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IACOPI DISCENDENZE E STORIA

Una vita di ricerche per conoscere chi sono.

  

Le tre età della rivoluzione Islamista

LE TRE ETA’ DELLA RIVOLUZIONE ISLAMISTA

(Pubblicato con il titolo “Dalla rivoluzione iraniana alle reti di Al Qaeda” nel Forum della rivista www.graffiti-on-line.com  del giugno 2008)

L’Islamismo emerge negli anni ’70 del secolo scorso: con una volontà di ristabilire uno stato islamico. Dalla rivoluzione iraniana alle reti di Al Qaeda, analisi di una minaccia proteiforme, purtroppo sinonimo anche di terrorismo internazionale.

La crescita di importanza della radicalizzazione islamica prende corpo a partire dagli anni ’70 del secolo scorso. Inizialmente il suo sviluppo si è articolato su due livelli: da un lato l’emergenza dei movimenti politici islamismi che lottavano per la creazione di uno stato islamico, dall’altro una tendenza più fluida che lavorava prima di tutto per la reislamizzazione delle popolazioni mussulmane, sia nei paesi mussulmani sia e soprattutto nell’emigrazione. Una tendenza meno evidente perché ha assunto forme meno più di predicazione e culturali piuttosto che politiche. Infine, nei giorni nostri l’entrata in scena del movimento di Al Qaeda rivela la mondializzazione del radicalismo e della violenza politica dell’islamismo, che ha per obbiettivo principale l’azione contro la dominazione americana più della lotta contro i poteri corrotti dei paesi mussulmani

Sono definiti Islamismo ed islamisti quei movimenti, che vedono nell’Islam un’ideologia politica e che considerano che l’islamizzazione della società passa non solamente con l’applicazione della Sharia ovvero la legge islamica ma attraverso l’instaurazione di uno vero e proprio stato islamico.

Per comprendere il fenomeno è necessario fare qualche passo indietro. Il primo grande teorico dell’islamismo, l’egiziano Hassan al Bannah (morto nel 1949) fonda, nel 1928 – 29, il movimento dei “Fratelli Mussulmani”. Il suo compatriota Sayed Qotb (morto nel 1966) radicalizza il pensiero di questa confraternita negli anni ’50 - ’60. Nel frattempo Abu Ala Maududi (morto nel 1979) fonda in India, nel 1941, la Jamaat el Islami (la “Società islamica”). La politica e lo stato si trovano al centro dei pensieri di questi uomini e dei loro discepoli.

Questi nelle loro riflessioni tengono conto non solo del ricorso sistematico alla Sharia ma anche dei concetti moderni derivati dall’economia, dall’ideologia e dalle istituzioni e prendono in esame i problemi della società contemporanea (statuto delle donne, educazione, povertà, tecnologia ed anche il fenomeno della droga).

I loro movimento ha fatto proseliti fra gli intellettuali ed i tecnocrati, spesso lontano dagli Ulema (giuristi e teologi) tradizionali. Essi sono stati i vettori della grande ondata della contestazione islamica degli ani ’70 ed ’80 che è culminata con l’accesso al potere in Iran dell’ayatollah Khomeyni.

Si possono classificare fra i partiti di origine radicale. Oltre agli sciiti radicali iraniani pervenuti al potere, il Refah turco (che dà origine al partito AKP), la Jamaat e Islami pakistana ed i suoi epigoni afgani, la maggioranza dei Fratelli Mussulmani, Il Fronte Islamico di Salvezza (FIS) algerino, gli Hezbollah libanesi, l’Hamas palestinese (derivato dai Fratelli Mussulmani egiziani), il partito Islah nello Yemen, il Fronte Islamico Nazionale sudanese guidata da Hassan al Tourabi, il Nahda tunisino, il Partito della Rinascita tagiko, ecc.

Indubbiamente le differenze fra di loro, conseguenza della geografia, del tempo e delle situazioni locali, sono reali. Tuttavia tutti questi movimenti hanno in comune la stessa caratteristica: vogliono o hanno voluto islamizzare la società specifica e non l’Umma in generale (la comunità mussulmana), partendo dalla presa del potere politico. In questa logica essi sono gli eredi delle grandi ideologie occidentali del 19° secolo quali il marxismo. 

In parallelo allo sviluppo dell’islamismo, un altro movimento di fondo, meno appariscente, ha avuto una grande crescita: il suo obbiettivo non è quello di stabilire uno stato islamico, ma di lavorare al ritorno, su base individuale, dei mussulmani alla pratica ortodossa dell’Islam.

Questa tendenza è evidentemente molto più diffusa di quella politica degli islamisti, ma nella pratica ne prepara, involontariamente o no ed indirettamente, il terreno d’azione. La sua principale corrente è oggi rappresentata dal Wahabismo saudita. Questo movimento radicale puritano di riforma dell’islam affonda le sue origini nel 1700 ed a partire dagli anni ’70 si è impegnato in un’azione di proselitismo mondiale, appoggiato dalla potenza dei petrodollari della monarchia saudita. Il sostegno saudita aveva essenzialmente lo scopo di combattere l’islamismo politico, il nazionalismo arabo ed a partire dal 1979 la rivoluzione islamica sciita dell’Iran.

  1. Gli anni 1970: la strategia politica.

I grandi movimenti islamismi sono stati portati nei loro percorsi politici a mostrare un volto diverso dalla realtà od a nascondere i loro veri obbiettivi. Per il fatto che siano stati repressi o al contrario che abbiano avuto successo, questi hanno normalmente assunto ufficialmente delle posizioni accattivanti, apparendo, sia come dei movimenti conservatori senza prospettive rivoluzionarie, sia persino come movimenti di tipo “cristiano democratici”, estremamente moderati. Tutti o quasi hanno abbandonato il terreno della violenza e sono diventati più nazionalisti che islamisti, anche se il loro programma nel campo sociale rimane molto conservatore. Sulle questioni internazionali, si trovano spesso d’accordo con quello che resta della sinistra nazionalista, in particolar modo per quanto concerne il sostegno ai Palestinesi e l’ostilità contro Israele. L’esempio più emblematico della nazionalizzazione dell’islamismo è rappresentato dall’Iran che, dopo la fine della guerra con l’Irak nel giugno 1988, è gradualmente rientrato nei ranghi. Il Paese conduce oggi una politica estera fondata sui propri interessi nazionali, prescindendo da considerazioni ideologiche, rimaste nei discorsi o nelle dichiarazioni ufficiali. Se la lotta fra conservatori e liberali è molto dura sul piano interno, questa non ha, apparentemente, alcuna incidenza sul piano diplomatico, a parte gli aspetti simbolici nelle relazioni con gli USA ed Israele.  In occasione delle Guerre del Golfo del 1991 e del 2003, l’Iran non ha disturbato in alcun modo lo schieramento delle forze USA nella regione. Nei fatti ha finito per allentare gradualmente i suoi legami tradizionali: gli sciiti irakeni nel 1991, del Barhein nel 1996, afgani nel 1998. Nel Caucaso, l’Iran sostiene l’Armenia cristiana contro Azerbaigian sciita e collabora con la Russia per mettere fine alla guerra civile nel Tagikistan (giugno 1977). Nell’Afghanistan si ritrovato dallo stesso lato dei Russi, degli Indiani e degli Americani per sostenere l’Alleanza del Nord contro i Talebani in occasione della campagna del 2001.

Nel Golfo, nonostante il contenzioso con gli Emirati Arabi Uniti sulle isole di Tumb e di Mussa (già occupate dallo Shah nel 1971), l’Iran si è riavvicinato agli stati arabi conservatori sunniti (Arabia Saudita e Qatar). Infine, pur sostenendo gli Hezbollah libanesi ed i palestinesi, è rimasta in secondi piano in occasione della 2^ Intifada (Resistenza) del 2000.

Teheran vuole assumere un ruolo attivo insostituibile e fondamentale non solo nel Golfo ma anche nel Levante e cerca di approfittare del fallimento degli accordi di Oslo conclusi nel 1993 fra israeliani e palestinesi e delle difficoltà americane in Irak. Il programma nucleare iraniano che era stato iniziato dallo Shah è oggi sostenuto sia dagli islamisti, sia dai nazionalisti.

Negli altri paesi laddove il gioco politico è relativamente aperto (Giordania, Turchia, Kuweit, Marocco) gli islamismi occupano una posizione di centro destra, nazionalisti in politica estera e reazionari in politica interna (particolarmente sulla questione dei diritti delle donne). Allo stesso modo i Fratelli Mussulmani della Giordania hanno potuto allargare la loro influenza, facendosi i portabandiera del nazionalismo e del rifiuto dell’umiliazione di fronte alla politica israeliana.

Altrove, gli interessi nazionali hanno generalmente avuto il sopravento. Il FIS algerino ha rinunciato alla lotta armata e difeso, senza gran successo, un approccio pluralista (il suo braccio armato l’AIS ha proclamato una tregua nel 1996). Gli Hezbollah libanesi si comportano primariamente come una movimento nazionalista ed è riconosciuto come tale anche da una parte rilevante dei cristiani del Libano; Il partito yemenita Islah, ha giocato un ruolo importante nella riunificazione dello Yemen nel 1992, nonostante i desideri contrari del suo protettore saudita. Nel Sudan Hassan al Tourabi, che ha assunto il potere nel 1989, ha condotto una politica nazionalista prima di essere rovesciato dai militari nel 1999.

Nel Tagikistan, il partito della rinascita islamica è diventato, una volta associato al potere nel 1997, assolutamente nazionalista, difendendo l’identità tagika con Massud contro i Talebani e contro gli Uzbeki. Lo Jamaat el Islam afgano, il partito di Massud, non ha più alcun riferimento islamista e si presenta come un partito nazionale, con una base molto caratterizzata sul piano etnico (quasi esclusivamente tagiko).

La nazionalizzazione dell’Islamismo è chiaramente evidenziato dall’esempio palestinese. I Partiti islamisti (Jihad islamica ed Hamas) non hanno mai criticato Arafat sull’Islam ma i suoi compromessi con Israele. In occasione della 2^ Intifada, le correnti laiche ed islamiste sono divenute quasi indiscernibili: il Fronte Popolare della Palestina (FPLP, originariamente arabo e filo marxista) utilizza dei commando suicidi allo stesso modo degli islamisti ed i capi dei due movimenti partecipano insieme ai funerali dei loro militanti.

Nel contesto dell’ostilità contro gli USA che si sviluppa nel Medio Oriente a seguito del Fallimento della Road Map[1] con la Palestina e della campagna militare in Irak, oggi è molto difficile individuare ciò che è imputabile all’islamismo o al nazionalismo arabo. Di fatto il nazionalismo è la chiave del gioco politico nel Medio Oriente ed é da esso, piuttosto che dall’Islam, che gli islamisti traggono la loro spinta ed il loro dinamismo. E’ in questo modo che i movimenti islamisti sono riusciti ad entrare nel gioco politico. Essi hanno mobilitato delle categorie sociali che ne erano fino ad oggi escluse, alle quali hanno offerto una via diversa dal tradizionale clientelismo e dalla logica del clan.

Ciò nonostante i partiti islamisti, a parte i momenti eccezionali (rivoluzione iraniana, elezioni algerine del 1991), ogni volta che hanno potuto partecipare alle elezioni non hanno mai raggiunto quote superiori al 20 %. Se il Partito turco AKP (successore del Refah, disciolto nel 1998) ha potuto conseguire il 30 % dei voti alle elezioni del 2002 e giungere al potere, ciò è perché esso ha chiaramente rifiutato di dichiararsi come partito religioso. Questo vuole semplicemente mostrarsi come un partito di centro destra, conservatore nelle questioni della società, liberale sul piano economico e nazionalista in politica estera, dichiarandosi allo stesso tempo molto più filo europeo di altri partiti più profondamente laici. Il governo, diretto dall’antico sindaco di Istambul, Recep Tayyip Erdogan, al di là di roboanti dichiarazioni propagandistiche, da non sottovalutare, non ha un passato di islamista militante. Ma egli prova comunque con la sua azione a diminuire il peso dell’esercito nella società turca, che fino ad oggi è stato l’elemento equilibratore della nazione, nella direzione di una conclamata maggiore democrazia, che peraltro è ben lontana da quella occidentale.

I Fratelli Mussulmani egiziani, come il FIS algerino, si trovano sulla difensiva, il ramo giordano e kuwaitiano, integrati nel gioco parlamentare, si vedono relegati al ruolo di predicatori di una islamizzazione legale che non disturba il potere.

I fratelli siriani dal canto loro non hanno minimamente approfittato della scomparsa di Afed el Assad nel 2000. Il FIS che si è lanciato nella lotta armata dopo il 1991 e l’annullamento delle elezioni, ha comunque fallito nei suoi obiettivi. Da un lato perché un nuovo gruppo più estremista il GIA gli ha sottratto lo spazio della contestazione globale  e terrorista, dall’altro perché i governi europei e la maggioranza dei media e l’opinione pubblica hanno sostenuto il governo algerino. I cui reali scopi erano di impedire al FIS di divenire un attore politico alternativo e  di cercare di sradicarlo dalla vita politica algerina con ogni mezzo. Quest’ultimo mal preparato all’azione clandestina ha perso rapidamente la battaglia sul campo a favore dell’Esercito, il vero detentore del potere algerino e del GIA.

  1. Gli anni 1980: la conversione delle società

Mentre l’islamismo politico conosceva destini diversi, le società mussulmane, invece si sono largamente reislamizzate durante il periodo degli anni ’80. Questo processo, assai evidente, si concretizzato anche con segni esteriori simbolici quali l’uso del velo, l’ostentazione di simboli religiosi, l’uso generalizzato della barba ecc. Tenuto conto che la via politica era stato ovunque fallimentare, molti appartenenti ai Fratelli Mussulmani e vecchi islamisti si sono lanciati nella predicazione diretta, utilizzando tutti i mezzi de comunicazione: radio televisione, cassette audio ed internet. Sociologicamente questa nuova islamizzazione si è tradotta in uno sviluppo notevole di scuole religiose, statali (in Turchia) o private (Egitto, Pakistan, Malì, ecc). Tali scuole a volte finanziate da un fiume di petrodollari mettono a disposizione del mercato del lavoro delle grandi opportunità per numerosi “diplomati in religione”, per i quali l’islamizzazione del diritto e delle istituzioni rappresenta il solo mezzo per valorizzare la loro formazione. I Talebani afgani e pakistani sono appunto un prodotto di questa evoluzione (d’altronde la parola Talebano designava originariamente gli studenti di religione). Questa islamizzazione raggiunge tutti i settori della società, compreso il settore economico. Approfittando di un vento di liberalizzazione gli uomini d’affari islamisti, hanno messo in piedi un vero e proprio islamo business: vendita di abiti islamici, istituzioni finanziarie islamiche, ma anche istituzioni umanitarie, beneficenza e finanziamento di scuole private. In Turchia si assiste alla apparizione di un settore patronato laico dinamico che raggruppa nel Musiad, che si distingue da un grande patronato laico ed europeo (Tusiad).  Gli islamisti, abbandonando i discorsi socialisteggianti degli islamisti tradizionali influenzati dalla sinistra europea, propugnano oggi il liberalismo e la lotta allo stato accentratore; l’arricchimento personale è legittimo se il denaro è acquisito correttamente e se è purificato con l’imposta (la Zakat) e l’elemosina prevista dal Corano. Un discorso ben accetto dalla piccola borghesia mussulmana che approfittato (Egitto, Turchia, Tunisia, Iran, Marocco) o vorrebbe approfittare (Siria, Algeria) della crisi dei grandi sistemi monopolistici statali esistenti.

