessi di quello che lasciano immaginare le loro rispettive posizioni dogmatiche.

Per il Papa, che si considerava come il capo dell’Europa cristiana, l’estrema debolezza di Bisanzio offriva l’occasione di realizzare l’unione delle Chiese, intesa come un atto di sottomissione della Chiesa orientale. Il corollario di questa riconciliazione doveva essere una assistenza militare materializzata da una crociata contro i Turchi. Ma il Papa era incapace di coordinare un tale tipo di assistenza militare a causa delle ostilità permanenti fra i gli stati cristiani e per la loro reticenza ad assumersi l’onere finanziario di una crociata e per di più perdere i vantaggi del commercio con i territori ottomani.

L’Imperatore bizantino Giovanni 8° (1390-1448) si vede pertanto rassegnato ad “recarsi a Canossa”, e sottomettersi al Papato, partecipando al Concilio di Ferrara (poi Firenze). Ma la gerarchia della Chiesa ortodossa ripugnava all’idea di essere posta sotto la tutela di Roma. L’accordo sull’unione delle Chiese fu nondimeno firmato da Giovanni 8° e dai prelati del suo seguito nel 1439 a Firenze. Ma già dal ritorno della delegazione, la maggior parte dei signatari sono costretti dissociarsi per il fatto che il clero e la popolazione si rifiutavano di applicare l’accordo. Quanto ai rinforzi promessi dal Papa essi tardavano ad arrivare. I soli ad ingaggiarsi nel conflitto sono invece gli Ungheresi, peraltro battuti per due volte dal Sultano ottomano Murad 2°, nel 1444 a Varna e nel 1448 nel Kossovo.

Da parte turca, il probabile riavvicinamento delle chiese mette in evidenza l’urgenza di impossessarsi rapidamente di Costantinopoli, crocevia delle vie marittime del commercio, prima di un possibile intervento degli Occidentali.

Nel 1448 Giovanni 8° muore e viene sostituito da suo fratello Costantino 11°, mentre nel 1451 Maometto 2°, succede a 21 anni a suo padre sul trono ottomano. Molti storici hanno molto indagato sul carattere del giovane sovrano per spiegare la decisione di venire a capo con Costantinopoli, presa a quanto sembra dal momento del suo avvento al trono. I dati appaiono tuttavia abbastanza semplici: l’esperienza aveva mostrato che gli Ottomani erano capaci di arrestare un intervento europeo per via terrestre, attraverso i Balcani. Restava solamente la via marittima, dove gli Occidentali si trovavano in posizione di preminenza ed è proprio in questa direzione che il Sultano consacra i suoi sforzi, assumendosi un rischio calcolato.

Tenuto conto della inferiorità dei Turchi sul mare, il loro solo modo di impedire l’arrivo di rinforzi consisteva nel fortificare gli Stretti, vale a dire il Bosforo ed i Dardanelli. In tal modo a partire dall’inizio dell’anno 1452, Maometto 2° inizia la costruzione di una fortificazione sulla riva europea del Bosforo (Rumeli Hisari), nel punto in cui il canale presenta una larghezza di 700 metri e di fronte ad un piccolo forte costruito dal suo antenato Beyazid 1° nel 1396.

Ci si potrebbe stupire di questa iniziativa che consisteva a sbarrare il Bosforo, attraverso il quale i rinforzi potevano arrivare solo dai possedimenti genovesi e veneziani nel Mar Nero, lasciando per contro i Dardanelli aperti sul Mediterraneo (i forti di questo lato saranno costruiti solamente dopo il 1460). Ma appare opportuno ricordare che il controllo degli stretti non dipendeva tanto dai forti, ma piuttosto dalla portata dei cannoni che vi si piazzavano. Si arriva pertanto alla conclusione che Costantinopoli è stata conquistata nel momento in cui la tecnica rende va possibile questo successo. Mentre l’artiglieria a disposizione di Maometto 2° non gli consentiva ancora di chiudere i Dardanelli, il Sultano sceglie di scommettere sulla lentezza dei preparativi di Genova e Venezia. Tenendo conto anche di problemi tecnici: una flotta non diviene operativa prima di qualche settimana, la pesantezza dei meccanismi di decisione di questi stati repubblicani ed i loro mutui dissensi, tutti questi fattori rendevano credibile un ritardo nell’intervento occidentale, l’unica ipotesi possibile era quella di una azione potente e rapida.

In tal modo, dopo aver rinnovato il trattato di pace con Venezia, il Sultano dà inizio, il 26 marzo 1452, alla costruzione della fortezza sul Bosforo, terminata nell’agosto seguente. Ma occorrerà tutto l’inverno seguente per preparare i grandi cannoni che potranno abbattere le mura della città. A tal fine viene ingaggiato un tale Urbano, sassone di Transilvania, per fabbricare ad Adrianopoli (Edirne), capitale ottomana dell’epoca, un pezzo capace di lanciare proiettili di 400 chilogrammi.

Nel frattempo Roma decide di inviare a Costantinopoli un prelato bizantino uniate, nominato cardinale, Isidoro di Kiev, con l’ingiunzione di proclamare definitivamente l’unione delle Chiese. Questo evento avviene il 13 dicembre 1452 a Santa Sofia, alla presenza dell’Imperatore, ma con l’assenza del Patriarca unionista Teodoro 3°, in esilio a Roma, impedito di rientrare a Bisanzio dai suoi fedeli. Il Granduca Lucas Notaras, il secondo personaggio dell’Impero ed il futuro Patriarca Gennadios Scholarios, saranno, anch’essi, ostensibilmente assenti.

In realtà, questa proclamazione dell’unione delle chiese, invece di calmare i dissensi, contribuisce ad accentuarli. Ed è probabilmente per questa ragione che nessun rinforzo giungerà a Bisanzio dagli ultimi possedimenti del Peloponneso, che si trovavano nelle mani dei fratelli dell’Imperatore.

L’esercito ottomano si mette in marcia nel marzo 1453 da Edirne. Il grande cannone, che pesava diverse decine di tonnellate, era trainato da 30 paia di buoi, a loro volta guidati da circa 200 persone. L’assedio ha inizio il 5 aprile per una durata di 55 giorni; operazione rapidamente condotta, conforme con i calcoli previsti dal sovrano. In effetti se il Senato veneziano decide a metà di febbraio di armare delle galere, solo il 9 marzo voterà i primi crediti e un comandante viene nominato solo il 7 maggio 1453. Conclusione: la flotta veneziana di soccorso riceve la ferale notizia della caduta della città al suo arrivo nell’isola di Eubea (Negroponte).

L’importanza dell’evento potrebbe far supporre un combattimento fra titani, implicando un gran numero di belligeranti e gli autori dell’epoca non mancano di esercitarsi nelle iperboli. Ma una comparazione delle fonti consente di pervenire a delle cifre verosimilmente e relativamente modeste.

Dal lato degli assediati Georges Sphranztzes, ultimo grande Logoteta (Ministro delle Finanze) dell’impero, incaricato di presentare una memoria sugli uomini della città idonei a portare armi, annota la cifra esatta di 4773 persone. Il commerciante fiorentino Jacopo Tedaldi fornisce da parte sua la cifra di 6-7 mila persone e si può legittimamente pensare che la differenza è dovuta agli ausiliari presi in considerazione nella seconda stima. Queste cifre sono coerenti con l’insieme della popolazione, che i contemporanei valutano fra le 37 ed i 42 mila persone, se si calcola che la metà della popolazione è rappresentata dalle donne e che nell’altra metà almeno un terzo era troppo giovane ed un altro terzo era troppo vecchio per combattere.

A questi dati vanno aggiunti circa 2 mila combattenti stranieri, soprattutto Genovesi e Veneziani, come anche molti Catalani. Il più grande contingente di questi stranieri era composto da 700 uomini arrivati in gennaio con il mercenario Giovanni Giustiniani Longo, al quale l’imperatore affida la difesa promettendogli in appannaggio l’isola di Lemnos. Altri duecento uomini arrivano con il cardinale Isidoro. Il resto rimane per la gran parte fornito dalle colonie di cittadini occidentali della città, sotto la direzione dei loro rispettivi consoli, ad eccezione della colonia genovese di Pera, sulla riva nord del Corno d’Oro, che proclama la sua neutralità e si contenta di rimanere osservatore dell’assedio.

Queste cifre sono straordinariamente deboli per una città, il cui giro delle mura raggiunge i 20 chilometri. Se la totalità dei difensori avesse potuto essere disposta in linea sugli spalti ci sarebbe stato un uomo ogni 2 – 3 metri !!.