Allo stesso tempo si assiste anche alla reislamizzazione del diritto. Sono proprio gli stati a condurre questa azione, con l’obbiettivo di contrastare l’azione dei radicali, iraniana in particolare.  L’articolo 2 della costituzione egiziana del 1972 precisa che la Sharia è la fonte principale del diritto. Il Sudan promulga nel 1983 un codice penale islamico. Il Pakistan introduce nel 1985 la “Shariat Bill” che tende a fare della Sharia la sola fonte del diritto ed a rimpiazzare i Tribunali di tipo anglo sassone con quelli islamici. Nel Kuwait l’emiro Al Jabbar ha costituito dopo la 1^ guerra del Golfo un Comitato per islamizzare il diritto. Il Codice algerino del 1984 reintroduce la Sharia nello statuto personale, mentre nello Yemen, dopo la riunificazione del 1992, lo statuto islamico delle persone viene esteso a tutto il territorio.

Per evitare lo sviluppo di una predicazione selvaggia, gli stati si sono sforzati a impiantare ex novo o a rinforzare l’islam ufficiale, sotto forme e caratteristiche differenti. Istituzione di un Mufti ufficiale (colui che emana le Fatwa, consultazioni giuridiche o disposizioni ispirate al Corano), come in Egitto, nell’insieme delle repubbliche musulmane ex URSS ed in Siria. ; costituzione di una direzione degli affari religiosi come in Turchia (ci si domanda se la costituzione di un Consiglio Francese del Culto Mussulmano non risponda machiavellicamente a questa logica); la creazione di un Ministero degli Affari religiosi come in Giordania.. Questo clero ufficiale possiede il monopolio della nomina degli imam delle grandi moschee e dell’insegnamento religioso: questo è il caso specifico del Marocco (dove il Re è anche Amir al Munimim, ovvero Califfo), in Algeria, in Tunisia, in Egitto, in Siria, in Turchia ed in Uzbekistan. In Turchia dopo il 1983 l’insegnamento religioso è divenuto obbligatorio; i diplomi dei licei religiosi si sono visti aprire le porte dell’università. In Egitto lo stato ha affidato all’Università Al Azhar un nuovo compito di censura, riguardante in particolare i media elettronici. Solo in Arabia Saudita, in Pakistan ed in Afghanistan lo stato non controlla non controlla né la formazione degli imam né la predicazione nelle grandi moschee.

Così facendo gli stati si sono dovuti appoggiare su un personale religioso che, se gli è fedele sul piano politico, è in generale molto conservatore sul piano ideologico. Ne è testimonianza la creazione da parte dell’Arabia Saudita, nel 1963, della Lega Islamica Mondiale (Rabita) che finanzia la ricerca, l’insegnamento e la predicazione ed il cui personale è stato in larga parte reclutato fra i Fratelli Mussulmani; questi tra l’altro hanno il controllo di numerose istituzioni finanziate dalla stessa Lega. In Francia, ad esempio, l’Unione delle Organizzazioni Islamiche di Francia (UOIF), che domina il Consiglio Francese del Culto Mussulmano, è una organizzazione legata al mondo dei Fratelli Musulmani. In Egitto la posizione dell’Università El Azhar risulta, in merito a tutti i grandi problemi della società, esattamente identica a quella dei Fratelli; Faji Foda, intellettuale e romanziere laico egiziano, è stato assassinato poco tempo dopo che il rettore di questa università lo aveva dichiarato “apostata” nel 1992.

L’islamizzazione dl diritto è un potente mezzo che ha consentito ai conservatori di fare avanzare la loro causa.  Nel Pakistan i Tribunali della Sharia accettano oggi di aprire processi per apostasia o atti blasfemi. Nel Bangladesh lo scrittore Taslima Nasreen è stato perseguito per atti blasfemi dal tribunale di stato. In Egitto delle denunce di privati hanno ottenuto per sentenza di una corte l’annullamento del matrimonio dello scrittore Abu Zeyd contro il parere della coppia, con il pretesto che dichiarato “apostata” non può più essere sposato con una mussulmana.

La conseguenza di questa nuova islamizzazione della società è il fatto che i conservatori, attraverso questo mezzo arrivano a contestare una prerogativa esenziale dello stesso stato, quella di essere detentore e di stabilire il diritto, prerogativa che, di fatto, sta sfuggendo dalle loro mani (Egitto, Pakistan, Arabia Saudita), essendo esso stesso responsabile di tale situazione, per aver favorito questa logica.

Il paradosso è che tale prerogativa sfugge anche ai movimenti islamisti, che non arrivano a canalizzare e controllare un movimento la cui spinta si trova nelle nuove categorie sociali emergenti: notabili, uomini d’affari, avvocati, ecc. Queste ultime vi trovano nel sistema instaurato una maniera di notorietà e d’affermazione personale.

Lo sviluppo di nuove confraternite (Fethullah e Nurcu in Turchia, Kaftaro in Siria, Ahbbash in Libano) e la sopravvivenza delle confraternite tradizionali in Egitto, in Sudan ed in Marocco, servono oggi ad assorbire un certa quantità di clientela popolare che altrimenti sarebbe stata preda degli islamisti.

Ovunque il voto islamico si disperde: in Turchia, dopo il 1983, le confraternite hanno smesso di chiedere il voto per il Refah. I partiti islamisti non arrivano più a presentarsi come la sola espressione confessionale legittima dell’Islam in politica.

  1. Gli anni 1990: dal fondamentalismo al terrorismo.

Sul terreno fertile di questa nuova islamizzazione della società si sviluppa, a partire dagli anni ’90, un radicalismo islamico, molto differente dall’islamismo, non necessariamente violento ma che si rivolge ai diseredati dell’Islam: quelli che hanno scelto volontariamente di consacrarsi all’Umma come quelli che la mondializzazione ha costretto ad emigrare. Dalle Madrase, tenute dai Talebani nel sud dell’Afghanistan, fino ai siti islamici su internet, passando per la televisione saudita e per le numerose moschee della periferia parigina o londinese, s’impone una stessa visione dell’Islam, quella esportata dall’Arabia Saudita negli ani ’70, il Wahabismo. Gli stessi interessati rifiutano tale denominazione, preferendogli quello di Salafiti. Non si tratta, in apparenza, di un movimento strutturato ma piuttosto di una tendenza dell’Islam che dà la preminenza ad una lettura letterale e puritana del Corano, rifiutando persino la storia del mondo mussulmano, quella che è seguita alla società idealizzata del Profeta e dei suoi compagni.

Questo neo fondamentalismo vuole imporre alla Umma la sola Sharia come norma di riferimento di tutti i comportamenti umani e sociali: esso si  distingue dall’Islamismo nella misura in cui si disinteressa della conquista del potere dello stato e dei problemi sociale e rigetta persino l’idea di nazioni per consacrarsi completamente alla Sharia. Il Wahabismo differisce dal fondamentalismo tradizionale come dalla nuova islamizzazione conservatrice nel senso che intende ignorare le società e le culture mussulmane in nome del ritorno al passato ideale.

Essi rifiuta pertanto, in una stretta logica, ogni riferimento ad una cultura che si sviluppi a fianco o addirittura al di là di quello che è strettamente religioso: le arti plastiche, la musica, la filosofia, la letteratura, i costumi nazionali senza parlare delle influenze tratte dalle altre civiltà (es. festeggiare l’anno nuovo, fare un albero di Natale, ecc.). Con la scienza mantiene un rapporto strumentale (si al computer, no alla razionalità scientifica). Questa versione dell’Islam è fortemente opposta al Cristianesimo, al Giudaismo ed accessoriamente allo Sciismo. Ne sono testimonianza l’assassinio del monaco Tibehirine in Algeria nel 1996 o il rifiuto netto di accettare la costruzione di chiese sul territorio saudita.

La sua ossessione è quella di tracciare la linea rossa tra la vera religione (Din) e l’empietà (Kfur), linea che passa all’interno stesso della comunità mussulmana. Tutto viene ricondotto ad un codice del lecito e dell’illecito, ivi compresi i dettagli triviali come la maniera di tagliarsi la barba (Talebani afgani) o di spazzolarsi i denti. La promulgazione delle Fatwa (che definiscono la liceità di un caso) diviene l’attività principale degli Ulema o di predicatori “autoproclamati” (vedasi l’Imam di Moncalieri).

Una serie di Imam delle piccole moschee d’Europa, insistono sul perché le donne debbano portare il velo e non debbano partecipare alle lezioni di ginnastica. Continuano a raccomandare ai veri mussulmani di non stringere la mano alle donne e di non rispondere agli auguri occidentali per il nuovo anno. Questa ghettizzazione di una minoranza mussulmana, per certi aspetti ricercata per un migliore controllo su di essa, ha delle conseguenze sociali rilevanti.

Sul piano politico, si verifica un fenomeno ancora più inquietante: la radicalizzazione dei giovani emarginati nelle società occidentali ed attirati da questo neo fondamentalismo. A Londra, dei predicatori come Abu Hamza ed Omar Bakri vomitano a getto continuo anatemi e chiamano il popolo alla Jihad. Sempre a Londra, l’Hizb al Tahir (Partito della Liberazione), che recluta i suoi membri fra i giovani mussulmani della seconda generazione, ha un atteggiamento estremamente radicale nei suoi discorsi: richiamo alla proclamazione immediata del Califfato per tutti i mussulmani; condanna di qualsiasi partecipazione alla vita sociale politica del paese che li accoglie.

In questi stessi anni ‘90 alcuni di questi giovani mussulmani, in rotta con la società e con il loro stesso ambiente familiare, si sono progressivamente radicalizzati. Una radicalizzazione che si realizza in gran parte al contatto con l’Occidente; nessuno di questi giovani esce dalle scuole saudite (ad eccezione dei sauditi), quasi tutti hanno condotto studi moderni e la maggior parte di essi vive in Occidente. Khaled Kelkal, considerato responsabile degli attentati in Francia del 1995 e Zacharia Moussaoui, accusati di aver partecipato agli attentati dell’11 settembre 2001 a New York, sono purtroppo di origine francese. Più spesso, quelli provenienti dal Medio Oriente, si sono reislamizzati in Occidente, ai quali vanno aggiunti una notevole schiera di convertiti Tutti seguono lo stesso percorso: la radicalizzazione religiosa, santificata spesso in parallelo con un viaggio in Afghanistan (almeno prima del 2001 e della campagna USA contro i Talebani).

Gli internazionalisti mussulmani, prendendo in primo luogo, come bersaglio e simbolo, gli USA, sono per certi aspetti i veri eredi dell’estrema sinistra europea degli anni ’70 (Banda Baader Meinhof, Brigate Rosse, Azione Diretta).

L’internazionalizzazione del movimento è stata in gran parte opera di Al Qaeda. Tuttavia se ne trovano le primizie all’inizio degli anni ’90 con un “Ufficio di Servizi” creato a Peshawar nel Pakistan tramite un certo Abdullah Azzam, un fratello mussulmano, di origine palestinese che aveva lanciato nel 1979 un appello al mondo mussulmano per sostenere i guerriglieri mussulmani in Afghanistan.

Questo organismo che si incaricava di aiutare i Mujiahiddin afgani nella lotta contro le truppe sovietiche e mostrava chiaramente i segni del rifiuto del nazionalismo palestinese a beneficio di un internazionalismo militante mussulmano, può a ragione essere considerato un antenato di Al Qaeda.

La prima generazione dei militanti di questa organizzazione, fra i quali lo stesso Bin Laden, era composta di personaggi originari del Medio Oriente, partiti in Afghanistan per combattere i Sovietici e spesso ritornati nei loro rispettivi paesi per fondarvi un movimento radicale (vedi il GIA in Algeria). A partire dal 1992, appare una nuova generazione di militanti di Al Qaeda, molto più variegata e cosmopolita, sradicata e spesso molto occidentalizzata. Né il loro percorso né la loro azione hanno alcun nesso con i conflitti nel Medio Oriente. Essi si formano e prendono come terreno azione l’Occidente o la periferia del Medio Oriente (Bosnia, Cecenia, Afghanistan, Cashmir). Là trovano naturalmente appoggi nei gruppi locali, molto più tradizionalisti (Jamaat al Islami in Indonesia; Assirat al Mustaqim nel Marocco, reti salafiste nello Yemen ed infine dei gruppi radicali pakistani quali lo Jaysh Mohammed e Lashkar i Jangvi).

Utilizzando l’inglese, i telefoni satellitari, internet e passando da una nazione all’altra e da un hotel ad un campo afgano, questi militanti sono per certi aspetti una delle espressioni della globalizzazione. Conducono il loro combattimento solitario nel nome di una “Umma immaginaria”, senza inserirsi in nessuno dei movimenti di lotta nazionali “reali”.

La strategia di Bin Laden assomiglia a quella dei socialisti rivoluzionari russi e degli anarchici: condurre il popolo mussulmano al combattimento attraverso l’esempio dei martiri e l’effetto degli attentati che raggiungono il cuore della moderna corrotta Babilonia. Apparentemente non si intravede un progetto politico preciso anche se l’obbiettivo finale non si discosta molto da quello degli islamisti radicali tradizionali. Un movimento così organizzato non può essere oggetto di una guerra tradizionale. Anche se la guerra in Afghanistan è comunque servita a togliergli uno spazio vitale di autonomia e di organizzazione. Peraltro la tendenza che alimenta questo movimento sembra provenire essenzialmente più da problemi esistenziali ed identitari, che da una logica di classe o da un conflitto di interessi o di potere.

Non bisogna tuttavia dimenticare al Qaeda potrebbe anche non essere la madre di tutti i mali dell’Occidente, in quanto non è assolutamente dimostrato che la stessa sia l’espressione di una struttura unitaria del terrore mondiale, ma piuttosto una espressione significativa e più organizzata (e per questo più pericolosa) della intricata e variegata nebulosa del radicalismo mussulmano. In ogni caso il substrato ed il riferimento culturale (e forse non solo) di tale fenomeno permane sempre l’islamismo radicale, questo, appoggiato dall’estremismo radicale della sinistra europea, occupa ancora oggi in forze gli spalti dell’antimperialismo militante e terzo - mondista, in passato fiore all’occhiello dell’estrema sinistra mondiale (e che per certi aspetti spiega anche lo smarrimento odierno dell’antimondialismo e dei “no global” laici).

Il terrorismo arabo, in sostanza, anche se affonda le sue radici nell’islamismo radicale, non sembra essere solo ed esclusivamente un prodotto primario dell’islamismo e quindi un fenomeno di importazione dal Medio Oriente, ma piuttosto la somma e la coniugazione di questo con l’effetto dell’occidentalizzazione rifiutata, della globalizzazione e dell’immigrazione non integrata o che non si vuole o che non può culturalmente integrarsi.

In ultima analisi più di un confronto Occidente -  Islam il vero problema per gli Europei sembra essere piuttosto quello di un confronto con l’Islam dentro l’Occidente, un problema serio e pericoloso che dovrebbe far riflettere non poco i responsabili della costruzione di una comune identità europea.

 

[1] Piano a tappe adottato nel 2003 fra israeliani e palestinesi che doveva portare nel 2005 alla creazione di uno stato palestinese

Il capo ideale

IL CAPO IDEALE

(Pubblicato su RASSEGNA MILITARE dell’ESERCITO n. 6/2001)

Un paio di mesi fa, un corsivo dell’Alberoni sul Corriere della Sera incentrato sui problemi etici connessi con la convivenza sociale, mi ha indotto ad alcune riflessioni in ordine alla figura ideale di un capo militare ed in particolare ai valori di riferimento che dovrebbero ispirare la missione di un Comandante.

Quanto segue vuole pertanto rappresentare il risultato di tali riflessioni, chiaramente espressione del mio modo di essere e di interpretare la professione, nella speranza che lo scritto possa essere un utile spunto di confronto per ciascuno di noi e soprattutto motivo di ulteriori ineludibili approfondimenti personali.