Il numero degli assedianti risulta molto più difficile da stimare, dal momento che i cronisti ottomani non hanno fornito cifre precise. Il veneziano Nicolò Barbaro, che ci ha lasciato il racconto più dettagliato e più verosimile dell’assedio, riporta un totale di 160 mila persone. Questo è il dato minore che appare comunque verosimile. Il totale, a sua volta, deve essere scomposto fra soldati regolari - fra i quali 15 mila giannizzeri, fanteria d’elite armata di fucile - ed ausiliari, ai quali vanno aggiunti i dervisci e dei religiosi.

Questi ultimi sono in effetti venuti ad assistere in gran numero ad un avvenimento predetto da sette secoli dalla tradizione mussulmana, come annunciatore della fine del mondo. La stessa tradizione affermava che la caduta della città sarebbe stata provocata dalle preghiere dei credenti, più che per effetto delle armi. Ed in effetti le testimonianze degli assediati ci mostrano i difensori più spaventati dal tumulto delle invocazioni delle decine di migliaia di bocche, che dal rombo del cannone.

L’assedio si svolge quasi senza sorprese e colpi di scena. Ognuno tiene gagliardamente il proprio ruolo. Tuttavia un avvenimento mette in evidenza che una spedizione marittima occidentale, anche se limitata, avrebbe potuto cambiare il corso delle cose: il 20 aprile 1453, quattro navi (tre genovesi ed una bizantina), cariche d’armi e di provviste, raggiungono la città. La flotta ottomana, composta di una dozzina di galere e da 70-90 biremi (galere antiche a due file di remi), cercherà invano di intercettarle. Dopo un combattimento di diverse ore, gli alleati bizantini riescono a superare la catena che sbarra l’accesso al Corno d’Oro ed a rifugiarsi nel porto.

Per vendicare questo affronto, Maometto 2°, furioso, tenta due giorni più tardi l’impresa più spettacolare di tutto l’assedio. Durante la notte 72 biremi, spinte a forza di braccia su dei tronchi di legno ingrassati, vengono spostate su terra dal Bosforo al Corno d’Oro, per 4,5 chilometri ed un dislivello di 70 metri, passando di dietro al quartiere genovese di Galata. I Genovesi accuseranno i Veneziani di aver suggerito al Sultano lo stratagemma che essi avevano già utilizzato nel 1438 per far passare le loro navi dall’Adige al Lago di Garda. Da parte loro i Veneziani sosterranno che i Genovesi avevano avvertito Maometto 2° delle loro intenzioni di incendiare la flotta turca una volta che questa fosse entrata nel Corno d’Oro.

Comunque sia, non è stata certamente la discesa di queste navi nel Corno d’Oro che ha deciso la sorte dell’assedio e non lo sarà neanche il ponte fatto da botti di legno, legate le une alle altre, gettato sul Corno d’Oro il 19 maggio 1453, per condurre gli assedianti ai piedi delle mura marittime della città. Così come non lo sono stati tutti i mezzi tradizionali messi in opera nell’assedio. Sette mine scavate sotto le mura terrestri erano state neutralizzate, grazie all’abilità di Johannes Gant o Grant, un artificiere tedesco. Allo stesso modo una grande torre fabbricata in una notte il 18 maggio era stata distrutta.

In fin dei conti, la città verrà presa grazie alla grossa bombarda di Urban, che con 100-120 tiri al giorno finisce per ridurre le mura ad un ammasso di rovine nei pressi della Porta di S. Romano. Gli assediati si sforzarono, ad ogni tiro, di riparare i danni, ma ad un certo momento non saranno più in grado di farlo ed a questo punto gli assedianti non dovranno fare altro che attraversare un mucchio di pietre per entrare in città.

In occasione dell’assalto finale deciso per l’alba del 29 maggio, Maometto 2° arringa i suoi soldati. “La terra e le costruzioni, le armi e gli strumenti militari mi appartengono. Tutto il resto, beni e ricchezze, prigionieri, abiti, cibo, sarà bottino per i combattenti”. L’annuncio non aveva nulla di eccezionale, né di improvvisato. La città aveva rifiutato di capitolare e nessuna tregua o resa poteva essere firmata, si trattava pertanto di un diritto di conquista. Un diritto che implicava anche la messa in schiavitù degli abitanti.

Una volta aperta la breccia, la schiacciante differenza numerica fra assediati e assedianti produce i suoi effetti e la città viene sommersa già dalle prime ore del mattino. L’Imperatore muore da semplice combattente ed il suo corpo sarà identificato solo più tardi. Il genovese Giovanni Giustiniani, ferito all’inizio dell’assalto, si rifugia nella sua nave e fa vela verso l’isola di Chio. I Veneziani l’accuseranno di aver abbandonato il suo posto senza ragione, causando in tal modo lo sbandamento. La sua morte a Chio, a seguito della ferita riportata, basta da sola a smentire le accuse. In una maniera generale, gli Occidentali che riusciranno a raggiungere le loro imbarcazioni, potranno salvarsi, mentre la maggior parte dei dignitari bizantini morirà in combattimento e la popolazione verrà messa in schiavitù.

Come evidenziato dalla storiografia, la maggior parte dei testi di fonte occidentale che raccontano la conquista della città, tende al genere dell’esortazione, nel tentativo di suscitare la reazione dell’Europa cristiana e si sofferma lungamente sulla relazione sugli orrori e sul bagno di sangue seguito alla conquista. Tuttavia una volta spezzata la resistenza armata, gli assedianti ebbero il massimo interesse a conservare in vita gli abitanti, al fine di scambiarli contro taglia o di venderli sul mercato degli schiavi.

In effetti secondo le fonti disponibili ed in particolare Michele Dukas, ultimo grande storico bizantino e Kritovulos d’Imblos, il cronista greco di Maometto, forniscono una cifra dei morti fra le 2 mila e 3 mila unità. Se si toglie poi il fatto che qualche centinaio di persone può aver trovato la salvezza sui battelli, ne consegue che tutto il resto della popolazione deve essere stato fatto prigioniero.

Maometto fa la sua entrata nel pomeriggio del 19 maggio 1453 e si dirige direttamente in S. Sofia. La chiesa, sommariamente spogliata dai suoi attributi cristiani (i suoi mosaici erano ancora visibili agli inizi del 18° secolo) accoglie la prima preghiera del venerdì 1° giugno, essendo nondimeno la sola chiesa cristiana trasformata in moschea nei primi anni della conquista.

Alla fine del terzo giorno di saccheggio il Sultano chiede a tutti quelli che erano ancora nascosti di uscire allo scoperto in cambio della libertà e dispone che la sua parte di prigionieri (il quinto del totale) venga sistemata ai bordi del Corno d’Oro. Il resto dei prigionieri viene condotto per la vendita nei luoghi più sperduti dell’Impero ottomano, lasciando la città per la gran parte priva dei suoi abitanti.

Determinato nel fare della città la sua nuova capitale, Maometto si preoccupa di ripopolarla attraverso uno spostamento forzato di persone dall’insieme delle province dell’Impero. Allo stesso tempo il Sultano ritiene saggio appoggiarsi sugli elementi anti-unionisti della Chiesa ortodossa per contrare ogni possibilità di alleanza dei suoi nuovi sudditi con l’Occidente. In tal modo il loro capofila Gennadios Scholarios viene consacrato Patriarca ed intronizzato da Maometto 2° il 6 gennaio 1454 a Costantinopoli.

A seguito della fase più attiva del ripopolamento, un censimento del 1477 ci fornisce la cifra di 60 mila abitanti, vale a dire una volte e mezzo superiore alla popolazione prima dell’assedio. Fra questi, il 42% erano non mussulmani: Greci, Ebrei, Armeni, fatto che dimostra che nell’opera di ripopolamento nulla era stato lasciato al caso, e che esisteva l’intenzione di ricreare una entità multireligiosa. Anche se l’elemento mussulmano risultava dominante l’Istambul ottomana era diventata una città multirazziale, come e più della capitale bizantina.

Maometto 2° alla sua morte, nel 1481, lascia un impero i cui limiti erano quasi identici a quelli di Bisanzio prima dell’arrivo sulla scena dei Turchi. I suoi successori lo porteranno alla misura dell’Impero di Giustiniano, con in meno l’Italia e la Spagna, ma con l’Arabia e la Mesopotamia in più.

Una visione serena e distaccata, avulsa comunque da considerazioni di parte, ci fornirebbe la visione di uno stesso spazio geografico, con lo stesso contenuto umano, passato dal potere della lingua greca e della religione cristiana verso un altro poyere di lingua turca e di religione mussulmana sunnita, entrambi centrati su Costantinopoli – Istambul, la città eterna che conserva la sua importanza ed il suo splendore in un contesto imperiale. La data del 29 maggio 1453, in tale logica, più che una frattura col il passato, potrebbe rappresentare piuttosto la continuità di una idea imperiale.

BIBLIOGRAFIA

Babinger F., Maometto il Conquistatore ed il suo tempo, tradotto dal tedesco da Mannheim W.C., Princeton, 1978

Lewis B., Istanbul e la civiltà ottomana, Lattes, 1990

Mantran. R., Storia dell’Impero Ottomano, Fayard, 1989

Povertà e carità nel medioevo

POVERTA’ e CARITA’ NEL MEDIOEVO

 

(Stampato su “SUBASIO” n. 1/15 del marzo 2007, Bollettino trimestrale dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi)

 

Il dovere della carità nei confronti dei poveri, presenta nel medioevo molteplici aspetti e la stessa definizione di povero ha subito nel corso del tempo delle significative evoluzioni.

Tolomeo 3° d’Egitto venne soprannominato l’Evergeta (il Benefattore) per la qualità del suo buon governo e la fama di questo sovrano si era talmente diffusa nell’immaginario collettivo del mondo greco ed ellenistico, tanto da rappresentare, per tutti i monarchi e non dell’epoca, un modello comportamentale di riferimento, detto anche Evergetismo. Infatti l’Evergeta era colui che metteva in atto una pratica sociale, consistente nel distribuire una parte della sua fortuna a vantaggio della collettività, favorendo lavori pubblici, consentendo il rifornimento della città e la sua promozione ed aiutando ad onorare gli Dei attraverso feste o costruzione di templi. Chi praticava l’Evergetismo sperava, in cambio, di godere della considerazione dei propri concittadini e di continuare ad essere onorato nel tempo per i suoi atti nella memoria collettiva. Ma nel medioevo la Caritas, apportata dal Cristianesimo, rappresenta un concetto nuovo che riunisce, per amore di Dio, tutti gli uomini, figli di Dio e fratelli fra di loro, in una sola grande famiglia. Ne deriva conseguentemente il dovere per ciascuno della comunità di apportare un contributo o una assistenza, la cui finalità non è certamente la gloria di se stessi, come denunciato da San Paolo, ma il raggiungimento della perfezione di Dio. Questa Caritas non è una azione rumorosa da show, o peggio da show business, ma una necessità quotidiana per la salvezza di tutti, per tutto il corso della vita. L’atto di carità si costruisce pertanto nella continuità e nell’umiltà. Il Corpo dottrinale della Caritas e le attività connesse si sono consolidate nel periodo alto medievale per trovare successivamente una definitiva sistematizzazione nel corso del medioevo

La nozione di “povertà”

San Matteo aveva definito sette opere da compiere da parte dei fedeli: visitare i malati, dare da bere agli assetati, nutrire gli affamati, occuparsi dei carcerati, vestire gli ignudi, accogliere gli stranieri e seppellire i morti. Il mondo della carità del medioevo è dunque ampio, poiché abbraccia tutta la società nella sua quotidianità, la malattia, la morte, i viaggi, i prigionieri e quelli che vengono chiamati in maniera più generale i “poveri”. Termine che si applica ad un vasto gruppo nel quadro di una società, in genere economicamente depressa. Nei testi il “pauper” ha come sinonimo egenuus (libero), laborator (bracciante), agricola (agricoltore), rusticus (contadino), in opposizione a potens (potente), miles (soldato, cavaliere), civis (cittadino).

Queste diverse categorie, in degli schemi sociali organizzativi più o meno complessi, non lasciano intravedere dei “pauperes indigentes et famelicos”, vale a dire degli individui vittime di un cambiamento di fortuna o di una esiziale congiuntura. Ma ugualmente il pauper colpito da infirmitas è a quel punto aegrotus (malato), infirmus (debole fisicamente), debilis, imbecillus (insensato e debole di spirito) oppure decrepitus (molto vecchio). Questo secondo caso di pauper può essere conseguenza diretta della precedente condizione, ma anche una condizione temporanea, legata ad un dato momento della vita. C’è infine da considerare la problematica della povertà volontaria (preti, monaci), che però non sembra sposarsi alle precedenti condizioni.

La Chiesa ha sollecitato gli uomini del medioevo su questi differenti stati di povertà, come lo attestano molti prologhi di atti di donazione, invitanti all’elemosina attraverso la mediazione della Chiesa, incaricata del mantenimento dei poveri. Per comprendere meglio il problema del “dovere della carità” conviene esaminare i vari attori interessati, sotto l’aspetto delle loro motivazioni e delle loro implicazioni.

I grandi principi delle origini

La Chiesa ha, in una certa misura, continuato la tradizione imperiale romana della beneficenza, come i lavori pubblici, il riscatto dei prigionieri e le distribuzioni gratuite alle porte delle chiese e dei monasteri. Questo è stato il caso dell’istituzione dei diaconati in Oriente, descritti da Giovanni Cassiano (420 - 430) nelle sue conferenze. Ogni diaconato, diretto da un monaco, eletto annualmente, riceveva dai contadini del vicinato la decima dei loro raccolti destinata ai poveri. La vita di S. Melania (399 - 439) evidenzia nel suo contesto la compilazione di liste dei poveri, destinati a ricevere distribuzioni di viveri. Infine Papa Leone Magno, dopo i torbidi eventi del 410 (sacco di Roma da parte di Alarico), mette in opera un sistema identico anche in Italia. I diaconati occupavano a quel tempo i locali della Pubblica Annona. Preoccupati per le ricchezze fondiarie della Chiesa e del rischio di vassallaggio al potere, i monaci martiniani spingevano a far accettare e dichiarare che il patrimonio della Chiesa era quello dei poveri, ciò che fu confermato nel 442 dal Concilio di Vaison. Nel 506, il canone (decreto di un concilio) n. 4 del Concilio di Agde precisava che i chierici o i laici, se cercavano di trattenere le offerte dei defunti e le elemosine dei fedeli necessarie per sfamare i poveri, sarebbero stati considerati come dei “Necatores Pauperum” (assassini dei poveri). Questa espressione fu sistematicamente ripresa per tutto l’alto medioevo e più in particolare all’epoca di Carlo Martello per denunciare le confische e le usurpazioni dei beni ecclesiastici, attività alle quali si dedicavano volentieri i potenti laici dell’epoca merovingia. Questo canone dovrebbe anche oggi essere “rispolverato” e sottolineato per tutta quella massa di ambigui personaggi e di numeri verdi che si ripresentano puntualmente in occasione di calamità pubbliche nazionali ed internazionali e che contribuiscono ad affievolire lo spirito di carità e la fiducia del prossimo. Peraltro era necessario ed utile ricordare in permanenza ai chierici ed ai vescovi di accogliere i poveri nelle loro dimore, il cui accesso era interdetto insieme ai cani, così come la consuetudine di utilizzare e di fare versare, per le necessità dei poveri, le decime dei raccolti, il cui versamento era in gran parte negletto da parte dei cristiani (Concilio di Macon del 585).

Il dovere della carità non era purtroppo un fatto automatico anche all’interno della stessa Chiesa. Occorreva pertanto definire le necessità e conseguentemente allocarvi delle risorse, attività nelle quali si sono impegnate le autorità ecclesiastiche e laiche nel corso dei secoli.

Percezione dei bisogni ed istituzioni connesse

La Matricola dei poveri. L’istituzione verso la fine del 4° secolo del ruolo dei poveri, associato ai diaconati, ma anche all’ospedale ospizio (xenodochion), è la chiara testimonianza della necessità di organizzare la carità, vista anche come mezzo fondamentale per cautelarsi dalle rivolte popolari. Si trattava in questo caso di individuare i poveri “ufficiali”, autorizzati a mendicare alla porta delle chiese, che beneficiavano, tra l’altro, di entrate regolari da parte del vescovo in cambio della effettuazione di compiti minuti nel campo liturgico e di assistere agli uffici. Questo comportamento pone un interrogativo ricorrente sull’effettivo significato della povertà: miseria vera o pigrizia, ma anche la preoccupazione di rispondere a delle esigenze reali come quello di costringere all’atto caritatevole i fedeli che non rispettano la decima, le offerte e le messe domenicali. I vari concili perseguiranno questa azione, identificando le differenti categorie dei poveri. Quello di Orleans del 511 effettua una distinzione fra poveri, infermi e prigionieri; nel 549 un altro Concilio parla espressamente dei malati, dei pellegrini e di quelli in stato di necessità (i lebbrosi in particolare). Il Concilio di Macon del 585 si occuperà delle vedove e degli orfani e quello di Tours del 567 insisterà sulla necessità di sedentarizzare e stabilizzare i poveri, per evitare il vagabondaggio attraverso le città.