Da più parti si parla nella nostra organizzazione della necessità di restaurare determinati valori e di fornire alla gente adeguate motivazioni per conseguire una migliore efficienza e credibilità. Certamente tutto questo è indiscutibile e soprattutto necessario ma troppo spesso ci si dimentica che qualsiasi Istituzione non è un organo astratto ma un complesso vivo formato da esseri umani, che per essere un gruppo solidale ha bisogno di una meta e di una dignità, necessita di una coscienza della sua utilità e deve percepire che il suo lavoro è apprezzato e stimato.

Tutte le strutture formate da uomini sono guidate da capi, che purtroppo sono anch’essi esseri umani !!

Il capo dovrebbe rappresentare comunque l’espressione migliore della compagine, l’oggettivazione delle capacità intellettuali e morali del suo substrato. Ma non sempre questo accade, specie se una struttura come quella dell’Esercito, dopo un lungo periodo di pace e di vita di guarnigione, ha inevitabilmente perduto nella massa - oberata e deviata dal tran tran quotidiano e routinario - parte dei suoi valori di riferimento etici e morali. Ciò non perché la gente che lo compone non conosca i valori alla base della sua professione, ma perché la necessità di sopravvivenza nella vita di guarnigione o di “corte” di tutti i giorni porta inevitabilmente e naturalmente ad omologarsi su atteggiamenti conformistici, carrieristici, a volte servili ed ambigui, in contrapposizione alla lealtà, all’onestà, all’esempio, alla generosità, al coraggio, che sono le virtù prìncipi di un soldato.

E’ chiaro che se un capo ha qualità intellettuali e morali elevate, diventa un leader, un elemento trainante del sistema e nella sua azione positiva sceglie e premia come collaboratori elementi positivi dotati delle sue stesse caratteristiche. Ma se il capo è un arrivista, uno speculatore, un egoista ed un corrotto, non potrà certo premiare i migliori elementi del suo sistema, ma avrà bisogno di circondarsi di gente similare quali, complici, delatori, sicari e nel migliore dei casi, servi ed adulatori.

Se il tempo di pace tende inevitabilmente a mettere in secondo piano certe virtù tipiche del soldato, ciò non vuol dire che la società civile e particolarmente quella militare possano permettersi di dimenticare alcuni valori che sono alla base del suo ordinato progresso ed evoluzione, quali le qualità morali. Queste mantengono immutabile nel tempo il loro valore e costituiscono un patrimonio intrinseco per ogni elemento di qualsiasi struttura sociale ed un imprescindibile punto di riferimento specie i capi ed i leader. Insomma i capi, oltre a possedere le necessarie ed indispensabili cognizioni e competenze tecniche, dovrebbero possedere in misura più o meno elevata un certo numero di “virtus”, presupposto indispensabile per creare un ambiente efficiente, solidale, cosciente e produttivo.

Vediamo ora quali di queste un militare, immerso nella routinaria vita di una guarnigione in tempo di pace, non dovrebbe mai dimenticare.

La Sincerità, contrapposta alla falsità, alla doppiezza, all’intrigo, alla calunnia ed all’ipocrisia;

l’Obiettività, intesa come capacità di valutare serenamente i fatti o le persone senza farsi influenzare dai pregiudizi e dalle maldicenze;

la Forza d’animo che viene dalla convinzione e fiducia nei giusti principi, che ispira fiducia e dà serenità nei momenti difficili;

l’Umiltà, cioè la capacità di ascoltare le opinioni degli altri, specie se diverse dalle proprie e di ammettere i propri errori;

il Coraggio, per decidere ed assumersi le responsabilità che competono ed esprimere coerentemente le proprie opinioni;

la Generosità, che è la capacità di dare qualcosa per gli altri, di riconoscere il merito degli altri, dando così l’esempio agli altri;

la Lealtà, che è il segno distintivo di chi ha la piena coscienza del proprio ruolo e delle proprie responsabilità, di chi comprende l'importanza degli impegni presi ed il valore della parola data e della dignità;

la Giustizia, che è la rara capacità di scegliere i capaci, gli onesti, i sinceri e scacciare i disonesti, i falsi, i calunniatori e chi prevarica e perseguita i più deboli.

Vediamo ora come un capo militare, supposto mediamente dotato di tutte le necessarie virtus, potrebbe interagire con la sua struttura e quindi con i suoi collaboratori/dipendenti.

La cosa più immediata da fare è quella di esaminare attentamente, in relazione ai compiti ed agli obiettivi da perseguire, la qualità del materiale umano posto a disposizione e sulla base delle deduzioni operate, adottare i provvedimenti che ne conseguono. In sostanza il comandante militare deve saper scegliere con rigore i propri collaboratori, deve potersi circondare di persone integre, fedeli, motivate e quindi mediamente dotate di analoghe virtus e scartare senza appello tutti coloro dei quali non ci si può fidare. Ma il capo militare può operare normalmente secondo un tale scenario? La risposta nella maggioranza dei casi appare sicuramente negativa. Di fatto se si deve costituire una “task force” per una determinata missione temporanea, forse è possibile mettere a disposizione del capo designato il meglio, traendolo dalle varie disponibilità, ma, nel caso normale di una assegnazione in comando di una unità, il capo militare verrà a trovarsi in una situazione completamente diversa da quella che teoricamente sarebbe auspicabile. In questo caso specifico il materiale umano è quello di cui si dispone ed il capo deve lavorare al meglio con quel che trova !!

In questo caso il comandante, fatti i possibili aggiustamenti organizzativi che derivano dalla sua analisi preliminare della situazione, deve poter procedere contando essenzialmente, sul proprio ottimismo, sul proprio entusiasmo, sulla propria buona fede, sulla capacità di convincere e motivare i propri dipendenti, sulla propria “tolleranza” a fronte di possibili ed inevitabili “doppiogiochisti” e coinvolgere nei propri progetti tutti quelli che vi vogliono partecipare, a prescindere dalle variegate motivazioni personali di ognuno.

Ciò significa che la “squadra” a disposizione del capo militare potrà essere a volte molto infida; vi potranno inevitabilmente trovare posto gli opportunisti, gli adulatori ed anche i traditori, che, di norma oltre a fare i delatori, spesso trovano diletto anche in esercitazioni letterarie di “prosa anonima”.

Ma questa situazione, come tutta la vita, è il vero banco di prova per il capo che, convinto di operare non per fini personali ma per la realizzazione di un progetto della sua Istituzione, tutte le volte che ottiene qualcosa di più o solamente più partecipazione dalla sua, non di rado, “eterogenea Armata”, ha motivo di inorgoglirsi, proprio perché ha veramente fatto il proprio dovere.

Un vero capo militare, in siffatta situazione, non può dunque disconoscere che in ogni essere umano c’è comunque qualcosa di buono, che in ogni dipendente deve poter sollecitare la parte migliore e, sforzandosi quindi di essere tollerante, deve abituarsi a considerare il tradimento ed il male ricevuto come il prezzo inevitabile della propria professione, nel quadro della più ampia convivenza umana. 

LIBANO, nascita di una nazione

LIBANO, NASCITA DI UNA NAZIONE

(Pubblicato su Rassegna Militare dell’Esercito n. 5/2008 con il titolo:

INTRIGO LIBANESE)

Il Libano é nato ufficialmente nel 1920 ed è diventato indipendente nel 1943. E’ nel 1919 nelle negoziazioni del trattato di pace che si è giocato il suo destino, che si ripresenta oggi in maniera drammatica. Quasi tutti i suoi problemi vengono dai germi del suo “fonte battesimale”.

Dopo lo scoppio della violenza nel Libano nello scenario delle guerre regionali e delle rivalità degli anni 1970, è diventato difficile parlare di questo paese senza risvegliare nei suoi vicini i vecchi demoni delle sue origini.

Alcuni sostengono, forse non a torto, che esso è stato ed inventato e creato artificialmente dalla Francia (1), altri che è stato costituito uno stato sullo spazio “naturale” e “storico” della “Grande Siria” il Bilad al Sham (2). Storici del Libano moderno preferiscono situare il loro stato nella continuità dell’Emirato del Monte Libano di epoca ottomana (3).

Lo scopo di questo lavoro non è quello di trattare la questione libanese e la successione delle guerre a partire dal 1975, ma piuttosto, nel momento in cui la situazione del paese sembra essere esplosiva, appare forse necessario chiarire le basi storiche e strutturali del Libano contemporaneo.

Lo Stato del “Paese di Cedri” è nato il 1° settembre 1920, nel momento in cui la regione passa sotto mandato francese ed inglese. Nella sua genesi, definizione, estensione, quale ruolo hanno ricoperto da un lato i movimenti nazionalisti e dall’altro le potenze europee impegnate nella regione e fra queste la Francia ?

La Francia, i Cristiani d’Oriente e l’Impero Ottomano

Le relazioni fra la Francia ed i Cristiani d’oriente sono cariche di una dimensione mitica ed affettiva che risale al tempo delle crociate. San Luigi in una lettera, che però oggi tutti sanno come apocrifa, si rivolge ai cristiani maroniti del Monte Libano, come a dei fratelli e si impegna a proteggerli. Che la Francia goda di relazioni privilegiate con l’Impero Ottomano sin dal tempo dell’alleanza politica fra Francesco 1° e Solimano il Magnifico nel 1535 e che la sua influenza si sia esercitata nel Levante da allora sono dei fatti storicamente provati. Infine il Regime delle Capitolazioni, stabilito a quel tempo, con le sue clausole di protezione dei Luoghi Santi e dei Cristiani d’Oriente, ne rappresenta l’aspetto più appariscente è costituisce un altro fatto consolidato. Luigi 14° (nel 1649) e Luigi 15° (nel 1737) confermeranno tale sostegno, continuando la politica francese nei confronti dell’Impero Ottomano.

Gli scritti dei viaggiatori in Oriente o dei consoli francesi in Oriente danno ampia testimonianza sui rapporti, tanto economici che culturali, fra la Francia e gli scali del Levante e sarà, ad esempio, l’eminenza grigia di Richelieu, il padre Giuseppe du Tremblay, che propugnerà la creazione del Collegio Maronita di Roma nel 1584.

Rivalità franco-inglese

Nel 19° secolo la rivalità fra la Francia e la Gran Bretagna trova nel Levante, in diverse occasioni, un terreno per misurarsi. La Francia di Thiers sostiene il Vicerè d’Egitto Mehemet Alì e suo figlio Ibrahim nelle loro ambizioni sulle province siriane dell’impero Ottomano ed in particolare sul Monte Libano. La gran Bretagna di Palmeston e dei suoi successori vi si oppone. Essa difende l’Impero ottomano contro Mehemet Alì ed interviene militarmente; il porto di Beyrut viene bombardato dal commodoro Napier nel 1840.

Il Monte Libano, governato dall’emiro Beshir 2° il Grande, fa le spese di questa rivalità regionale. La regione, dopo la sua caduta, viene scossa da 20 anni di agitazioni fra il 1840 ed il 1860. Dopo secoli, nel corso dei quali la coesistenza aveva avuto ragione dei problemi intercomunitarie, la tensione sale fra le fazioni libanesi. Si verificano massacri nel 1845 fra cristiani maroniti e drusi. Il regolamento di Shekib Effendi, vale a dire la spartizione del Monte Libano in due regioni amministrative, i caimacamat, non risolve nulla. Le violenze culminano nel 1860 a Deir el Kamar. Vengono inviati sul luogo dei soldati turchi da parte della Sublime Porta e per mettere fine ai massacri, un corpo di spedizione francese di 6 mila uomini, interviene nel Libano, con alla testa il generale Beaufort d’Hautpoul, in nome del concerto europeo delle Nazioni (Francia, Gran Bretagna, Russia, Austria Ungheria e Prussia). Altri massacri si verificano nello stesso periodo a Damasco, dove l’emiro algerino Abd el Kader (esiliato in questa città dopo la sua liberazione dalla Francia) riesce a salvare cristiani ed ebrei, che si rifugiano nella sua dimora.

1861-1915: il governo autonomo del Monte Libano

Una conferenza riunisce nel 1860 a Beyrut e quindi a Costantinopoli nel 1861, i consoli europei ed i rappresentanti dell’Impero Ottomano. Un regime speciale di autonomia viene instaurato nel Monte Libano, sulla base del diritto internazionale e nel quadro dell’Impero Ottomano. La Mutassarifiya o governatorato autonomo, può essere comparata ad una regione politica, con la Caza che rappresenta una sua suddivisione subordinata ed il mudirieh che è l’equivalente del nostro comune. Il governatore è un cristiano, ma non libanese. La Sublime Porta non vuole in effetti cedere alle pressioni francesi che spingono per un candidato libanese cristiano; il governatore viene pertanto nominato fra i cristiani dell’impero (Albanesi, Armeni o altri) e questo fatto deve costituire fattore di imparzialità.

Un consiglio amministrativo di dodici membri  (4 maroniti, tre drusi, due greco ortodossi, 1 greco cattolico melkita, un sunnita ed uno sciita) controlla i principali servizi pubblici: le finanze, i lavori pubblici e le forze di sicurezza (viene fondata per l’occasione una gendarmeria di 400 uomini). La sua composizione obbedisce ad una rappresentanza confessionale proporzionale al peso delle comunità del Monte Libano. I suoi primi membri sono nominati dal governatore Daud Pasha (1861-68) ed i seguenti saranno eletti dagli sceicchi di villaggio.

Per la Giustizia vengono creati tre tribunali di prima istanza, ciascuno composto da un giudice e da un sostituto, nominati dal governatore. Gli sceicchi di villaggio hanno la competenza del giudice di pace in materia civile, per gli affari che non superano le 200 piastre ed in materia criminale. Quanto agli affari commerciali, questi possono essere regolati con un arbitrato locale o giudicati dal tribunale del commercio di Beyrut. Per la cassazione occorre recarsi a Costantinopoli.

Si tratta di un abbozzo di stato democratico, macchiato è pur vero, sin dall’origine da una rappresentanza di tipo confessionale nel Consiglio (4). Alla vigilia della 1^ Guerra Mondiale la percentuale di Cristiani (5) è del 75% e quello dei mussulmani (sunniti, sciiti e drusi) (6) del 25%. Nel seno della comunità maronita, la nascita di una borghesia ricca e colta viene favorita dallo sviluppo della sericoltura. Questa borghesia, in presa diretta con le idee del suo tempo, è aperta sul mondo europeo ed occidentale, ma preserva i modi di vita e le abitudini che condivide con i membri delle altre comunità. In tale contesto vi si incontrano matrimoni endogamici con la cugina diretta (figlia del fratello del padre) o con la cugina, figlia del fratello della madre, abitudini che si ritrovano indifferentemente sia nella comunità cristiana che mussulmana.

Il regime di autonomia del Monte Libano dura dal 1861 al 1915, cinquantatre anni di pace civile. L’entrata in guerra degli Ottomani a fianco dei Tedeschi, provoca l’immediata soppressione dell’autonomia, così come la decadenza del regime delle Capitolazioni. Il Monte Libano ricade nel 1915 sotto la presa diretta della Sublime Porta.

Smembramento dell’Impero Ottomano

La sconfitta della Germania provoca anche quella dell’Impero Ottomano. La conferenza di pace si apre a Parigi agli inizi del 1919 e la sorte delle province arabe dell’impero costituisce l’oggetto di accordi segreti, stipulati, durante la guerra, fra Gran Bretagna, Francia, Italia e Russia.

In linea di massima con questi accordi, in particolare quelli fra l’inglese Mark Sykes ed il francese François Georges Picot, nel 1916, gli Alleati promettono agli Arabi un regno arabo indipendente o una confederazione di stati arabi indipendenti; il loro obiettivo è di convincere il loro rappresentante lo Sceriffo Hussein (hashemita, discendente dalla famiglia del Profeta e guardiano dei luoghi santi della mecca) ad entrare in guerra a loro fianco contro i Turchi.