I Luoghi deputati. All’epoca carolingia la legislazione riafferma i grandi principi, riconoscendo ai vescovi, ma anche ai sovrani, un dovere identico di protezione dei poveri, la stessa si sforza di individuare anche un certo numero di esigenze. I Capitolari (testo legislativo dell’imperatore) “ex lege romana excerpta” dell’826 ricordano tutta una serie di istituzioni caritatevoli, precisandone i compiti. Tutti i luoghi vengono descritti come forniti di camere, vicine ad un pozzo o una sorgente e ad una chiesa: il Ptochotrophion per i poveri e gli infermi, il Nosochomium per i malati, l’Orphanatrophium per gli orfani, il Gerontochomium per i poveri vecchi infermi; il Brephotophium per i bambini abbandonati. Tutte queste sfumature mostrano che esiste la coscienza dell’esistenza di quattro tipi di poveri: i deboli, i malati, i vecchi e l’infanzia. E’ peraltro verosimile che una stessa infrastruttura, monastero o chiesa con a disposizione di personale fisso, poteva ricevere indistintamente tutti questi tipi di persone, appartenenti ai due sessi, ma essi venivano comunque distinti da quelli che beneficiavano di distribuzioni gratuite secondo gli elenchi delle matricole, così come i pellegrini ricchi o i nobili venivano accolti a parte.

Durante il periodo fra l’11° ed 14° secolo appaiono dei nuovi problemi, legati all’aumento della popolazione, all’immigrazione dalle campagne nelle città, ma anche ad una povertà strutturale connessa con le difficoltà economiche (quelli che vengono chiamati poveri attivi), oltre ai precedenti gruppi di poveri. In questo periodo, specie nel 12° secolo, aumenta il numero dei lebbrosi a seguito dei contatti con l’Oriente e per i quali vengono costruiti dei lebbrosari; allo stesso modo i pazzi, prima tollerati, poi rinchiusi in un monastero o in una porta della città: le prime case per i matti appaiono effettivamente intorno al 14° secolo. Da ultimo occorre segnale i ciechi ed i trovatelli. Per far fronte a tali esigenze vengono fondati numerosi ospedali/ospizi polivalenti che accolgono senza distinzioni, malati, infermi, pellegrini o vagabondi come nel periodo anteriore.

Il Ruolo delle Confraternite. Prima di scomparire nel 14° secolo, questo processo di costruzione di ospizi si trova collegato con un aiuto privato proveniente da confraternite laiche, che distribuivano pane, abiti, calzari o altre cose per mezzo di “elemosine, carità e tavole del Santo Spirito”. Queste funzionavano come uffici di beneficenza e di soccorso mutuo. I pasti in occasione di funerali o associati a feste liturgiche o patronali, come anche le distribuzioni previste per testamento, costituivano delle forme di solidarietà a garanzia della pace sociale. Gli artigiani ed i borghesi delle città si sforzavano anche di fondare delle case per i loro infermi o vecchi con diritto di accesso e corredo prestabiliti. Tutto questo doveva aprire la strada, nel 15° e 16° secolo, alla “comunalizzazione” delle istituzioni di carità con personale dallo statuto religioso (suore nere o grigie). Questa evoluzione è la conseguenza di un approfondimento spirituale nel senso di una religione più impegnata da parte dei laici nel sociale, ma anche di un accrescimento e di una differenziazione di esigenze, sempre e tutte nel senso di salvaguardarsi dalle sommosse popolari.

Raccolta ed allocazione delle risorse

Per rispondere alle differenti esigenze sopradette, era pertanto necessario, come lo diceva S. Matteo, “di costituire un tesoro, sacrificando le vane ricchezze”. In termini più chiari, le risorse della carità sono legate alle attività economiche, mercantili, ma soprattutto agricole nel Medioevo. Si tratta a questo punto di esaminare come tali risorse sono state orientate alle attività di carità nei differenti periodi.

Beni del fisco e del popolo. In occasione del Concilio di Orleans del 511, Clodoveo aveva chiaramente definito il modo di gestione del patrimonio ecclesiastico. Veniva posto sotto la sola ed unica responsabilità del vescovo, assistito nella gestione corrente dall’arcidiacono e dai diaconi. Era ripartito per quattro funzioni principali: costruzione e riparazione delle chiese o di infrastrutture caritatevoli, mantenimento dei preti, sostentamento dei poveri e dei prigionieri. Questa ripartizione risaliva all’epoca del pontificato di Simpliciano e quindi di Gelasio nella seconda metà del 5° secolo. Il capitale del patrimonio delle chiese era allora costituito da terre del fisco (insieme di beni e terre di proprietà reale), le eredità dei chierici e dei vescovi, ai quali si aggiungevano le donazioni immobiliari ottenute nelle parrocchie (terre, vigne, schiavi ed animali). Tutti questi beni rimanevano di diretta pertinenza e gestione del vescovo; la destinazione ne era la riparazione o la costruzione di infrastrutture (chiese, monasteri e xenodochion) o ancora la divisione in posti canonici assegnati al sostentamento dei preti delle parrocchie, ma anche ai poveri, iscritti in numero limitato sul ruolo della matricola. Accanto a questo capitale in terre, c’erano i doni reali in argento ed oro, spesso assegnati per scopi precisi e le offerte dei fedeli deposte sotto l’altare (abiti, alimenti, vino) che assicuravano il supporto quotidiano dei poveri. Ma tutto questo rimaneva largamente insufficiente e la decima doveva costituire la principale risorsa delle entrate. Il Concilio di Macon del 585 ricorda a tal proposito che la decima doveva permettere ai preti di badare al ministero spirituale ad ore stabilite, ma di fatto a causa della negligenza nei versamenti da parte dei fedeli, la stessa non permetteva di rispondere alle necessità dei poveri ed al riscatto dei prigionieri. Questa “negligenza” é in effetti un segno sintomatico della difficoltà che le popolazioni impoverite avevano nell’assicurare una attività di carità quotidiana. Era dunque necessario ed in permanenza trovare delle nuove voci di entrate, sia ottenendo maggiori concessioni reali o dei grandi feudatari, sia ottenendo delle eredità o doni da parte delle vedove dell’aristocrazia. La carità nell’epoca carolingia implicava una partecipazione attiva da parte dei vescovi e dei grandi signori, per i quali era stata elaborata una teoria politica di protezione dei poveri ispirata al comportamento dei Re dell’Antico Testamento.

Disporre di risorse implicava una gestione rigorosa con l’obbligo permanente di fare degli inventari, di rendere il conto, di vigilare scrupolosamente sulle terre date in precariato (beni ecclesiastici o reali concessi per un determinato tempo) a laici o religiosi. In nessun caso un dono di un vescovo o di una fondazione poteva essere fatto a danno delle risorse di bilancio collettive: in tale contesto nuove fondazioni di chiese o di oratori privati, erano autorizzati solamente se il proprietario vi collegava fondi propri oppure nuove risorse. In effetti nella fondazione dello xenodochion di Lione, ottenuto con fondi reali, i vescovi si impegnano, da parte loro, al regolamento ed al conto delle spese. Essi si impegnano altresì a far rispettare i beni e le persone impiegate nel predetto istituto, in modo da assicurare la sua permanenza e la stabilità ed a non sottrarre, ritirare o stornare nulla, sotto la pena di essere trattati come necator pauperum (assassini dei poveri) e quindi di essere colpiti da anatema. Questo sistema di finanziamento molto complesso è stato oggetto di continui richiami nel periodo carolingio, segno evidente che lo storno da parte dei signori locali era indubbiamente all’ordine del giorno.

Doni e legati. Il periodo dall’11° al 14° secolo vedono moltiplicarsi le iniziative di fondazioni nei testamenti dei privati di ogni condizione sociale in favore di ordini specializzati come gli Ospedalieri di S. Giovanni (Malta), i Templari o il Santo Spirito. Questo è il segno del fervore dei tempi. Da un certo punto di vista l’opera di carità si inscrive principalmente nel contesto locale, come è dimostrato dal fatto di riservare gli ospedali ai borghesi del luogo sotto il nome di Ospizio di Dio, delle case per i poveri di passaggio, in modo da accogliere per una notte dei pellegrini, dei venditori ambulanti o dei lavoratori in cerca di impiego. Ma la stessa assume anche una dimensione più ampia e più specializzata attraverso l’opera delle confraternite (penitenti, trinitari, mercedari), orientata alla liberazione dei prigionieri, al recupero delle prostitute, degli studenti (per i quali vengono creati dei collegi), alla guida dei viaggiatori, senza dimenticare l’istituzione di un gruppo di poveri in ogni luogo di culto. Tuttavia, queste associazioni o le case erano troppo piccole e non disponevano assolutamente di risorse sufficienti; a tutto questo si aggiungeva il rischio dell’appropriazione di prebende (proventi fissi concessi ad un ecclesiastico sui beni di una chiesa o di un monastero) da parte di borghesi agiati, che stornavano la distribuzione a loro profitto, oppure anche dell’accaparramento di incarichi negli ospedali, trasformati in benefici ecclesiastici. E tutto questo ad ulteriore danno dei soggetti meno fortunati.

Queste situazioni sfociano inesorabilmente in crisi di fiducia e nella necessità di ricordare a tutti lo spirito originale delle cose, conducendo a delle riforme ed all’elaborazione di nuove strutture: raggruppamento delle associazioni e delle piccole case in strutture più grandi controllate dallo stato per la distribuzione di fondi o controllate dai magistrati delle città.

In definitiva il dovere di carità nel medioevo ha subito nel corso dei secoli una lenta e continua trasformazione e sistematizzazione, adattandosi progressivamente alle necessità ed ai bisogni dei poveri, dopo averli identificati ed attribuendovi, conseguentemente, le opportune risorse in fondi e personale. Col tempo e con il crescere delle esigenze, vengono orientate a tal fine sempre maggiori risorse e soprattutto personale, sempre più specializzato, laico o religioso, posto sotto il controllo delle autorità religiose o pubbliche, le prime mosse dalla dottrina religiosa e le altre pervase da una teoria del potere che ha l’obbligo di assicurare la protezione e la pace pubblica.

I Persiani a Gerusalemme: la fine di un mondo

I PERSIANI a GERUSALEMME:

la fine di un mondo

(Pubblicato su Impero Romano d’Oriente del settembre 2008)

Nel 614 la Città Santa cade nelle mani dei Persiani, ma i Bizantini la riprenderanno presto. Questo evento non è che l’ultimo episodio di uno scontro di settecento anni fra i due imperi.

Fra il 1° secolo prima della nostra era ed il 7° secolo dopo Cristo, risultano frequenti i conflitti fra i due grandi imperi dell’Antichità: l’Impero Romano e l’Impero Persiano. Da un lato l’Impero romano, detto Bizantino, ufficialmente cristiano dal 4° secolo, si stende su una grande parte del Mediterraneo e sul Medio Oriente, dall’Asia Minore all’Egitto. Dall’altro, l’Impero persiano, mediorientale ed iraniano, si estende dalla Mesopotamia fino all’Asia Centrale ed alle porte dell’India e che, nel 3° secolo, è passato nelle mani della dinastia dei Sassanidi (1).

Nella vasta zona di contatto fra questi due imperi, dal Caucaso al Mar Rosso, lo scontro è quasi permanente. Questa rivalità è quella che, contribuendo fra le altre cause a minare profondamente le due potenze, permetterà, all’inizio del 7° secolo, i primi successi dei nuovi venuti: i conquistatori musulmani.

La conquista di Gerusalemme da parte dei Persiani nel 614 è uno degli episodi meno conosciuti di queste frequenti guerre. Simbolicamente questo avvenimento segna la fine dell’Antichità in Oriente.

L’inizio del 7° secolo vede la ripresa delle ostilità. Approfittando di una crisi dinastica fra i Persiani, l’Imperatore bizantino Maurizio aveva ottenuto nel 591 degli insperati guadagni territoriali in Armenia e nell’Anatolia orientale. Ma nel 602, egli viene assassinato da Focas che assume il potere. Per il sovrano sassanide Cosroe 2°, quella è l’occasione per la rivincita. La guerra durerà 27 anni.

All’inizio, lo scenario dei conflitti precedenti sembra ripetersi: le operazioni si limitano alle regioni contestate del Caucaso e dell’Eufrate. I Persiani conquistano le potenti città fortificate della frontiera nord orientale dell’Impero romano, fra le quali Dara, Amida (attuale Dyarbakir) ed Edessa (Urfa). Per Bisanzio, queste sconfitte si accompagnano a delle sommosse urbane ed a dei nuovi problemi in Occidente di fronte ai Longobardi in Italia, agli Avari ed agli Slavi nei Balcani. Nel 608, una rivolta militare si scatena a Cartagine, capitale dell’Africa bizantina; i ribelli sbarcano a Costantinopoli, Focas viene assassinato ed il figlio dell’esarca (governatore) di Cartagine, Eraclio diventa imperatore nel 610.

A questa data, i Sassanidi non pensano più solamente a recuperare i territori perduti nel 591. Essi vogliono estendere il loro dominio su delle regioni da lungo tempo nelle mani dei Romani: nel 610 essi attraversano l’Eufrate, conquistano la città fortificata di Zenobia e marciano verso ovest. In Asia Minore i loro eserciti percorrono le campagne devastando il paese senza cercare di annetterlo, mettendo a sacco le città, uccidendo o deportando le popolazioni. Persino la stessa capitale Costantinopoli arriva a correre un grave pericolo, quando i Persiani conquistano Calcedonia nel 615.

Cosroe, che rifiuta qualsiasi offerta di negoziati, ha per obiettivo la distruzione dell’Impero bizantino. Le sue truppe hanno conquistato la Siria e raggiungono, nel 614, Gerusalemme. La Città Santa era a quel tempo un grande luogo di pellegrinaggio cristiano e la sede con Roma, Alessandria, Antiochia e Costantinopoli, di uno dei cinque Patriarcati antichi alla guida della Cristianità. Nell’aprile-maggio 614, Gerusalemme viene assediata dal generale persiano Shahrvaraz. All’interno, alcuni, come il Patriarca Zaccaria, vogliono negoziare, ma le fazioni (2) propugnano la resistenza. Nel giro di una ventina di giorni, l’apertura di una breccia nella muraglia di cinta da parte dell’artiglieria sassanide consente ai Persiani di entrare in città, di saccheggiarla e di commettervi una serie di massacri che comporteranno, secondo le stime, fra i 33 mila ed i 67 mila morti. La Piscina di Mamilla, una vasta cisterna fuori delle mura diventa un centro di detenzione nella quale si intasano i prigionieri ed un carnaio, il più importante fra i quindici recensiti.

Due pii cristiani, quali Tommaso e la sua sposa, “nuovi Nicodemo e Maria Maddalena” (3), raccolgono i cadaveri e le seppelliscono. Una parte della popolazione sopravvissuta, alcuni notabili e gli artigiani, che potevano essere di utilità ai Persiani, così come il Patriarca Zaccaria, vengono deportati in Mesopotamia e nell’Iran. Questo dramma viene vissuto dai contemporanei, alla luce della tradizione biblica, come una nuova cattività babilonese del nuovo popolo eletto, vittima di un nuovo Nabucodonosor (4). Molte chiese vengono saccheggiate e la reliquia più preziosa, la Vera Croce di Cristo, della quale la tradizione attribuiva la scoperta, nel 4° secolo, a Sant’Elena, madre dell’Imperatore Costantino, viene trasportata verso la capitale sassanide a Ctesifonte, nel tesoro reale.

In tutta la regione, l’arrivo dei Persiani scatena il caos. Le tribù arabe della Palestina, sbarazzatesi del controllo bizantino, ne approfittano per attaccare e saccheggiare i monasteri del deserto della Giudea, massacrandone i monaci. Altri religiosi emigrano, raggiungendo numerosi rifugiati che partono per l’Egitto, da dove si recano poi a Cipro ed a Costantinopoli. Alcune testimonianze, peraltro molto discusse, attribuiscono i massacri dei cristiani agli Ebrei della regione. Gli Ebrei, solo gruppo religioso riconosciuto nell’Impero bizantino, sono stati vittime di una forte discriminazione: sembra che essi abbiano accolto con sollievo o persino gioia l’arrivo dei Persiani, ma che le loro speranze siano andate rapidamente deluse.

Laddove c’è stata resistenza, la conquista persiana è stata, in un primo tempo brutale. Ma, in seguito, l’occupazione dimostra ovunque il pragmatismo dei Sassanidi. In effetti non esiste alcun interesse per loro di rovinare delle province, in particolare l’Egitto, che possono essere fonte di notevoli entrate fiscali. Viene rimessa in funzione un’amministrazione che, senza sorpresa, continua ad applicare le stesse pratiche romane, appoggiandosi sui notabili tradizionali delle città. Continua a circolare la moneta bizantina ed i Sassanidi autorizzano il conio di una imitazione di bronzo presso un laboratorio locale in Siria. Le lingue di uso, il greco ed il copto in Egitto, continuano ad essere impiegate nella normale prassi amministrativa. In tal modo le resistenze diventano marginali, nonostante o a causa di una presenza militare forte e di una sorveglianza pignola.