E’ proprio sulla fiducia di queste promesse che Hussein scatena contro l’Impero Ottomano, nel 1916, la rivolta araba ed alla testa della quale pone suo figlio Faysal. Questi trova il sostegno dei Britannici ed in particolare del giovane colonnello Lawrence, la cui azione nell’ambito delle forze arabe sarà ricordata dalla storia come una epopea.

Nonostante le promesse fatte ad Hussein, gli Alleati si attribuiscono delle zone di influenza e di interessi nelle province arabe dell’impero: una “zona rossa”, di amministrazione diretta per i Britannici ed una “zona blu”, di amministrazione diretta per i Francesi, che si estende dalla Cilicia alla Palestina. Quest’ultima costituisce la “zona bruna”, con l’internazionalizzazione di Gerusalemme.

I termini della spartizione regionale si modificano tuttavia con l’evoluzione del rapporto di forze sul terreno militare. La Russia diventata bolscevica si ritira ed esce dal gioco. L’Inghilterra, padrona del terreno, conta di aumentare la sua parte ai danni della Francia. Prima dell’offensiva vittoriosa delle sue truppe in Palestina e l’entrata degli Alleati a Gerusalemme (11 dicembre 1917), la Dichiarazione Balfour prevede di concedere ai sionisti, al termine della guerra, un focolare nazionale ebreo in Palestina (2 novembre 1917). L’America, soprattutto, entrata in guerra nell’aprile 1917, può imporre la sua visione politica e diplomatica. Wilson annuncia i principi che la guidano nel suo celebre discorso in 14 punti del gennaio 1918. Per le questioni d’oriente il presidente non risparmia le critiche alla diplomazia del segreto e preconizza l’invio di una commissione di inchiesta per conoscere le aspirazioni delle popolazioni, in virtù del diritto dei popoli a disporre di sé stessi.

Ma che cosa vogliono i popoli delle province arabe d’oriente sotto il dominio ottomano dall’inizio del 16° secolo ? Alla vigilia della 1^ Guerra Mondiale si potevano individuare tre grandi correnti di pensiero:

Il movimento dei nazionalisti del Monte Libano, principalmente maronita, è favorevole all’indipendenza e ad una estensione del suo territorio. Esso rivendica specialmente la piana cerealicola della Bekaa ed un porto sulla costa mediterranea, Beyrut o Junieh. Questo progetto nazionale trova l’appoggio di un certo numero di notabili drusi e mussulmani. Trova altresì appoggi presso i Libanesi d’Egitto e delle Americhe.

Il nazionalismo arabo si appoggia sul movimento degli intellettuali siro-libanesi della Nahda (Rinascita). Inizialmente favorevoli ad una semplice autonomia nell’ambito ottomano, passano poi, dopo la rivolta araba, a richiedere una vera indipendenza delle province arabe che vanno dai Tauri (Turchia) all’Hedjaz (Arabia Saudita) sotto la forma di un regno arabo assegnato agli Hashemiti e nel quale il Monte Libano potrebbe continuare a godere della sua autonomia.

Il progetto della Grande Siria o della “Siria integrale” viene inizialmente lanciato dagli ambienti coloniali francesi, preoccupati di mantenere il controllo sulla regione, dove giudicano che la Francia ha degli interessi tradizionali. Questo progetto viene appoggiato dai siro libanesi d’Egitto. L’idea di una Grande Siria, che comprende i territori della mezzaluna fertile, sarà successivamente ripreso da Antun Saadé e dal suo Partito Popolare Siriano (PPS), fondato a Beyrut nel 1932 e quindi dal Partito Baath siriano a partire dal 1970 ed infine da Hafez Assad dal suo arrivo al potere.

Trattative alla Conferenza di Pace

Nulla fra gli accordi segreti stipulati fra gli Alleati, regolava la questione dei limiti dei paesi immaginati per rimpiazzare le province arabe dell’impero. Si trattava solamente di un accordo quadro generale al quale veniva lasciata volutamente della flessibilità per poter negoziare alla fine del conflitto. Nel corso degli incontri della conferenza e del Consiglio dei Quattro, nel 1919-20, Britannici e Francesi discutono per armonizzare i loro interessi (principalmente relativi al petrolio ed al suo istradamento), sforzandosi di mantenere le promesse a fronte dei loro partners arabi, siriani e libanesi. La Francia, in particolare, vuole recuperare il terreno perso in favore della Gran Bretagna e preservare al meglio i suoi considerevoli interessi economici, finanziari e culturali nel Levante.

In un primo tempo la rivalità franco-inglese in Oriente si acuisce. Gli Inglesi dall’ottobre 1918 recalcitrano a condividere la loro influenza. Essi impongono nell’ottobre 1918 il governo arabo dell’emiro Faysal a Damasco, dopo aver cacciato gli emiri Abd el Kader e Said al Jazairi, che avevano formato un governo provvisorio favorevole alla Francia (in effetti Damasco si trovava nella zona d’influenza francese prevista dall’accordo Sykes-Picot del 1916).

Sono sempre gli Inglesi che, su istigazione del colonnello Lawrence incitano l’emiro Faysal a recarsi alla Conferenza di pace a Parigi dal novembre 1918, mettendo i Francesi davanti al fatto compiuto e creando quasi un incidente diplomatico.

All’inizio di dicembre 1918 Clemenceau e Lloyd George si incontrano nell’ambasciata di Francia a Londra. I Francesi vengono assicurati del sostegno inglese sul problema della sicurezza della frontiera renana ed anche per la concessione del 25% della TPC (Turkish Petroleum Company) ed in contropartita e senza troppe difficoltà, sembrerebbe, la Francia cede il vilayet di Mossul (con la promessa di avere la sua partecipazione alla spartizione del petrolio della Mesopotamia (fatto che assicurerà alla Francia l’approvvigionamento sino alla 2^ Guerra Mondiale) (7) e promette di convincere il Ministero degli Esteri di Parigi di rinunciare alla protezione dei Luoghi Santi in Palestina.

Durante il 1919, quello che più interessa Clemenceau, preso dalle questioni complessive della conferenza e specialmente dalla soluzione della questione tedesca, è di riguadagnare terreno in Oriente. Il suo anticolonialismo lo incita altresì a trovare una intesa con l’emiro Faysal per rispettare i termini dell’accordo Sykes-Picot. Da ultimo egli si preoccupa di salvaguardare gli interessi francesi nel Levante e di proteggere i cristiani maroniti.

Durante questo periodo si succedono a ritmo serrato delegazioni libanesi a Parigi che ottengono l’assicurazione che il libano non sarà dimenticato. Faysal, per contro, ha dovuto rinunciare al grande regno arabo sognato dagli Hashemiti, per contentarsi di un regno arabo siriano.

I Libanesi, basandosi sul fatto della loro dimostrata fedeltà a Parigi e partendo dallo statuto dell’autonomia del 1864 chiedono l’indipendenza. Davanti ad una situazione di stallo il patriarca dei maroniti Elia Hoayek si reca a Parigi per perorare la causa dell’indipendenza libanese  nelle sue “frontiere naturali” sotto il mandato francese. Ma la Francia resta prudente in quanto, allo stesso tempo, sta negoziando anche con Faysal.

Faysal - Clemenceau: l’occasione mancata

Alla ricerca di una soluzione definitiva alla questione siriana, il presidente del consigli francese da di fatti priorità all’accordo con l’emiro Faysal. Due negoziati hanno luogo a distanza di sei mesi. Il primo fallisce ed il secondo porta alla firma dell’accordo provvisorio Faysal-Clemenceau del 6 gennaio 1920, poco prima che il francese lasci la scena politica.

Questo accordo è stato per lungo tempo considerato dagli storici arabi come l’unico siglato (e quindi con un valore giuridico ridotto). In ogni caso Clemenceau era riuscito a convincere Faysal sul miglior compromesso possibile del momento. Da un lato la Francia riconosceva l’indipendenza e la sovranità della Siria. Dall’altro l’emiro accettava l’esistenza di un Libano indipendente e sovrano, i cui limiti sarebbero stati definiti solo al momento della firma dell’accordo definitivo. L’emiro accettava il mandato francese e la presenza di consiglieri tecnici francesi presso di lui. Con questo accordo, a parte alcune debolezze strutturali, si riusciva ad armonizzare le promesse fatte agli Arabi (la maggioranza sunnita) e quelle fatte ai maroniti (minoranza). Ma da parte francese l’ostilità al nazionalismo arabo siriano li spinge progressivamente al rigetto dell’accordo. Da parte sua Faysal, ancora non consolidato ed influenzato sia dall’autorità di suo padre e dai nazionalisti siriani, si rivela incapace di rispettare i termini dell’accordo. Ed in questa situazione l’arbitraggio fra i contendenti verrà effettuato con ….  l’uso delle armi.

Sanremo 1920: due stati sotto mandato

A Sanremo, il 24 aprile 1920, la conferenza di pace attribuisce il mandato sull’Irak e la Palestina alla Gran Bretagna ed alla Francia quello sul Libano e sulla Siria; lo stesso giorno viene firmato l’accordo franco-britannico sul petrolio, sulla sua ripartizione e sul suo istradamento.

Ma Faysal, proclamato Re della Siria nel marzo 1920, manifesta le più grandi reticenze ad accettare i termini dei mandati di Sanremo. Le relazioni diventano tese e non cessano di deteriorarsi fra il re e l’Alto Commissario del Levante, il generale Gourand, fino alla battaglia di Mayssalun del 24 luglio 1920, che vede la sconfitta araba e l’eliminazione di Faysal. Gourand procede a quel punto, il 1° settembre 1920, sulla base delle direttive ricevute (8), alla suddivisione della Siria in tre stati ed alla formazione del Grande Libano. La filosofia politica che regge i provvedimenti adottati rappresenta il completo ribaltamento delle regole che avevano prevalso in Francia a partire da Francesco 1°. I dirigenti del Quai d’Orsay ritengono che la “clientela” francese dei cristiani del Libano rappresenti una buona base per l’influenza della Francia nel Levante (mentre Clemenceau era persuaso che gli interessi francesi sarebbero stati meglio preservati trovando un accordo con la maggioranza sunnita e con la minoranza maronita, evitando di contrapporle). Questo è una svolta decisiva della politica araba francese e l’inizio del declino dell’influenza francese nel Vicino Oriente.

Da un lato, dunque, la frammentazione della Siria in più stati - Stato di Damasco, Governatorato di Aleppo e Territorio degli Alatiti (9), solo ad avere uno sbocco al mare – non può che determinare l’opposizione dei nazionalisti arabi. Dall’altro il territorio del Grande Libano, comprendente il Monte Libano del 1864, viene ingrandito ben al di là dei desideri dei nazionalisti libanesi con dei territori delle province di Beyrut e di Damasco, in special modo la valle della Bekaa, l’Akkar nel nord ed il Gebel Amel nel sud e con diversi porti sulla costa mediterranea, fra cui Tripoli, allo sbocco dell’oleodotto iracheno, che interessa la Francia.

Tutto questo è all’origine delle difficoltà del mandato francese in Siria e Libano, che dovrà affrontare la grande rivolta siriana del 1925-26, poi la contestazione costante del Grande Libano da parte dei nazionalisti mussulmani, specialmente a Tripoli, fino all’indipendenza del paese nel 1943.

Il patto nazionale islamico-cristiano, non scritto ma ancora in vigore (concluso fra il presidente maronita Beshara El Khoury ed il primo ministro sunnita Riad el Solh), consentirà al Libano di vivere dal 1943 al 1975 in una certa armonia. Ma la struttura comunitaria, sancita dalla Costituzione del 1926 (adottata sotto l’autorità dell’Alto Commissario Henry de Jouvenel, con una rappresentanza proporzionale delle differenti comunità nel governo e nell’amministrazione) (10) maschera, in effetti, sia i problemi confessionali, sia le tensioni regionali con la Siria, diventata anch’essa indipendente dal 1946. In realtà la Siria, pur avendo riconosciuto le frontiere del Libano, non intrattiene relazioni diplomatiche con il suo vicino.

La formazione di questi stati-nazioni, a seguito della dissoluzione dell’Impero Ottomano, già dall’inizio da origine a degli antagonismi e delle incomprensioni. Oggi si può constatare, usando le parole di Stefano Yerasimov, che “E’ stato il trionfo del nazionalismo, l’elemento più facilmente percepibile e applicabile del modello occidentale, che ha sommerso non solo l’impero, ma anche i sogni di pan islamismo e di unione araba, attraverso l’adozione in Medio Oriente di uno stesso schema di Stati nazionali, passando per il purgatorio del sistema mandatario” (11).

Il contenzioso resta vivo al termine di 80 anni e le elites formate dalla Francia rischiano sempre dei rimaneggiamenti conseguenti alla fragilità di questi giovani stati e alle tensioni costanti che vive la regione da tre quarti di secolo.

Nascita di una nazione ?

E’ nato uno Stato-nazione nel 1920 quando è stato costituito il Grande Libano ?

La risposta sembrerebbe positiva ove si consideri che esso è stato voluto dai nazionalisti libanesi, cristiani maroniti maggioritari nel Monte Libano (e minoranza nell’Impero Ottomano) e con il sostegno di alcuni rappresentanti drusi e mussulmani del consiglio amministrativo del Monte Libano. Il Grande Libano è nato dalla coincidenza di interessi fra la Francia ed i nazionalisti libanesi. Ma sin dall’inizio questa formazione si è trovata in conflitto con i desideri dei nazionalisti arabi siriani. Questi ultimi vedono infranto il loro sogno di unità e di indipendenza siriana, poiché il regno arabo di Damasco viene frazionato in tre stati, mentre invece il Grande Libano viene ingrandito ben oltre le richieste dei nazionalisti libanesi.

In tal modo l’atto di nascita del Libano contemporaneo conteneva già i germi delle difficoltà e dei conflitti futuri. Se il sentimento nazionale era molto forte al tempo del Monte Libano autonomo, la maggioranza cristiana viene a trovarsi nel nuovo stato fortemente diluita. Per di più alcuni mussulmani hanno avuto la sensazione che la nuova entità era stata costituita più per i cristiani che per loro. Da parte delle comunità mussulmane l’adesione all’identità nazionale è avvenuta per tappe, dal 1926 fino agli anni 1990, anche se rimane pur sempre la pregiudiziale secondo la quale “l’Islam domina e non può essere dominato”. Tale adesione viene realizzata dall’alto, vale a dire attraverso l’istituzionalizzazione delle comunità (ad esempio l’Alto Consiglio Sciita nel 1926).

Essa si è forgiata anche col tempo e paradossalmente grazie ai conflitti nel corso del 20° secolo. In primo luogo alla fine degli anni 1930, quando i mussulmani libanesi (sunniti sciiti e drusi) hanno accettato di non rimettere in discussione l’entità libanese, a condizioni che i cristiani accettino un Libano dal volto arabo e che rinuncino alla protezione della Francia, fatto che si è concretizzato con il Patto nazionale del 1943 all’Indipendenza del Libano. Questo sentimento di appartenenza si è ancora rinforzato durante i terribili anni di guerra fra il 1975 ed il 1990.

Dopo quegli anni, di fronte al “protettorato siriano”, conseguente agli accordi di Taif nel 1989 (12), l’identità libanese è rimasta fragile, come la stessa struttura dello stato, in assenza di progressi nel processo di pace regionale. Le nuove sfide regionali hanno trovato un ampia cassa di risonanza nel Libano, epicentro di tutti i conflitti a partire dal 1975. La risoluzione n. 1559 dell’ONU (il cui scopo principale è il disarmo di tutte le milizie uscite dalla guerra del Libano e mirando principalmente la milizia di Hezbollah e la partenza delle truppe siriane) e le sue conseguenze hanno cristallizzato dei raggruppamenti antagonisti, mentre gli appoggi regionali ed internazionali contribuiscono a perpetuare il vicolo cieco esistente.