Si evidenza un pragmatismo da parte dell’occupante anche sul piano religioso: agli inizi del 7° secolo, il Vicino Oriente bizantino risultava in preda a delle divisioni religiose, spesso accompagnato da violenze. Si fronteggiavano a quel tempo due correnti religiose diventate col tempo due partisti opposti: i Calcedoniani (5), sostenuti dall’Imperatore ed i Monofisiti (6). I primi erano maggioritari in Palestina ed in una parte della Siria. I Monofisiti invece erano numericamente maggioritari in Egitto ed in Siria del nord-est, ma erano perseguitati dal potere imperiali.

Per i Monofisiti, l’arrivo dei Persiani costituisce un sollievo (7); i suoi vescovi, fra i quali il Patriarca di Antiochia, Atanasio “il Cammelliere”, possono rientrare nelle loro città. Più in generale i Persiani, dopo la fase di installazione, si adattano alla situazione locale. In tale contesto essi mantengono il vicario patriarcale, Modesto, un calcedoniano, alla testa della Chiesa palestinese; egli raccoglie dei fondi, ivi comprese regioni che sfuggono al controllo dei Persiani, e restaura le chiese ed i monasteri danneggiati.

Yazdin, un nestoriano (8), incaricato di alte funzioni finanziarie nel regno sassanide, fa egli stesso ricostruire delle chiese a Gerusalemme. L’epoca conosce anche dei rari martiri cristiani, come Anastasio il Persiano, ma quest’ultimo è, in effetti, un soldato persiano disertore e soprattutto un apostata del mazdeismo (9), diventato monaco in Palestina.

Nelle regioni conquistate, il Mazdeismo, religione ufficiale sassanide, viene praticata discretamente senza alcuna forma di proselitismo. Esso si rivolge solamente agli Iraniani, soldati e funzionari. Nello stesso regno persiano, i cristiani nestoriani risultano numerosi, installativi da lunga data a causa della loro persecuzione nell’Impero bizantino. Vi si incontrano anche dei monofisiti in piena espansione, in particolare degli Armeni. Il seguito reale comprende degli alti funzionari e dei medici cristiani; due delle spose di Cosroe 2°, Shirin, “l’Aramea” e Maria, “la Romana”, sono cristiane. Rimane comunque il fatto che i Persiani minacciano la stessa sopravvivenza dell’Impero romano d’Oriente. I Bizantini, in un soprassalto di disperazione, riuniscono tutte le loro forze, fino a trascurare i pericoli dell’Occidente. La moneta viene svalutata ed i tesori ecclesiastici vengono requisiti per finanziare la guerra. L’Imperatore Eraclio in persona si mette alla testa dell’esercito in operazioni.

La controffensiva di Eraclio comincia nel 622 per mezzo delle operazioni di diversione nella regione a sud del Caucaso e del Caspio. Poi dopo il 625, con il sostegno dei principi cristiani caucasici e di quello del Khagan (Khan, capo) dei Turchi occidentali, installati a nord del Caucaso, l’imperatore conduce una guerra di movimento in direzione delle città reali della Mesopotamia, cuore della potenza sassanide. Questa rischiosa strategia, proprio nel momento in cui la stessa Costantinopoli viene assediata, consente di conseguire la vittoria decisiva di Ninive nel 627.

Eraclio prosegue la su marcia fino al palazzo sassanide di Dastagerd, a 90 chilometri a nord est dell’attuale Bagdad e lo devasta. Cosroe 2°, fuggendo davanti all’avanzare delle truppe bizantine, viene assassinato da suo figlio Kavadh 2°. Ma la pace viene effettivamente stabilita nel 629, allorché, un accordo con il generale Shahvaraz, organizza l’evacuazione dall’Egitto e dalla Siria da parte delle truppe persiane.

L’Impero bizantino ha passato un brutto momento. La propaganda imperiale, profondamente religiosa, si manifesta nei testi e nell’iconografia. Eraclio viene presentato come un nuovo Costantino ed un nuovo Davide. I Bizantini sono un nuovo popolo scelto  e l’imperatore è stato eletto da Dio. La corona dei martiri viene promessa ai soldati che cadranno in combattimento.

Nel 630, Eraclio riporta solennemente a Gerusalemme la reliquia della Vera Croce. E’ il primo imperatore  cristiano ad entrare nella Città Santa. Questo evento segna il punto culminante della sua gloria e l’origine di molteplici racconti che  confluiranno nella Leggenda Aurea (10).

Alcuni autori moderni hanno voluto riferire ad Eraclio la nascita dell’ideologia della crociata. In realtà, la guerra condotta dai Bizantini fu prima di tutto una questione di sopravvivenza. Le catastrofi sopraggiunte hanno anche dato origine ad una letteratura apocalittica, annunciatrice di calamita o apportatrice di speranze. Questi temi riappariranno nel momento della conquista mussulmana, qualche anno più tardi.

Eraclio, figura tragica della storia, ha salvato l’Impero romano, ma a che prezzo ! Alcuni domini occidentali: la Spagna meridionale e la maggior parte dell’Italia sono state abbandonate ai Goti o ai Longobardi. Tutta l’area Balcanica, compresa la Grecia, è stata ugualmente perduta a vantaggio degli Slavi e degli Avari, ad eccezione di alcuni distretti costieri. L’Asia Minore è parimenti devastata. La Siria, la Palestina e l’Egitto hanno acquisito l’abitudine a vivere senza Bisanzio (dai 15 ai 20 anni a seconda delle regioni). L’occupazione ha ugualmente dimostrato che i Persiani, contrariamente al potere imperiale, interferivano poco nel campo religioso e che, fatto esiziale per il futuro, le popolazioni cristiane potevano adattarsi ad un potere non cristiano.

Tutto questo non verrà dimenticato negli anni 634-41, quando i conquistatori mussulmani si impadroniranno, a loro volta, di alcune delle province ridiventate bizantine da poco tempo, dalla Siria all’Egitto. L’amministrazione e l’esercito imperiale, non hanno avuto il tempo, dopo il 629, di ricostituire la rete di alleanze con le tribù arabe cristiane della steppa palestinese e siriana, che nell’epoca precedente avevano giocato un ruolo capitale nella difesa del Vicino Oriente romano. Mentre i Persiani ed i Bizantini di dedicavano completamente a quella che sarebbe stata la loro ultima guerra, sulle loro frontiere meridionali, nella penisola arabica, stava ormai consolidandosi una nuova potenza: l’Islam.

Eraclio, invecchiato, non compare più sui campi di battaglia dopo il 630, ma vivrà abbastanza (muore nel 641) per vedere il crollo della sua opera e la conquista da parte degli Arabi mussulmani delle province riprese ai Persiani (Siria, 634-36; Egitto, 639-41), ma anche la caduta del regno sassanide (a partire dal 637). Tuttavia, contrariamente al suo rivale iraniano interamente annesso al nuovo Impero mussulmano, Bisanzio riuscirà a sopravvivere, a rinascere ed a durare fino al 1453.

La Vera Croce, per sfuggire all’avanzata dei Mussulmani, era stata già messa al sicuro a Costantinopoli nel 635. La brevità del suo secondo soggiorno nella Città Santa evidenzia in maniera esemplare tutta la precarietà del ristabilimento del potere bizantino in Oriente.

NOTE

(1) Dopo la conquista nel 331 a.C. dell’Impero Achemenide, fondato da Ciro il Grande nel -558, il mondo irano-mesopotamico passa sotto la dinastia dei Seleucidi di Siria, quindi alla dinastia iraniana dei Parti arsacidi provenienti dall’est del Caspio. Ardashir 1° (224-241 d.C.), modesto principe della regione di Persepoli, rovescia i Parti e fonda la sua dinastia: i discendenti del mitico Sassan. La dinastia si caratterizza per un ritorno alle tradizioni persiane, una forte ideologia reale legata ad un’arte di corte monumentale e raffinata. Una società dominata dalla alta aristocrazia e dal clero mazdeista dei maghi. Regneranno sull’Iran fino al 650;

(2) Gruppi spesso turbolenti, partigiani di uno dei due colori (i Verdi o i Blù), che si suddividevano l’organizzazione delle corse dell’ippodromo e che rivestivano anche un ruolo importante nella vita politica e religiosa di Bisanzio;

(3) Secondo la tradizione cristiana Nicodemo e Maria Maddalena hanno deposto Gesù nella tomba;

(4) Nel 6° secolo a.C., gli Ebrei di Gerusalemme erano stati deportati a Babilonia a seguito delle spedizioni militari di Nabucodonosor 2°;

(5) Cristiani fautori del Concilio di Calcedonia (451) che aveva definito il Cristo come una sola persona con due nature: umana e divina;

(6) Dottrina cristiana che riconosce nel Cristo una sola natura divina e che è stata condannata nel Concilio di Calcedonia;

(7) Così come lo sarà con il successivo arrivo dei Mussulmani;

(8) Dottrina cristiana che distingue le due nature, divina ed umana del Cristo e che ha tendenza ad insistere piuttosto sulla natura umana; condannata in occasione del Concilio di Efeso del 431;

(9) Detto anche Zoroastrismo. Religione dualista iraniana che si basa sugli insegnamenti di Zoroastro (Zaratustra), che oppone lo spirito o Dio del bene (Ahura-Mazda) a quello del male (Ahriman). Si caratterizza per il culto del fuoco e dell’esistenza di una casta sacerdotale di maghi;

(10) La Leggenda Aurea scritta da Giacomo da Varagine (Varazze), domenicano ed arcivescovo di Genova nel 13° secolo, raccoglie le vite dei santi leggendari e miracolosi, ha conosciuto una grande diffusione in Europa dalla fine del Medioevo ed è servita da fonte di ispirazione per numerose opere d’arte. 

Rivolgimento mondiale nel 1956

RIVOLGIMENTO MONDIALE NEL 1956

(Pubblicato su Rassegna Militare dell’Esercito n. 5/2007)

La divisione del mondo era già cominciata a Yalta fra Sovietici ed Americani. Nel 1956 gli Europei scoprono all’improvviso di essere ormai fuori gioco.

Nel 1945, a Yalta, Roosevelt e Stalin avevano sancito la scomparsa delle aree di influenza britannica, tedesca e francese in Europa, che erano state sostituite dalla divisione del mondo in due mondialismi (quello leninista e quello wilsoniano). Con il 1956 la coesistenza fra le due mondializzazioni segna una nuova tappa. Dopo aver tolto alle potenze europee il loro potere sul destino dell’Europa, Americani e Sovietici si mettono ormai d’accordo per liquidare ciò che resta delle aree di influenza britanniche e francesi nel terzo mondo.

Dopo la morte di Stalin, nel marzo 1953, la dottrina sovietica internazionalista conosce degli adattamenti, conseguenti alla evoluzione della situazione mondiale. Tenendo conto della superiorità strategica americana degli anni 1953-55 e della comparsa dell’arma termonucleare nel 1954, i dirigenti sovietici, anche se non lo ammetteranno ufficialmente prima del 1956, sono sempre di più convinti dell’impossibilità di una vittoria in una guerra nucleare e che pertanto il Comunismo dovrà imporsi sulla scena mondiale attraverso l’impiego di altri mezzi.

Questo cambiamento radicale nella maniera di pensare la contrapposizione dialettica fra comunismo e capitalismo costituisce l’origine delle riflessioni sulle vie da intraprendere per conseguire comunque l’obiettivo finale. Tali riflessioni si concretizzeranno nella famosa Dottrina della Coesistenza Pacifica, proclamata da Kruscev a Mosca, nel febbraio 1956, in occasione del 20° Congresso del Partito Comunista Sovietico (PCUS).

Da queste riflessioni emergono almeno due idee essenziali, che avranno delle significative implicazioni geopolitiche.

La prima idea: per poter progredire, il Comunismo deve appoggiarsi ai movimenti anticolonialisti e nazionalisti che interessano il terzo mondo sin dalla fine della seconda guerra mondiale. La Dottrina Jdanov che rifiutava il non allineamento è ormai superata. Nel mese di aprile 1955 ha luogo la conferenza afro-asiatica di Bandung. La Cina, l’India, l’Egitto e diversi paesi del Medio Oriente vi si incontrano per affermare il loro anticolonialismo e la loro volontà di non allineamento. I dirigenti sovietici decidono di giudicare positivamente questo movimento. L’appoggio della mondializzazione sovietica ai nazionalismi del terzo mondo viene a costituire una sfida capitale alla mondializzazione americana e contribuisce ad allontanarlo ancora un po’ di più dai vecchi imperialismi europei (britannico e francese).

La seconda idea: per dividere il blocco capitalista, il comunismo cerca di mediare con la socialdemocrazia in Europa, al punto tale da far credere a quest’ultima che sta perseguendo una politica della terza via, una specie di “non allineamento europeo”. In effetti la Francia di Guy Mollet, nella convinzione che la Germania rappresenti comunque il principale problema dell’Europa e cercando, inoltre, di fare da contrappeso agli Usa, cade nella trappola sovietica, almeno sino a quando l’appoggio sovietico al FLN algerino e la crisi di Suez non faranno comprendere chiaramente ai transalpini i limiti del viaggio fatto a Mosca dai dirigenti parigini (1).

In effetti, malgrado la critica ai metodi staliniani, l’URSS non modifica nulla riguardo agli obiettivi finali della sua politica: la vittoria del comunismo sul capitalismo. Numerosi eventi, fra il 1953 ed il 1956 attestano questa incrollabile determinazione:

  • - la repressione dei moti del giugno 1953 nella Germania dell’Est;
  • - la vittoria, nei mesi che seguono la morte di Stalin, di Kruscev e Molotov sulle idee di Beria e Malenkov, che erano orientati a scambiare il controllo assoluto di Mosca sulla Repubblica Democratica tedesca comunista con una divisione di potere fra comunisti e socialdemocratici in una Germania riunificata;
  • - il recupero del controllo della “via polacca” di Gomulka; il partito comunista polacco può anche prendere una via di tipo nazionale, ma nel rispetto di due condizioni irrinunciabili; rimanere “partito unico” e mantenere la Polonia nel Patto di Varsavia;
  • - il terribile intervento dell’Armata Rossa a Budapest nel novembre 1956, perché l’Ungheria non ha accettato le due lezioni contenute nella lezione polacca e per aver creduto alla destalinizzazione del 20° Congresso del PCUS.

Le conseguenze geopolitiche di queste due idee sovietiche (difendere il blocco all’interno e sostenere i nuovi nazionalismi all’esterno) saranno terribili per le antiche potenze coloniali e verranno alla luce con la crisi di Suez.

All’epoca Parigi e Londra consideravano Nasser come un pericolo per i loro interessi nel mondo arabo. I Francesi, in effetti, riconoscevano i maneggi di Nasser nei sollevamenti algerini, mentre gli Inglesi temevano per la sicurezza delle fedeli monarchie conservatrici di Irak e di Giordania. Secondo il punto di vista di Parigi e di Londra ed al di là, comunque, della pura e semplice prevaricazione di interessi privati, la decisione egiziana di nazionalizzare il canale crea una seria minaccia alle rotte del petrolio fra il Mediterraneo ed il Golfo Persico. In questo contesto le due vecchie potenze europee sono inevitabilmente forzate verso una drastica decisione: riprendere il controllo del canale anche con la forza. E’ noto che verrà a mancare un giorno all’operazione militare congiunta franco inglese per conseguire il controllo della totalità del canale, ma questo innegabile successo militare si trasformerà poi in una pesante sconfitta politica.

Almeno tre errori di analisi geopolitica contribuiscono a spiegare il fallimento politico dell’operazione di Suez.

Primo: Francesi ed Inglesi non si sono accorti che il Medio Oriente è diventato una variabile di aggiustamento del conflitto sovietico-americano, la cui posta essenziale resta il controllo dell’Europa. Nel momento in cui scoppia l’affare di Suez, Mosca si trova impegnata a reprimere l’ondata di emancipazione ungherese. L’operazione di Suez consente a Mosca di mascherare, attraverso un sostegno vigoroso alla lotta contro l’imperialismo occidentale in Medio Oriente, il proprio imperialismo in Ungheria. I Sovietici, con grande abilità, mentre da un lato minacciano di attacchi nucleari la Francia e l’Inghilterra, dall’altra tendono la mano a Washington, proponendo di adottare una posizione anticoloniale comune.

In realtà, le due vecchie potenze europee, avendo già perduto il loro potere in Europa a vantaggio di Americani e Sovietici, non potevano certo sperare di continuare a mantenere il loro predominio nel terzo mondo.