L’integrazione a pieno titolo della comunità sciita nel gioco politico libanese (la cui crescente demografia non cessa di aumentare dagli anni 1970) (13), tarda a prendere forma, nonostante la strutturazione politica, economica e sociale di questa comunità e soprattutto della sua capacità di resistere ad Israele.

La guerra del luglio 2006, contrariamente a tutti i timori, ha provocato un largo movimento di intesa intercomunitaria per sostenere l’azione della resistenza sciita di fronte all’aggressione. Sfortunatamente dopo questa guerra, delle nuove tensioni sono insorte o sono in germe fra gruppi comunitari largamente dipendenti dal sostegno esterno e regionale (specialmente dell’Iran e dell’Arabia Saudita); esse mettono in pericolo il Libano e la sua identità. Questa volta i rischi di conflitto fra mussulmani sciiti e mussulmani sunniti sono ben reali, attizzati sia dall’interno del paese che dalle tendenze regionali. Oggi un dirigente cristiano, il generale Michel Aoun (maronita) combatte il confessionalismo e preconizza l’istituzione di una laicità dello stato e della società. Se questa riforma avesse luogo essa favorirebbe principalmente gli sciiti che hanno conosciuto una progressione spettacolare in tutti i campi (demografico, culturale, economico e politico) e che attribuisce loro un posto preponderante in seno all’islam libanese. Ma in una società che non è pronta ad adottare una laicità di tipo occidentale, l’abolizione del confessionalismo avrebbe delle conseguenze disastrose per i cristiani che sarebbero costretti  a subire l’egemonia islamica. Ma lo stesso confessionalismo non può continuamente essere declinato con la demografia.

Quanto tempo questo paese, così duramente messo alla prova, potrà resistere alle forze interne, regionali ed internazionali ? Nel 19° secolo il Monte Libano e nel 20° secolo il Grande Libano sono riusciti a superare le prove ed i conflitti. Nel 21° secolo riuscirà il Libano a superare le sue difficoltà e ad integrare nella sua vita politica tutte le sue comunità in una nuova intesa nazionale, rinforzando le strutture statali ?. Il tempo darà col tempo le sue risposte, ma certamente tutti i problemi del Libano di oggi vengono tutti inevitabilmente dai germi del suo “fonte battesimale”.

NOTE

(1) Firro K.M., Inventing Lebanon. Nationalism and the State under the Mandate, Londra e New York, Tauris, 2003;

(2) Questa denominazione, che risale ai geografi arabi del 9° - 12° secolo, designa un vasto insieme naturale compreso fra i Monti Tauri a nord, il Sinai a sud, il Mare Mediterraneo ad ovest e l’Eufrate ad est;

(3) E’ il caso di numerosi storici siriani contemporanei;

(4) Questa particolarità libanese verrà spesso percepita come “antidemocratica” da un Europa dove in genere si ha l’abitudine di coniugare democrazia con secolarizzazione. Ma in realtà ci si interroga raramente sulla sua pertinenza in un Medio Oriente che per intero è segnato da una concezione confessionale dello stato e della società. Questo vale per quei paesi che hanno decretato l’islam come religione ufficiale ed il cui diritto si ispira alla Sharia; per la Turchia dove la laicità non significa neutralità dello stato in materia religiosa, poiché lo stato ha messo sotto tutela l’Islam sunnita; per l’Iran sciita dove il potere reale è detenuto dai religiosi e lo stesso per Israele, stato creato dagli Ebrei per gli Ebrei;

(5) I maroniti, numericamente maggioritari, perseguitati dai bizantini, si sono rifugiati sin da 7° secolo nelle montagne del Libano; essi sono stati raggiunti nel tempo da Melkiti, Caldei, Siriaci, Armeni, Copti e quindi da cristiani d’occidente. Il patriarca Maronita era il solo fra i suoi pari ad essere dispensato con Firman (decreto d’investitura) del Sultano-Califfo ed autorizzato ufficialmente ad esercitare la sua carica. Fatto che ha conferito a questa comunità un grande prestigio;

(6) I sunniti vi sono stati trasportati dalle dinastie Omeyyade ed Abbassidi per controllare il litorale mediterraneo e sono prsenti nelle grandi città della costa Tripoli, Beyrut e Sidone; gli Sciiti, umiliati e  considerati come eretici dagli imperi sunniti hanno trovato rifugio nelle montagne di Byblos, nella Valle della Bekaa, a Tiro e la sua regione nel sud del paese; i Drusi, setta dissidente dello sciismo, apparsi nell’11° secolo, sono emigrati dall’Egitto nel Libano principalmente nella zona del Chouf e della Bekaa ovest;

(7) Si potrebbe affermare che Clemenceau abbia rinunciato al petrolio per assicurarsi la sicurezza sul Reno;

(8) Nota del 17 luglio 1920 di Robert de Caix “Esquisse de l’organisation de la Syrie sous le mandat français” (Schizzo dell’organizzazione della Siria sotto mandato francese);

(9) Gli Alawiti, anche essi setta dissidente dello sciismo, ma dalle origini più oscure, tradizionalmente riuniti nella zona marittima di Latakia;

(10) Repubblica parlamentare con separazione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario) che non professa alcuna religione pur definendosi una federazione di 18 comunità religiose. L’art. 9 della Costituzione recita infatti: “Rendendo omaggio all’Altissimo, lo stato rispetta tutte le confessioni e ne garantisce e protegge il libero esercizio a condizione che essa non porti pregiudizio all’ordine pubblico. Lo stato garantisce altresì alle popolazioni, a prescindere dal rito a cui appartengono, il rispetto del loro statuto personale e dei loro interessi religiosi”. L’uguaglianza di tutti viene rispettata ma in un contesto confessionale e non in un quadro individuale, perché si nasce e si vive in un ambito confessionale; anche le formazioni politiche sono poste sotto le confessionalità: Hezbollak sciita; Partito Kataeb maronita ecc.);

(11) Yerasimov S., Questioni d’Oriente, frontiere e minoranze dai Balcani al Caucaso, La Decouverte, 1993;

(12) Documento di Intesa Nazionale firmato dai deputati riuniti a Taif in Arabia Saudita sotto la pressione delle potenze regionali. Ribadendo la pripartizone confessionale delle tre principali cariche dello stato introduce notevoli cambiamenti. Le funzioni presidenziali sono state ampiamente ridotte a favore del primo Ministro. La camera vede la parità di deputati fra cristiani e mussulmani; abolizione del reclutamento confessionale nelle amministrazioni per i funzionari di 3^ categoria;

(13) Come la crescita della comunità maronita agli inizi del 20° secolo.

LEPANTO dall'alba al tramonto

LEPANTO

dall'alba al tramonto

 

(un estratto del presente articolo è stato publicato su “Gli antichi Statuti del Comune di Nettuno” ed. maggio 2005)

 

La mattina del 7 ottobre 1571 la flotta della Lega cristiana avvista i legni turchi. Alle ore 12.00 le galee di Alì Pascià si gettano all'arrembaggio delle navi di don Giovanni d'Austria. Al tramonto, dopo prodigi di valore da ambo le parti, la battaglia è vinta da parte della lega Santa. Per la prima volta l'espansione ottomana nel Mediterraneo viene arrestata.

La Lega Santa

Il 20 maggio 1571 viene finalmente firmata la Lega Santa contro i Turchi. Vi aderiscono il Regno di Spagna, la Repubblica di Venezia, lo Stato Pontificio, le Repubbliche di Genova e di Lucca, i Cavalieri di Malta, i Farnese di Parma, i Gonzaga di Mantova, gli Estensi di Ferrara, i Della Rovere di Urbino, il Duca di Savoia, il Granduca di Toscana. Le spese vengono divise in sei parti: tre a carico della Spagna, due di Venezia e una del papa.  La Lega era stata fermamente voluta da Pio 5°, Michele Ghislieri, nato ad Alessandria nel 1504, povero pastore di pecore, frate domenicano, inquisitore. Divenuto papa nel 1566 egli imposta la sua azione ad una rigorosa riforma della Curia e della città di Roma, combattendo l'eresia protestante in tutta Europa.

Forze in campo

La flotta della Lega Santa risulta costituita da:

- Repubblica di Venezia: 114 galee sottili; 54 con equipaggi provenienti da Venezia, 30 da Creta, 7 dalle Isole Ionie, 8 dalla Dalmazia, 15 da città di terraferma ed altri. Agli ordini dell’Ammiraglio in Capo (Signore del mare, deriva da Amir - alComandante di) Sebastiano Venier imbarcato su una galea bastarda la “Capitana” (più lunga dell’ordinario; per la quale sono occorsi 300 abeti e larici; 300 querce e 60 faggi) e del Provveditore Generale della Flotta (dal latino Providere. Ufficiale pubblico incaricato di un comando di una nave, di una piazzaforte, od anche ufficiale di sanità) Agostino Barbarigo;

- Repubblica di Venezia: 6 galeazze. Le galeazze sono delle vere e proprie fortezze galleggianti munite di 40 o più cannoni, in grado di sparare palle da 13 chilogrammi in coperta e da 23 chilogrammi da sottocoperta. Agli ordini dell’ammiraglio Francesco Duodo, alle dipendenze del Venier;

- Regno di Spagna: 36 galee sotto il comando spagnolo con equipaggi di Napoli (19 galee) e  di Sicilia, Il Comandante in Capo è Don Giovanni d’Austria che alza le sue insegne sulla “Real”.

- Regno di Spagna: 22 galee sotto il comando spagnolo con equipaggi di Genova; si trattava di 10 galee prese a nolo dal finanziere Gian Andrea Doria, nipote di Andrea Doria; 3 galee della Repubblica di Genova, agli ordini di Ettore Spinola con a bordo il Farnese; 6 galee noleggiate ed armate da imprenditori genovesi (Nicolò Doria, Grimaldi, Imperiali, ecc.); 3 galee (Piemontese, Margarita e Duchessa) del Ducato di Savoia, agli ordini di Provana di Leynì.

- Granducato di Toscana: 12 galee mandate da Cosimo 1° dei Medici, armate ed equipaggiate dai Cavalieri dell'ordine pisano di Santo Stefano

- Stato della Chiesa: 12 galee, concesse dai veneziani allo Stato Pontificio ed armate ed equipaggiate a spese del papa, agli ordini dell’ammiraglio pontificio Marcantonio Colonna.

- Malta: 3 galee dei Cavalieri di Malta, agli ordini del Priore Pietro Giustiniani, inquadrate nella flotta spagnola.

In totale 205 tra galee e galeazze, di cui 168 provenienti da stati del territorio italiano, oltre ad una trentina di fregate e navi ausiliarie minori.

La truppa é costituita da circa 30 mila uomini così suddivisi:

- 20.000 soldati a spese della Spagna (Tercio spagnolo, di cui un battaglione piemontese);

- 5.000 militari al soldo di Venezia (Fanteria da Mar);

- 2.000 soldati pagati dallo Stato Pontificio;

  • - 000 volontari provenienti da tutta la Cristianità.

Le galee veneziane sono in buono stato, ma con pochi soldati. Don Giovanni d'Austria vi fece imbarcare 4.000 soldati italiani e spagnoli.

Una nave veneziana aveva di norma un Sopracomito (Cte), un Comito (pilota), un Sottocomito (vice pilota), 3, 4 ufficiali ed circa 30 marinai per le manovre e di norma una quindici di sorveglianti ai remi. Gli equipaggi addetti alla manovra (una moltitudine di specialisti, marinai, cannonieri, intendenti, ecc., funzioni particolari ed importanti, quali il carpentiere o lo specializzato nella realizzazione o  riparazione di remi) sono complessivamente circa 8 - 9.000 uomini ed i vogatori, sebbene decisamente maggioritari sul numero delle persone imbarcate (≈ 43.500 rematori) e costituiti essenzialmente da cristiani volontari, da arruolati e da forzati (appena 16 galee erano composte da ciurme di forzati), sono appena sufficienti alle esigenze. Tale carenza costringe a mettere solo 3 uomini per i remi a scaloccio.

La flotta cristiana imbarca complessivamente 75 mila uomini con

1815 cannoni  (di cui 905 di Venezia; 555 della Spagna, con Napoli e Sicilia) e più di 3500 archibugi, oltre ad un discreto numero di picchieri e balestrieri.

La flotta della Sublime Porta risulta costituita da:

221 galee ; di cui 190 dell’Impero ottomano, agli ordini di Mehemet Alì Sadi Pashà e del suo vice Mehemet Sciaurak Pashà detto Scirocco; 7 del Dey di Algeri e 24 dei Pirati Barbareschi, al comando del Dey Ulug (Ulij) Alì detto Occialli o Occhiali, un rinnegato cristiano di origine calabrese, tale Luca Giovanni Dionigi Galeni (1520 - 95); Tutti i capi sono marinai esperti competenti e valorosi. Fra questi spiccano per la loro professionalità Perteù Pashà, Hassan Pashà (figlio del Barbarossa) e Kara Pashà.

-    38 Galeotte o Galerotte;

-    21 Fuste, per un totale complessivo di 280 navi da battaglia oltre a numerose imbarcazioni minori ausiliarie.

La truppa é costituita da circa 26 mila uomini così suddivisi:

- 15.000 giannizzeri, di cui 10 mila imbarcati da poco tempo;

- 11.000 soldati di altra provenienza.

La situazione degli uomini imbarcati sulle navi turche è sostanzialmente equivalente a quella della Lega Santa per quanto attiene agli equipaggi (13.000) ed ai rematori (40.000), con la sola differenza, peraltro fondamentale che la stragrande maggioranza dei vogatori del campo ottomano è rappresentata da forzati o da schiavi e fra questi circa il 50% è costituito da schiavi cristiani, di cui circa 10 mila frutto delle recenti razzie a Creta (3 mila) e nelle isole dell’arcipelago di Cefalonia (7 mila).

In termini di armamento la flotta turca ha una disponibilità di circa 3000 archibugi, una nutrita schiera di arcieri e solamente 750 cannoni.

In definitiva i Turchi risultano superiori in termini di navi, equivalenti in numero e qualità di capi e di soldati. Essi sono sostanzialmente equivalenti in numero di vogatori, ma inferiori nel numero di archibugi e fortemente carenti in termini di artiglierie. Un altro elemento di vulnerabilità per i Turchi è fornito dalla composizione dalla ciurma ai remi che, costituita solo da forzati e per lo più cristiani, risulta essere infida e persino inaffidabile nei momenti critici. La situazione dei vogatori della Lega Santa è decisamente più omogenea e gli arruolati ed i volontari ai remi, di gran lunga la maggioranza, non di rado partecipano attivamente al combattimento.

Prima della battaglia

Sulla base degli accordi stipulati, la flotta cristiana effettua la sua radunata nel porto di Messina dal 20 luglio 1571 con l’arrivo della componente pontifica di Marcantonio Colonna. Il 23 agosto seguente giunge a Messina Don Juan d’Austria che assume ufficialmente il comando e la radunata si completa il 10 settembre successivo con l’arrivo della seconda parte della flotta veneziana. La flotta così riunita salpa il 16 settembre dirigendosi verso Corfù e dopo uno spostamento verso Igoumenitza sulla costa albanese, il 4 ottobre seguente giunge in prossimità di Itaca nell’arcipelago di Cefalonia. Le navi esploratrici confermano che la flotta turca si trova riunita nei pressi del golfo di Lepanto. Il 5 ottobre la flotta cristiana giunge nel porto di Viscando o Fiscardo, non lontano dal luogo della battaglia di Azio, ma le condizioni meteo, forte vento e nebbia, non permettono di proseguire. Finalmente migliorate le condizioni del mare la flotta della Lega riprende il mare nella notte del 5 ottobre e muove, divisa in tre squadre, alla volta del golfo di Patrasso, per andare incontro ai turchi e costringerli alla lotta, prima che la cattiva stagione impedisca la condotta delle operazioni e le faccia rimandare alla primavera seguente.

I Turchi, che nel frattempo avevano recuperato parte della loro flotta, di ritorno dal Cipro a Creta, dove hanno imbarcato 10 mila giannizzeri e si erano dati ad effettuare scorrerie e razzie nell’Adriatico, decidono, davanti alla minaccia cristiana, di effettuare la radunata nel golfo di Patrasso e più precisamente nella piccola insenatura di Naupaktos (Lepanto), protetta dalle isole Curzolari.

All'alba del 7 ottobre 1571 in una serena giornata di primo autunno i cristiani sono ormai giunti in vista delle Curzolari. Manovrando controvento contro una lieve brezza da o­riente, avanza a forza di remi la più imponente flotta di galee che la cristianità è stata mai in grado di a riunire per dar battaglia ai turchi. E proprio quando il sole comincia a spuntare sullo Ionio le avanguardie della Lega danno il segnale di navi che avanzano in senso opposto. Si tratta infatti proprio della flotta ottomana al comando di Alì Pascià che, lasciata Lepanto, sta avanzando con tutte le forze che la compongono, circa 280 navi, nella speranza di prendere il largo prima che la flotta nemica glielo impedisca. Ma ormai è tardi, la flotta della Lega blocca l’uscita del golfo e ha inizio la grande giornata di Lepanto. Lo scontro assume le tipiche caratteristiche di un combattimento d’incontro nel canale fra le isole Curzolari a sud e la costa greca a nord, al quale i Turchi non possono ormai sottrarsi.

Lo schieramento delle flotte

Assolto il loro compito di av­vistamento, le galee leggere tor­nano ad unirsi al grosso della flot­ta. Ora le decisioni spettano ai capi. Don Giovanni d'Austria, benché impreparato (come d'al­tra parte Alì Pashà) a una così improvvisa presa di contatto col nemico, comprende che non può rifiutare il combattimento, e or­dina che si dia il segnale d'at­tacco: sull'albero di trinchetto della sua galea, la Reale, sa­le quindi uno stendardo verde mentre viene sparato un colpo a salve.

Subito, da parte cristiana o­gnuno cerca di prendere al più presto la propria posizione nel­lo schieramento fissato sul piano di battaglia. Così, le galee cominciano a dispiegarsi in una lunga linea frontale, con distanze fra le navi di 150 metri, secondo i dettami della tattica nautica dell'epoca.

La parte principale della flotta della Lega si schiera con 170 navi, in un dispositivo lineare di fronte articolato a croce, così strutturato:

Ala sx : 53 galee di Venezia agli ordini dell’ammiraglio Agostino Barbarigo coadiuvato dal suo vice, ammiraglio Querini, e dall’ammiraglio Antonio Da Canal, si appoggiano verso la costa etolica;

Centro : 64 galee della Spagna, Venezia ed alleati, agli ordini di Don Juan d’Austria, a bordo della “Real”, con una grande stendardo con la croce, con Vice Comandanti Sebastiano Venier per Venezia e Marcantonio Colonna per gli alleati;

Ala dx : 53 galee di Genova ed alleati agli ordini di Giannadrea Doria, si appoggiano verso le Curzolari;

Avanguardia : 2 galeazze per ogni blocco dello schieramento principale (totale 6). Quelle davanti al centro sono comandate da Francesco Duodo e quelle davanti all’ala sinistra sono comandate da Antonio ed Ambrogio Bragadin, parenti del capitano trucidato a Famagosta e quelli dell’ala destra sono al comando dei capitani Andrea Pesaro e Pietro Pisani ;

Retroguardia o riserva : 29 galee agli ordini del marchese spagnolo di Santa Cruz.

I Turchi, a loro volta, con 215 galee, con il vento inizialmente a favore accompagnato da un rumore assordante di timpani, tamburi, flauti, iniziano l'avvicinamento. assumendo un dispositivo lineare tendente al semicerchio o mezzaluna, nell’evidente intento, in virtù della loro superiorità numerica, di operare un aggiramento sui fianchi dello schieramento cristiano. Lo schieramento si articola in:

Ala dx (contrapposta alle galee di Venezia) : 56 galee agli ordini dell’ammiraglio Mehemet Sciaurak Pashà detto anche Maometto Scirocco, Governatore di Alessandria e Viceré d’Egitto;

Centro : 96 galee agli ordini del Comandante in Capo, Mehemet Alì Sadi Pashà, a bordo della “Sultana”, sulla quale garrisce un vessillo verde, su cui era stato scritto 28.900 volte a caratteri d'oro il nome di Allah ed uno stendardo bianco venuto dalla Mecca, sui cui lati sempre in caratteri d'oro era scritto: «Ai fedeli divino auspicio e ornamen­to; nelle degne imprese Dio protegge Maometto». Il suo Vice é Perteu Pashà;

Ala sx (contrapposta ai genovesi ed alleati) : 63 galee agli ordini del Dey di Algeri, Ulug Alì dettto Occialli;

Riserva : 6 galee, 15 galeotte e numerose navi minori agli ordini di Amurat Dragut.

L’esame del dispositivo di attacco delle due flotte evidenzia per i Turchi una equivalenza nell’ala destra, una marcata superiorità numerica al centro ed all’ala sinistra.

Naviglio

La nave da combattimento principale delle due flotte era rappresentata dalla galea classica (Spagna e Turchia), da quella “sottile” (Venezia) o dalla galea detta “Bastarda” (un tipo leggermente più lungo della sottile, con 30 remi per fianco, che veniva costruito per la nave capitana della flotta).

Galea Cristiana.

Scafo sottile e leggero lungo da 40 a 50 metri e largo 5, che privilegiava la velocità, a scapito della manovrabilità. La sua propulsione era di tipo misto a due alberi ( alti fino a 35 m.) con vela latina (triangolare, con più di 300 metri quadrati di velatura) o a remi a “sensile” (uno più remi ad altezza diversa – 20/25 per fianco con una lunghezza di 10 metri - con un solo vogatore per remo, con scalmi sfalsati se più di uno) o a “scaloccio” (un solo remo più lungo e più rigido manovrato da 3 - 5 vogatori posti a scala). Sulla prua dispone di uno sperone fuori del pelo dell’acqua per spezzare i remi avversari e per speronare il battello nemico. La galea “sottile” veneziana era lunga sui 45 metri e disponeva di un solo albero con vela latina. La galea senza un ponte coperto, disponeva di un castello di prua ed a volte di poppa, dove trovavano posto le artiglierie e presentava sui fianchi un rembate, o castello ringhiera laterale, a telaio rettangolare, appoggiato sullo scafo, sporgente dal bor­do, sul quale trovavano posto gli archibugieri e gli uomini d’arme. Il castello di prua era di norma protetto con un telone ed ospitava il cannone corsiero con palle da 40 kg ed oltre, affiancato in genere da due altri pezzi più piccoli. Le galee a due alberi possedevano anche un piccolo castello di poppa per ospitare altre artiglierie. Infine le murate laterali del rembate erano predisposte per ricevere le forcelle per l’uso di bombardelle. Le galee veneziane, a differenza delle altre portavano sul castello di prua, ben 5 cannoni, il corsiero con palle da 20 kg e 4 più piccoli affiancati. In definitiva la galea sottile di Lepanto poteva ospitare 80 - 100 soldati, 150 rematori, 15 sorveglianti, più 70 uomini di equipaggio. Armamento, quindi, specifica­mente da attacco frontale, essen­do, tra l'altro, i pezzi fissi. D'al­tra parte, il vero combattimento tra galee avveniva per arrembag­gio e non prevedeva il duello d'artiglierie a distanza.

Galea Turca.

Lunga circa 50 metri, assomigliava alle galee a due alberi del campo cristiano con un rembate per gli armigeri e gli arcieri e tre cannoni sul ponte di prua (a prora). La differenza saliente del tipo ottomano risiede nel fatto che il ponte di prua è più alto delle galee cristiane e tale struttura conferisce alle artiglierie imbarcate una maggiore gittata, anche se a corta distanza tale vantaggio diviene un serio handicap perché i tiri dei pezzi tendono a sorvolare il vascello avversario.

Galeazza veneziana.

Vera e propria fortezza galleggiante, inventata dal senatore Giovanni Badoer, nella prima metà del 16° secolo, rappresenta la novità navale dello scontro e la sorpresa tattica più importante della battaglia. Nave di alto bordo a tre alberi e ponte di coperta, risulta una via di mezzo fra il vascello e la galea, di cui è 1,5 volte più grande. Lunga 70 - 80 metri con 25 remi a scaloccio per fianco, azionati da 7 uomini per remo (totale di 350 rematori), poteva imbarcare circa 400 uomini d’arme, ai quali andavano aggiunti gli uomini di equipaggio e gli ufficiali, per un totale complessivo di oltre 1.000 uomini.

La galeazza, disponendo di un ponte coperto, poteva imbarcare una incredibile potenza di fuoco pari a circa 40 cannoni + bombardelle che potevano essere distribuiti sui castelli di poppa e di prua e soprattutto sui fianchi. In particolare sui fianchi si potevano schierare cannoni di discreta potenza (palle fino ai 15 kg) e di norma un cannone petriero (perero; palle fino a 25 kg.) su ogni fianco al centro della nave, i cui effetti erano evidentemente devastanti sul naviglio avversario. In sostanza si trattava di una corazzata “ante litteram”, dotata di una discreta velocità ma anche di una scarsa manovrabilità Per poter essere impiegate nella battaglia di Lepanto,le galeazze dovettero essere rimorchiate fino alla posizione iniziale del combattimento. Anche la galeazza disponeva sulle murate di uno svariato numero di Bombardelle a braga per spazzare la tolda ed il ponte delle navi avversarie.

Galeotte o Galeotte, Fuste.

Galee più piccole, ad 1 albero, con 15 remi per parte, più leggere, ma decisamente più manovriere, dotate in genere di un solo cannone, prive anche del rembate.

Artiglierie

Per quanto riguarda le artiglierie, a parte la schiacciante superiorità numerica cristiana, il progresso tecnico fra i contendenti era praticamente equivalente.

I pezzi erano per la maggior parte realizzati con fusione in bronzo, anche se esistevano ancora cannoni fucinati di ferro a doghe, rinforzati da cerchioni. Va comunque ricordato che il primo processo di fusione del ferro ghisa avviene intorno al 1550 nel Sussex in Inghilterra e pertanto non è ancora di uso comune. Non esiste ancora una vera e propria artiglieria navale ed in genere i pezzi imbarcati provengono da fortezze o dai parchi campali (Questo in particolare è il caso di Napoli e dello Stato Pontificio che traggono alcune artiglierie dal parco delle fortezze per armare le loro galee. Lo stato pontificio in particolare provvede anche alla fusione di alcune artiglierie (4 Falconetti e due colubrine) attraverso la Fonderia Camerale, con la spesa di ben 7387 ducati ed il recupero, per la bisogna, di diversi cantari (15,1 Kg., poco più di 5 libbre) di materiale vecchio o fuori uso. Poiché il bronzo, per il suo tenore di rame, era molto caro, i pezzi faceva parte del demanio pubblico e veniva punzonati con il loro peso (cantari e rotoli) e quindi con il loro valore commerciale e contabile.

La bocca da fuoco, di norma ad avancarica, aveva già inglobato gli orecchioni per consentire un più agevole brandeggio in elevazione ed un foro focone nella culatta in corrispondenza della camera a polvere, consentiva la messa a fuoco (inchiodare un pezzo).

Nelle classificazioni del tempo, ripartite di norma per forma o per impiego, anche assai fantasiose, prevaleva la logica del peso della palla lanciata o del calibro. Ma per dare un’idea del “mare magnum” di confusione che regnava a quel tempo, vale la pena riportare a titolo puramente informativo tre classificazioni dei pezzi: una italiana del periodo precedente a Lepanto, una francese quasi coeva ed un’altra italiana più tarda.

Quella italiana di Francesco di Giorgio Martini del 1480 è la seguente:

BOMBARDE                    lunghe 6 - 7 m.  palle di pietra da 40 kg.

BOMBARDE MEZZANE                     4 m.     palle di pietra da 20 kg.

BOMBARDE CORTANE O CORTALDE > 4 m.         “        “       > 34 Kg.

PASSAVOLANTE                  da 6 metri ;  palla metallica da 5 Kg.

BASILISCO                         da 7 metri ;  palla metallica da 1 Kg.

BOMBARDELLA *            da 2 - 3 metri ;  palla di pietra da 4 a 6 Kg.

SPINGARDA *                  2,7 metri      ;  palla di pietra da 3 - 5 Kg.

ARCHIBUGI                 da 1,01 a 1,3 metri ; palla di Pb da 150 gr. (cal. 0,03)

SCOPPIETTI **            da 0,6 a 1,01 metri ; palla di Pb da  20 gr.

*: anello di giunzione fra le artiglierie e le armi portatili

** Bombardas minores quas cerbottanas vocant ac spingardas et schioppettos

Quella francese del La Fontaine del 1580 e quella del Sardi del 1624 si assomigliano e ripartiscono le artiglierie in tre categorie:

TIPO

LA FONTAINE 1580

Dati

SARDI 1624

       
 

COLUBRINA

Palla > 15 lb.

MEZZA COLUBRINA

 

SAGRO o ASPIDO

  12 lb.

FALCONE o 1/2 SAGRO

 

BOMBARDELLA

   9 lb.

FALCONETTO

COLUBRINE

FALCONE

   6 lb.

SMERIGLIO

+ lunghe

FALCONETTO

   3 lb.

MOSCHETTONE

> portata

MOSCHETTO

   1 lb.

MOSCHETTO

     

ARCHIBUSO

       
 

CANNONE

50 - 60 lb.

CANNONE BASTARDO

CANNONI da

CANNONE DOPPIO

100 - 120 lb.

CANNONE DOPPIO

Btr, assedio

MEZZO CANNONE

25 - 30 lb.

MEZZO CANNONE

- lunghi e

QUARTO

   15 lb.

QUARTO

- spessore

   

BASILISCO

       

PETRIERI e

PETRIERE

23 lb.

PETRIERE

MORTAI

MORTAIO

25 lb.

MORTAIO

Qualche studioso più recente quale il Promis, del 1800, riporta una serie di nomi di artiglierie ed altre classificazioni che vale la pena ricordare per semplice curiosità: GIRIFALCHI, SALTAMARTINI, BRONZINE, SERPENTINE.

Per Venezia che aveva una sua Scuola di Bombardieri da terra e da mar esisteva una sua classificazione basata sul peso della palla

COLLOMBRINA o CANONE                    > 15 lb.  (2,962 Kg.)

SACRI o ASPEDI (+ corto del sagro)          8 lb.

BOMBARDELLE                                        9 lb.

PERERE (Pietrere)

FALCONI                                                 4 lb.

FALCONETTI                                            2 lb.

ZIRIFALCHI                                             2 lb.

MOSCHETTI de BREGATA

In definitiva le artiglierie navali del tempo erano sostanzialmente rappresentate dalla Colubrine, dai Cannoni “corsieri”, Petrieri e dalle Bombardelle.

Il cannone “corsiero” (di corsia) era di norma l’armamento principale con palle che potevano arrivare a pesare fino a 80 kg. (> 23 lb.) posto appunto in corsia a prua. Il corsiero è normalmente affiancato da colubrine o falconetti. Secondo il Sardi i “Corsieri” erano posti su un letto (affusto) di tre tipi: senza ruote; con un asse  e coda; con due assi e cordame di ritegno.