Secondo: le vecchie potenze europee non hanno saputo valutare correttamente fino a che punto la conservazione delle rispettive zone di influenza non corrispondesse più alla visione geopolitica degli USA. Di fronte al blocco Sovietico, Washington vuole costituire un potente blocco pro-americano, garantito attraverso sistemi di alleanze fra stati sovrani. Secondo gli USA queste alleanze sono rese fragili dal residuo di tutela e di influenza politica ancora esercitato dai loro alleati francesi ed inglesi. Il 1954 è l’anno in cui gli Americani abbandonano i Francesi in Indocina e dove si costituisce allo stesso tempo il Patto di Manila (SEATO, settembre 1954). Nel Medio Oriente, durante il corso del 1955, i Britannici, con il benestare USA, hanno riavvicinato l’Irak alla Turchia e quindi aggiunto l’Iran ed il Pakistan nel Patto di Bagdad. Ma Washington teme, dopo il rifiuto del Cairo ad associarsi al patto di Bagdad, che le iniziative individuali delle potenze europee possano spingere l’Egitto nelle braccia dell’URSS. In effetti, né la politica inglese nei confronti dell’Egitto, né la politica francese in Algeria si trovano in armonia con la visione americana, che è quella di impedire all’URSS di presentarsi come campione dell’anti-imperialismo.

Terzo errore, certamente non il minore, la sottovalutazione della nuova politica condotta da Israele. Indubbiamente Israele è una giovane potenza regionale che può comprendere e sostenere agevolmente questa vecchia potenza coloniale (in Algeria) che è la Francia. Nel 1956, non potendo ancora contare effettivamente sugli Stati Uniti per garantirsi militarmente ed ancor meno sulla Gran Bretagna (che, per rimanere vicina agli Arabi, assume talvolta atteggiamenti anche ostili), Israele si appoggia decisamente sulla Francia.

Ma Parigi non ha capito che Israele ha bisogno di coinvolgere tutto il Medio Oriente nella Guerra Fredda, proprio per evitare di fare concessioni ai Palestinesi. Già da prima del 1956 gli Americani esercitano sempre maggiori pressioni sugli Ebrei per arrivare ad una composizione del conflitto israelo-palestinese, causa prima dell’opposizione isarelo-araba.

In tale quadro Washington, che punta al controllo sul petrolio, vuole sostituirsi a Londra nell’influenza sul mondo arabo. Per fare questo l’America, sebbene sostenga da vicino il Sionismo, tenta comunque si strappare a quest’ultimo delle concessioni significative. Nel 1953, Eisenhower arriverà fino a sospendere segretamente gli aiuti economici a Tel Aviv, per obbligare Israele a rinunciare al progetto di deviazione delle acque del Giordano. Tale sospensione diventerà ufficiale dopo un sanguinoso raid condotto da Ariel Sharon, Comandante dell’Unità Speciale 101, sul villaggio arabo di Kyrba. Due anni più tardi, quando Israele reclamerà dagli USA una garanzia formale di sicurezza, John Foster Dulles, risponderà con la proposta di una garanzia condizionata: “Noi vi garantiremo se voi regolerete il problemi delle frontiere e dei rifugiati con la Palestina”.

Da quel momento ad Israele non rimane che una soluzione. Per poter diventare l’alleato strategico incondizionato degli Americani, il Medio Oriente deve entrare nella Guerra Fredda. Questo implica da un lato che il nazionalismo arabo tenda a sovietizzarsi e dall’altro che la Gran Bretagna e la Francia vengano rimpiazzate nella regione dagli USA.

Il Mossad è il primo servizio segreto a fornire alla CIA il rapporto segreto di Kruscev al 20° Congresso del PCUS (febbraio 1956). Entrando nell’operazione di Suez a fianco delle potenze europee, gli Israeliani sanno in effetti che dovranno ritirarsi. Ma sanno altresì che potranno ottenere delle contropartite: lo statuto di alleato incondizionato degli USA, l’autorizzazione occulta a sviare dell’uranio arricchito, prodotto nella fabbrica Apollo in Pennsylvania, per il loro programma nucleare sviluppato con l’aiuto della Francia (2) e ancora il diritto di passaggio delle navi di Israele nel golfo d’Aqaba, attraverso gli Stretti di Tiran (nel 1957).

Un anno dopo Suez il rivolgimento politico nella regione è già un fatto compiuto. La dottrina ufficiale degli USA considera ormai Israele come con un alleato “diga” contro il nazionalismo arabo e l’influenza sovietica nella regione. Nel luglio 1958 Ben Gurion suggerisce agli Americani di aiutarli a sviluppare una alleanza periferica che raggruppi Israele, Turchia, Iran ed Etiopia e nel corso dello stesso anno i servizi segreti dei tre primi paesi formalizzano le loro relazioni. In tal modo alla logica inglese del Patto di Bagdad si sostituisce, da un lato, sotto l’egida di Israele, un potente asse “anti-arabo” e dall’altro la Dottrina Eisenhower del gennaio 1957, che determina l’entrata del medio Oriente nella Guerra Fredda (in tale quadro gli USA accorderanno una assistenza economica e militare a qualsiasi paese o gruppo di paesi della regione, eventualmente desiderosi di beneficiarne, con il vincolo sottinteso che l’assistenza potrà comportare la presenza di forze armate americane).

Il 1956, oltre alla crisi di Suez, è anche l’anno in cui gli Europei perdono la loro indipendenza energetica. I Sovietici, con il sostegno ai non allineati e l’offensiva sul terzo mondo, si ripromettevano di sbarrare agli Occidentali la rotta del petrolio. Contribuendo anche loro a far entrare il Medio Oriente nella Guerra Fredda, essi arriveranno solo parzialmente a conseguire il loro obiettivo.

Mentre nel corso del 1957 il consumo europeo di petrolio supera per la prima volta quello del carbone e che l’80% del petrolio viene importato dal Medio Oriente, gli Europei non dispongono più, dopo il fallimento di Suez, una capacità autonoma di accesso alle risorse petrolifere.

Prendendo atto della bipolarizzazione nucleare del mondo (che accresce la dipendenza politica delle potenze che non dispongono dell’arma atomica) e della perdita dell’indipendenza energetica derivante dal petrolio, la Francia si ingaggerà risolutamente dopo il 1956 sulla via dell’energia nucleare (sia sul piano civile che su quello militare). Anche l’Inghilterra seguirà la stessa politica per quanto attiene al nucleare, cercando però, a differenza della Francia, di costruire un’alleanza molto stretta in tutti i settori con il gigante americano. E’ dunque a quest’epoca che nei grandi paesi comincia a farsi strada la convinzione che di fronte alla bipolarizzazione ed alla mondializzazione, non ci potrà essere una vera indipendenza nazionale al di fuori della via nucleare. L’anno 1957, con il lancio del primo missile intercontinentale sovietico e la messa in orbita dello Sputnik, non farà che consolidarsi lo scossone del 1956.

Ormai il mondo sembra destinato a dover essere diviso fra Americani e Sovietici. Il 20° secolo è ormai verso la fine e gli Europei sono ora in condizione misurare l’ampiezza della catastrofe che si è verificata. I loro nazionalismi, esacerbati e distruttori, hanno finito per cancellare il potere che esercitavano da tanti secoli, comandando il destino di altre civiltà. Gli errori ideologici della fine del 18° e del 19° secolo hanno fornito i loro frutti avvelenati.

Ma c’è ancora un’altra lezione da trarre dagli eventi del 1956, ma questa volta per i Sovietici. Il 1956 non è solamente la vittoria della mondializzazione sovietica ed americana sugli imperialismi francesi e britannici, ma è anche l’anno in cui, senza saperlo, la mondializzazione sovietica ha inconsciamente programmato la propria fine. In effetti, nel 20° Congresso del PCUS del febbraio 1956, Kruscev, in occasione di uno dei famosi discorsi segreti, denuncia i crimini dello stalinismo.

L’atto, senza dubbio necessario sul piano interno, apre nondimeno la via alla divisione del mondo comunista ed all’indietreggiamento progressivo della leadership del PCUS, a vantaggio di ogni tipo di “via nazionale”, dall’Ungheria alla Cina, passando per la Jugoslavia, all’Albania alla Romania. Ma ancor più il contraccolpo ideologico farà emergere le proprie conseguenze geopolitiche molto più tardi, con l’esplosione “nazionalista” del blocco sovietico nel 1989.

Il 1956 chiude per il vecchio mondo la porta delle zone di influenza e la apre al mondo bipolare, mentre una finestra comincia già ad aprirsi sulla lotta odierna fra la mondializzazione liberale e la volontà dei popoli di mantenere la propria identità.

NOTE

(1) Viaggio nel maggio 1956 al Cremlino di Guy Mollet e del suo ministro degli esteri, Christian Pineau.

(2) Cockburn Andrew e Leslie, “Dangerous Liaison. The inside story of US Israeli covert relationship” New York, Harper Collins, 1991 (pagine 68-87).

Copyright © 2013. www.iacopi.org  Rights Reserved.