Nel primo caso il rinculo avviene in corsia su un affusto senza ruote, con l’orecchione del pezzo fissato al “letto” (affusto) con bandone di ferro;

Il secondo caso è quello delle colubrine da 25 lb.  Affusto con un solo asse a ruote e coda, con ruote di legno cerchiate rinforzate di ferro. Artiglierie per galeoni e galeazze o sulle prua delle galee “bastarde”;

Il terzo caso è quello di artiglierie fino a 10 – 20 lb. con affusto a ruote a due assi, da impiegare su vascelli di alto bordo.

Ma la vera novità è la Bombardella a Braga, a retrocarica, incavalcata su delle forcelle poste sulle murate del castello o del rembate della galea o della galeazza. (poteva però essere da barca o da merli, ecc.) Si compone di due parti principali: di un cannone vero e proprio ed una  tromba a braga dotata di una coda lunga per il suo maneggio. La braga si rende solidale al cannone e può lanciare palle di pietra o pezzi di ferro o scatole di rotami o catenelle per spazzare la tolda della nave nemica. A questi elementi si aggiungono una serie di mascoli o mortaletti (di norma tre) - una specie di camera a polvere - che vengono inseriti sulla culatta del cannone e bloccati da un cuneo (cugno) di bloccaggio che serve a rendere solidale il sistema una volta caricato. La coda serve per il brandeggio e per facilitare il caricamento del pezzo. (vedi figura del Sardi). Il sistema  consentiva un caricamento a retrocarica abbastanza agevole ed una certa celerità di tiro.

Tecnica di combattimento navale: sequenza delle azioni

Avvicinamento a vela fino a poco prima del contatto balistico. Il Problema basilare era quello di mantenere lo schieramento compatto in modo di produrre sulla fronte il massimo volume di fuoco possibile. La cosa era peraltro resa difficile per l’interferenza del vento e soprattutto dalla diversa velocità e capacità di manovra dei differenti tipi di nave in linea.

Tendere sempre all’aggiramento dello schieramento nemico per cadere sulla parte più vulnerabile del naviglio nemico. La riserva ha in genere il compito di opporsi ad azioni di tale genere o ad imprevisti.

Scontro di artiglierie, lancio di palle o bombe incendiarie.

Nella battaglia di Lepanto l’azione preliminare della galeazze ha la funzione di infliggere danni e primariamente di scompaginare lo schieramento nemico con il fuoco di prora ma soprattutto con la devastante potenza di fuoco dei fianchi. La galeazze saranno uno degli elementi decisivi per il successo della giornata.

Imbroglio delle vele ed in qualche caso ripiegamento degli alberi.

Chiusura della distanza relativa fra gli schieramenti, con manovra a remi, per speronare ed immobilizzare la nave avversaria.

Il combattimento si frammenta in una miriade di combattimenti locali. Le murate laterali vengono arpionate in modo da accostare stabilmente la nave per l’arrembaggio.

Fuoco delle bombardelle e degli archibugieri che spazzano il ponte ed il castello nemico, accompagnato a breve distanza dal lancio di pignatte incendiarie, calce viva in polvere, granate a mano e completato dall’azione delle balestre o degli arcieri per i Turchi.

Arrembaggio e combattimento a corpo a corpo con pistole ed armi bianche (spade, picche, alabarde, lance, mazze ferrate) fino alla conquista della nave nemica, che viene occupata o rimorchiata. Il ponte ed il rembate vengono, per motivi di difesa, abbondantemente cosparsi di grasso per rendere più difficoltoso l’assalto nemico.

In definitiva tutto meno che la tradizionale oleografia delle bordate di artiglieria dei film sulle battaglie navali dei secoli successivi. La chiave dello scontro, piuttosto che nel duello di artiglierie, risiede nell’incendiare la nave avversaria, nell’affondarla con lo sperone o nel conquistarla con l’arrembaggio.

La battaglia

L'ala sinistra della Le­ga, al comando del veneziano A­gostino Barbarigo, poggia verso la vicina costa etolica in mo­do da chiudere il mare alle ga­lee nemiche che volessero compiere un tentativo di aggiramen­to da quella parte; l'ala destra, al comando del genovese Giannandrea Doria, si allunga verso sud per lasciare modo al cen­tro di disporsi anch'esso su una linea.

La manovra, un po' perché seguita con vento contrario, un po' per il nervosismo dei capi­tani di galea troppo desiderosi di raggiungere rapidamente il pro­prio posto, si effettua nel più assoluto silenzio  ma con alcuni sbandamenti, tanto che Don Gio­vanni si lascia andare a qualche «santa imprecazione», come ri­ferisce un cronista.

Intanto, anche i turchi proce­devano a formare il loro schie­ramento.

La grande giornata di Lepanto è iniziata.

Mentre la squadra della Lega si sta assestando, Don Giovanni sembra colto da un dubbio; sale su un'imbarcazione veloce, si fa portare sotto la galea di Seba­stiano Venier e chiede al vecchio ammiraglio: «Che si combat­ta?». Venier risponde: «È ne­cessità et non si può far di man­co». Don Giovanni, allora, in armatura e con un Crocifisso in mano passa in rassegna l'armata, ritto a prua dell'imbarcazione, esortandola al combattimento e promettendo la libertà ai rema­tori condannati al remo per de­litti civili se faranno bene il lo­ro dovere. Poi, torna alla galea Reale, mentre Francesco Duodo, capitano delle sei galeazze, fa ri­morchiare le proprie navi al po­sto loro assegnato, e cioè davan­ti alle tre squadre, due per cia­scuna squadra.

Quando le flotte giungono a tiro di cannone é or­mai mezzogiorno ed i Cristiani ammainano come previsto tutte le loro bandiere mentre Giovanni d’Austria innalza lo stendardo con l'immagine del Redentore crocifisso. Una croce venne levata su ogni galea e i combattenti ricevettero l'assoluzione secondo l'indulgenza concessa da Pio V per la crociata. si approntano le armi per i soldati e i marinai, si distribuiscono co­razzette ed elmi anche ai voga­tori e si pongono a portata del­le loro mani spade, spadoni, maz­ze ferrate, accette, picche, ala­barde: quelle braccia rese d'ac­ciaio dall'esercizio del remo sa­pranno far buon uso di tali ar­mi nel momento cruciale della lotta, quando si arriverà al cor­po a corpo.

Il sole è ormai alto, quando Don Giovanni fa innalzare sulla Reale lo stendardo della Lega su cui, in campo cremisi, spicca ri­camato il Cristo in croce. Pro­prio in quei minuti che precedono il combattimento il vento, che fino ad allora aveva spirato in favore degli ottomani, cade, e sul mare si stende una calma per­fetta. Il vento improvvisamente cambia direzione. Le vele dei Turchi si afflosciano e quelle dei cristiani si gonfiano. Il nemico è privato di un elemento a proprio favore.

Inginocchiati sul ponte, sol­dati, marinai e ufficiali, da Don Giovanni d'Austria al più umile mozzo, recitano una preghiera e sono benedetti dal frate cappuc­cino che è su ogni galea. E’ or­mai mezzogiorno e le flotte so­no quasi a tiro di cannone. Don Giovanni ordina ai pifferi di suo­nare e sul ponte di prua balla insieme a due gentiluomini del suo seguito la «gagliarda», dan­za di corte e di guerra.

Alì Pascià, intanto, ha fatto ammainare le vele alle galee del suo schieramento e, dato ordine di non sopravanzare la sua am­miraglia, fa vogare di lena con­tro i cristiani. Sibilano le fru­ste degli aguzzini sulle schiene dei galeotti. E ognuno, madido di sudore, attende con terrore il momento in cui cominceranno a tuonare le artiglierie, e quello, fatale, del cozzo contro la nave avversaria.

A un tratto, tuona il cannone di prua della ammiraglia otto­mana. Ai due lati dello schiera­mento turco rispondono i can­noni delle galee capitane di Sci­rocco e di Ulug Alì. È il segna­le dell'assalto. Dalla Reale cri­stiana si spara un colpo col pez­zo di prua verso la capitana di Ali Pascià. Ala destra e centro turchi sono perfettamente a fron­te, con forze pressoché pari, al­l'ala sinistra e al centro cristiani.

Sulla sinistra ottomana, invece, Ulug Alì sta ancora manovran­do al largo, e come lui mano­vra, per sorvegliarlo, la squadra di Giannandrea Doria. Questi, infatti, attende le mosse del ne­mico prima di affrontarlo poi­ché ha un numero eccessivamen­te inferiore di galee da opporgli

La voga dei turchi al centro e all'ala destra si fa frenetica. Le grida si moltiplicano. Le ga­lee della Lega attendono immo­bili. Ma prima di giungere sulla flotta cristiana occorre superare le galeazze in posizione avanza­ta rispetto alla linea di batta­glia. E le galeazze non manca­no al loro compito che è quello di scompaginare lo schieramen­to turco. Appena il nemico è a tiro, i cannoni di prua sparano una prima scarica. Vi è un at­timo di esitazione da parte otto­mana. Ma Alì Pascià ordina al­la sua ammiraglia di procedere. Ecco, le galeazze sono vicinissi­me. Si spara contro di loro con gli archibugi e con l'artiglieria pesante. Nembi di frecce sono lanciate dagli abilissimi arcieri turchi contro quegli strani castelli marini. Le galee turche stanno ormai defilando tra i var­chi tra galeazza e galeazza quan­do tuonano le petriere dalla fian­cata e decine di proiettili cado­no sui ponti turchi, infrangono tolde, squarciano, affondano. La scarica del tutto inaspettata (le galee, ricordiamo, non avevano artiglierie laterali) scompagina lo schieramento. Alcuni vascelli tur­chi si inabissano, trascinando con sé i miseri rematori incatenati al remo, e riempiendo lo specchio d'acqua circostante di naufraghi fatti subito segno a tiri di ar­chibugio.

Nel corso della battaglia di Lepanto i Turchi cercano di effettuare due aggiramenti, uno a destra ed uno a sinistra. Inizialmente con Scirocco sull’ala sinistra cristiana, parzialmente riuscito, poi con Ulug Alì sull’ala destra della Lega verso le isole Curzolari, sventato dal Doria.

Combattimento del centro dello schieramento

 

Le galee turche, però, sia pure in disordine continuano ad avan­zare e, finalmente, le galeazze sono superate. Subita un'ultima scarica dei pezzi di poppa del nemico, le forze ottomane si di­rigono a gruppi contro l'ancora ordinatissimo schieramento cri­stiano. Ali Pascià ha individua­to nel centro la Reale di Don Giovanni d'Austria ai cui fian­chi sono le altre due capitane la pontificia di Marco Antonio Colonna e la galea bastarda veneziana di Sebastiano Venier. Deciso ad attac­care l'ammiraglia cristiana, Ali Pascià incarica la vicina galea di Perteu Pascià di lanciarsi su quella del Colonna.

Don Giovanni, intanto, osser­va le mosse del nemico. Fin da quando è stata presa la decisio­ne di combattere, ha fatto toglie­re lo sperone della sua galea per facilitare l'arrembaggio. Dal pon­te di poppa egli vede sotto di sé i suoi uomini ben schierati e pronti alla grande prova. A prua i cannonieri attendono l'ordine della scarica a distanza ravvici­nata. Lungo i fianchi, a prora e a poppa si affollano i quattro­cento archibugieri del « Tercio » di Sardegna: italiani che combat­tono sotto bandiera spagnola. Gli occhi al nemico, essi soffiano sul­le micce degli archibugi perché la bragia sia ben viva quando arriverà 'il comando di fuoco. Arrampicati sulle sartie e aggrap­pati agli alberi, marinai e altri soldati sono pronti a gettare sul­la nave avversaria pignatte in­cendiarie, calce viva in polvere, granate a mano. Tra i banchi di voga molti sono i galeotti cri­stiani condannati al remo che sono stati liberati dalle catene perché possano riguadagnarsi la libertà combattendo. Infine qua e là per tutta la nave vi sono ceste di viveri e barili d'acqua e di vino « per ristorar et invigo­rir le forze del corpo».

Ormai le galee cristiane del centro e dell'ala sinistra hanno stabilito i contatti col nemico e fra grida, fragore d'armi, sibili di frecce si combatte in più pun­ti accanitamente. Don Giovanni d'Austria individuata l'ammiraglia ottomana punta diritto contro la Sultana.

A distanza ravvicinata, le arti­glierie turche e cristiane spara­no quasi contemporaneamente. Poi il cozzo e, mentre i marinai e i mozzi lanciano i grappini d'arrembaggio per tener unite le due navi, si ha il primo assalto della milizia scelta di Ali Pa­scià: quattrocento giannizzeri che si riversano sulla prora della Reale di Spagna.

Ma l'assalto è contenuto dal «Tercio» dei sardi che, scarica­ti gli archibugi, danno di piglio alla spada e alle picche affron­tando il nemico in corpo a cor­po furibondi.

Marco Antonio Colonna, in­tanto, intuendo che la galea di Perteu Pascià tenta di tagliargli la strada per impedirgli di por­gere aiuto alla sua capitana, fa affrettare la vogata e riesce a investire sul fianco destro, verso prua, la Reale ottomana. Subi­to, però, la sua galea è a sua volta arrembata da quella di Perteu, che le piomba addosso nel centro sfondando parte del­la rembata. Costretto a difender­si da Perteu, Colonna non può quindi inviare uomini in aiuto a Don Giovanni.

Sebastiano Venier, allora, che è sulla destra della Reale di Spa­gna dirige verso di quella. Ma ecco che si attua lo stratagemma di Alì Pascià. Da un gruppo di galee ottomane davanti alle qua­li la capitana veneta sta passan­do a tutta voga, si stacca una piccola galeotta disarmata che velocissima si pone sulla rotta della galea cristiana e si incu­nea di striscio sotto i banchi dei rematori impedendo la vogata ai remi. La galea di Venier, sia pure momentaneamente, è im­mobilizzata.

Frattanto, sulla Reale di Don Giovanni il “ Tercio » di Sarde­gna al comando di Lopez de Fi­gueroa è riuscito a contenere l'as­salto dei giannizzeri e passa al contrattacco. Il reggimento da l'arrembaggio alla nave turca che diviene il campo di battaglia e il nemico è spinto fino all'albero maestro. Ma Alì riceve continui rinforzi da galee e galeotte. Si rinnova quindi l'assalto turco e il «Ter­cio» è respinto sulla Reale di Spagna. Attacchi e contrattacchi si succedono, mentre Don Gio­vanni comincia a ricevere aiuti da altre galee cristiane Gli arcieri turchi, abilissimi nell'uso  del loro corto arco a doppia curva­, lanciano frecce su frecce. Dalla Reale si risponde a colpi di archibugio e, quando è possibile usare i pezzi, con la mitraglia delle bombardelle (i cannoni erano caricati con pezzi di piombo, rottami di ferro, catene) che apre vuoti paurosi tra le file avversarie.

Intanto Venier è riuscito a liberarsi della galeotta, e investe la Reale ottomana all'altezza dell'albero maestro. Ora l'ammiraglia veneziana potrebbe lanciare un attacco decisivo contro il vascello del comandante turco, ma non può perché è a sua volta attaccata da altre galee e poi da quella di Pertew Pascià, che si è distaccata da quella del Colonna proprio con l'intento di ­bloccare la capitana veneta. Sebastiano Venier, da esperto uomo d'arme, divide i compiti sulla sua galea: mentre parte degli uomini si oppone all'attacco turco, un nutrito numero di archibugieri comincia a battere con un  tiro fitto e preciso il ponte della Reale ottomana impeden­do l'afflusso di nuovi combatten­ti verso la prua congiunta alla galea di Don Giovanni.

Con accanto il giovane nipote Lorenzo Venier, Sebastiano per­corre in «corazza all'antica e in pianelle» (calzature leggere) la corsia centrale della galea rin­cuorando i combattenti, incitan­doli, dirigendo l'azione dove più si rende necessario. E, poiché la tarda età gli impedisce di usare la spada, non di meno partecipa anch'egli direttamente al combattimento lanciando palle di ferro con una balestra pallotto­liera che un servente gli ricari­ca prestamente dopo ogni tiro. Neppure quando riceve una fe­rita a una gamba, Sebastiano Ve­nier si ritira.

Ma ormai la Reale turca è ormai stret­ta in una morsa. Battuta dai tiri di archibugio e d'artiglieria de­gli uomini di Sebastiano Venier, assalita anche dagli uomini del Colonna liberatisi dai nemici che li avevano arrembati, ha or­mai la sorte segnata. Al terzo assalto I soldati sardi giungono fino al castello di poppa dove, dietro a una bar­ricata di materassi, i giannizzeri fanno una disperata resistenza. Cade lo stendardo turco, ma gli ottomani non cessano dal com­battere. Filippo Venier, allora, dalla capitana veneta, fa spara­re un colpo di petriera caricata con pezzi di ferro e catene: la micidiale mitraglia spazza letteralmente via la barricata e gli uomini che vi sono dietro. Un ultimo assalto dei cristiani pone fine alla lotta: lo stesso Alì Pa­scià è ucciso, si dice, da due col­pi di archibugio. La sua testa ta­gliata è issata su una picca, fe­roce segno di vittoria esposto al­la vista di turchi e cristiani.

Poco prima, anche la galea di Perteu Pascià era stata conqui­stata, ma il capitano turco era riuscito a salvarsi su una bar­chetta insieme a un rinnegato bo­lognese che passando tra le navi della Lega gridava in italiano: «Non tirate che anco noi siamo cristiani) ».

Alle due del pomeriggio Giovanni può riprendere il controllo della flotta.

   Lo sconto dell’ala sinistra cristiana

Mentre al centro la battaglia è accanita intorno alle due ammiraglie, anche all'ala sinistra, comandata da Agostino Barbarigo, la lotta divampa. Il turco Scirocco ha anzi tentato da quel­la parte di aggirare l'ala cristia­na formata in massima parte da galee veneziane. Spintosi verso riva, egli è riuscito a trovare un passaggio tra i bassifondi del fiu­me Acheloo, e vi è penetrato  con le sue galee per cogliere di  fianco i cristiani. Il Barbarigo riesce però a evitare l'aggiramento intervenendo prontamente. Ma la lotta è impari. Otto sono le galee abbarbicate a quella del  Barbarigo.  Sette assalgono, inve­ce, quella di Marino Contarini,  nipote del Barbarigo, che primo è giunto nel, punto in cui le for­ze ottomane stanno uscendo dal passaggio tra le secche. E in at­tesa di soccorsi è giocoforza  difendersi ferocemente. Sui due vascelli, soldati, ma­rinai e rematori compiono prodigi di coraggio. La galea di Vin­cenzo Querini giunge in soccorso del Contarini. Le sorti della battaglia in quel punto si fanno meno pericolose, anche se tra i  caduti vi sono i due capitani delle galee venete. Per due ore la lotta procede feroce; poi i turchi decidono di separare le due galee per poterle meglio assali­re. A questo punto accade l'im­previsto. Gli schiavi cristiani in­catenati al remo sui vascelli tur­chi riescono a liberarsi. Centinaia di uomini attaccano alle spalle gli ottomani chi con ar­mi tolte ai caduti, chi roteando catene, chi addirittura a mani nude. Saranno loro a decidere le sorti dello scontro in questo set­tore.

In breve, cinque galee turche sono in mano dei cristiani. I ga­leotti passano a fil di spada ogni turco caduto nelle loro mani. Poi si mettono al remo perché si possa correre in aiuto al Barba­rigo, la cui galea, insieme ad altre sette ottomane, è pressata an­che da quella dello stesso Sci­rocco.

 Nel frattempo, Barbarigo ha avuto aiuto dal provveditore e si è aggiunto alla ca­pitana con la sua galea dopo aver semidistrutto un vascello nemico. Canale si batte in pri­ma linea con i suoi uomini. Per meglio usare la spada, ha lascia­to l'armatura e indossato una ve­ste imbottita e calzato scarpe di corda per non scivolare sui pon­ti nemici cosparsi di sego. La sua galea ha speronato quella di Scirocco aprendo nella sua fian­cata una falla. Quando il vascel­lo veneziano è a sua volta inve­stito da un nemico, l'urto fa sì che si scosti dalla galea di Sciroc­co, che comincia ad affondare. La partita per il capitano turco è ormai perduta, anche perché so­praggiungono altre galee vene­ziane in soccorso. Scirocco si lancia in acqua e nuota verso la riva. Per sua sfortuna è scorto dagli schiavi liberati che affol­lano una galea cristiana soprav­veniente e, pescato letteralmen­te dall'acqua, viene subito de­capitato. 

Quasi nello stesso tempo, Ago­stino Barbarigo riceve una frec­ciata in un occhio, e deve essere ricoverato al coperto. Vivrà an­cora due giorni soltanto. Sulla sua galea il comando è assunto da Federico Nani. E si continua a combattere..

   Avvenimenti sull’ala destra

All'ala destra Ulug Alì e Gian Andrea Doria manovrano per trovarsi in posizione di vantaggio. Sia il Doria che Ulug Alì, prima della battaglia, avevano tentato di dissuadere i loro comandanti dal dare battaglia. Nessuno dei due voleva mettere a rischio le proprie navi.

Giannandrea Doria portatosi troppo al largo per sorvegliare le mosse di Ulug­ Alì, finisce col lasciar aperto un pericoloso varco fra l’ala destra ed il centro dello schieramento cristiano. Giovanni d’Austria ordina immediatamente al Doria di ricompattare lo schieramento, ma Ulug Alì è estremamente veloce ad infilarsi nel varco con buona parte delle sue galee corsare e riesce ad arrembare una quindicina di ga­lee cristiane che si trovano sul­la sua rotta. Favorito ora dal vento in poppa, Ulug Alì, che verrà ferito sette volte nel corso della giornata, attacca alle spalle con sette galee la nave ammiraglia delle galee di Malta e in una lotta tanto rapida quanto feroce, la conqui­stano, catturando il vessillo dei Cavalieri di Malta e uccidendo quanti trovano a bordo. Solo tre soli uomini sopravvivono perché creduti morti. Tra questi il Giústiniani, benché trapassato da cinque frecce.

Nel corso degli sporadici combattimenti che avvengono nell’ala destra cristiana, Alessandro Farnese con i suoi 200 uomini conquista una galea turca. In una queste azioni episodiche Il comandante della Marquesa, ordina a Miguel Cervantes, comandante di 12 armigeri, di aggirare una galea turca con una scialuppa. Cervantes, nel corso dell’azione viene ferito due volte da colpi di archibugio, al petto e alla mano (che gli rimarrà storpiata) ed al ritorno in Spagna otterrà una pensione di due ducati per 7 mesi !.

Alla pericolosa iniziativa di Ulug Alì, che contava di dare man forte da tergo all’azione del centro turco, reagiscono prontamente Giannandrea Doria e soprattutto le navi in riserva agli ordini del Marchese di S. Cruz, il cui decisivo intervento riesce a ristabilire la situazione.

A questo punto Ulug Alì, accortosi della situazione critica del centro turco e soprattutto della contromanovra cristiana nei suoi riguardi, riesce a disimpegnarsi ed a guadagnare il mare aperto con una trentina di galee nascondendosi nelle isole dei dintorni. Nei giorni seguenti egli si impadronisce di una lenta galea veneziana, la Bua, dirigendosi poi verso Costantinopoli. In uno degli ultimo sconti su tale fronte il capitano Ojeda, al comando della galea Guzmana, raggiunge la Capitana di Malta, l'abborda e la riconquista, costringendo Ulug Alì ad abbandonare la preda.

È ormai il tramonto.  Il Centro della Lega ha il sopravvento sull’omologo turco ed al grido di vittoria del centro risponde quello dell'ala sinistra cristiana che, benché provatissima, è riuscita anch'essa ad aver ragione del nemico. La più grande battaglia di galee che la storia ricordi è finita ed i Turchi sono stati completamente sconfitti. I pochi superstiti si ritirano verso l'interno del golfo di Corinto.

La flotta vittoriosa invece, per sfuggire ad una imminente tempesta, si rifugia nel porto di Petala; il consiglio di guerra della Lega, constatato che non é possibile tentare altre imprese per la stagione inoltrata e per le condizioni delle navi, stabilisce, quindi, di far vela verso ponente e il 10 ottobre 1571 la flotta entra nel porto di Santa Maura, e quindi si porta a Messina. Qui viene fatta la divisione delle spoglie e a Venezia toccano ventisette galee ed altre navi minori, sessantadue cannoni tra grossi e piccoli e milleduecento schiavi.

Perdite

TURCHI

60 - 80   galee affondate

24          galeotte affondate

117        galee  catturate

13          galeotte  catturate

~ 35     mila morti e dispersi (Alì Pashà, Hassan Pashà, Mehemet Scirocco, il comandante dei giannizzeri, ed altri 10 pashà morti)

> 5         mila prigionieri e feriti

> 10       mila schiavi cristiani liberati.

CRISTIANI

15          galee affondate

1            galea catturata da Ulug Alì

~ 7.500  morti e dispersi, di cui ~ 2.300 veneziani (Barbarigo, Orsini, Carafa, Cardona, Cornaro, ecc. morti)

~ 7.700  feriti.

Conclusione

L'annuncio della sconfitta produsse grande esultanza nel mondo cristiano ed ovviamente grandissima costernazione a Costantinopoli. Si dice che il Sultano Selim rimanesse tre giorni senza prender cibo; però il Gran Visir Mehemet Sokolli non rimase scosso dalla disfatta e al Legato veneto Barbaro disse: «Lepanto ci ha solamente tagliata la barba; essa crescerà più folta di prima; Venezia con Cipro ha perso un braccio e questo non cresce più ». L’unico a gioire davvero della “grande vittoria cristiana” e a darsi diplomaticamente da fare affinché gli europei insieme assalissero Istanbul fu l’avversario storico del sultano, lo shah di Persia Tahmasp, musulmano come il suo nemico (ma sciita). La battaglia di Lepanto fu certamente una straordinaria vittoria tattica, ma non ci fu quello che normalmente avviene dopo una grande evento militare, l’immediato sfruttamento del successo. Da un punto di vista merceologico la stagione era ormai avanzata ed ogni operazione doveva essere rimandata alla primavera seguente. Ma la Lega Santa non aveva al suo interno forze residue e soprattutto motivazioni per rimanere unita. I due principali alleati della Lega, la Spagna e Venezia avevano due politiche ed interessi nettamente divergenti. Alla prima interessava il completo controllo del Mediterraneo occidentale, mentre per la seconda era vitale continuare a mantenere i possedimenti nel Mediterraneo orientale e le relative rotte. Di fatto morto papa Pio 5° la Lega Santa si scioglie come neve al sole ed i Veneziani che tanto avevano sperato da questa vittoria decidono di venire a pat­ti coi Turchi, così come farà anche Filippo 2°.

Questa vittoria mutilata per lungo tempo fu oggetto di discussioni ed anche di malevoli critiche, alimentate nel campo cristiano specialmente dalla Francia, ma in realtà Lepanto segna il tramonto dei sogni ottomani del controllo del Mediterraneo orientale e la perdita di quell’alone di invincibilità sui mari che aveva acquisito con oltre un secolo di vittorie. Certo rimane il rammarico di Venezia e dello stesso Don Juan per uno sfruttamento pieno di promesse non compiuto. Conviene chiudere la conclusione con le parole di Fernand Braudel, che nel suo capolavoro, “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo 2°” scrive: «Se, anziché badare soltanto a ciò che seguì Lepanto, si pensasse alla situazione precedente, la vittoria apparirebbe come la fine di una miseria, la fine di un reale complesso d’inferiorità della Cristianità. La fine di un’altrettanto reale supremazia turca. La vittoria cristiana sbarrò la strada a un avvenire che si annunciava molto oscuro. Se la flotta di don Giovanni fosse stata distrutta, chissà? Napoli, la Sicilia sarebbero forse state attaccate, gli Algerini avrebbero cercato di riaccendere l’incendio di Granata o di estenderlo a Valenza. Prima di fare dell’ironia su Lepanto, seguendo le orme di Voltaire, è forse ragionevole considerare il significato immediato della vittoria. Esso fu enorme».

Se non si ebbero altre conseguenze immediate, oltre al fatto che «l’incanto della potenza turca fu infranto» e  che era stata sfatata la fama che i turchi erano invincibili sul mare, ciò fu dovuto anche al fatto che gli inglesi, gli olandesi ed i francesi ripresero le loro manovre antispagnole. E Filippo 2° fu costretto, con il consueto realismo, a negare quegli uomini e quei mezzi che don Giovanni d’Austria reclamava a gran voce per portare l’attacco al cuore della mezzaluna.

 

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IL LONGBOW o ARCO LUNGO

IL LONGBOW o ARCO LUNGO

 

(Stampato su “SUBASIO” n. 1/15 del marzo 2007, Bollettino trimestrale dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi)

 

 

Arma celebre e provvidenziale per gli Inglesi, per aver loro permesso di ottenere significative vittorie sui Francesi nella guerra dei cent’anni, perché ha avuto un tale rinomanza?

 

Robin Hood è universalmente noto per essere stato uno dei più celebri arcieri del medioevo. I testi che lo ricordano, molto posteriori al suo periodo, non corrispondono più all’ideale cavalleresco, ma testimoniano ampiamente la popolarità goduta dall’arco verso la fine del periodo medievale. La sua arte di combattimento è quella dei “villani” e dei soldati a piedi. Sebbene mai indicato nelle fonti scritte come longbow, questo termine, di origine recente, consente di distinguerlo dall’arco corto, utilizzato prima del 1200 e dalla balestra, una evoluzione speciale della stessa famiglia.

L’uso del longbow diviene predominante nell’esercito inglese sotto il regno di Edoardo 1° (1272 - 1307) ed il suo impiego in combattimento contribuisce a modificare sensibilmente l’arte militare inglese della fine del medioevo. Esso è rivelatore di un considerevole cambiamento nell’impiego tattico sul terreno, conseguente all’applicazione del principio della combinazione delle forze: in tale contesto, l’intervento di ogni arma veniva effettuato in relazione all’evoluzione della situazione sul campo. Il longbow non è pertanto un “arma miracolosa”, ma solamente un elemento del dispositivo di combattimento e di un impiego tattico complessivo, decisamente più efficiente. La sua efficacia dipende altresì dalla costituzione di un gruppo di specialisti sul nuovo armamento, decisamente ben addestrati.

Un’origine oscura

Le fonti disponibili risultano estremamente carenti per abbozzare l’origine dell’arco lungo ed in tale quadro la tesi che i Normanni siano stati i primi ad introdurre l’uso del longbow è abbastanza discutibile. In effetti, se ci si riferisce al famoso arazzo di Bayeux (11° secolo), le armi degli arcieri di Guglielmo in Conquistatore, non sono molto differenti da quelle conosciute ed utilizzate in Inghilterra nello stesso periodo e si riferiscono ad archi del tipo “corto”, armati all’altezza del petto.

Per contro, diversi indizi convergono per dimostrare che l’arco lungo comincia ad essere utilizzato nel sud del Galles, prima del regno di Enrico 2° (1154 - 1189). Un certo Giraldi Cambrensis evoca la potenza di tiro dell’arco gallese e la sua utilizzazione da parte degli arcieri delle contee di Gwent e di Glamorgan, che eccellono nel suo impiego. Egli descrive i suoi effetti in un testo della fine del 12° secolo: “ …. Nella guerra contro i Gallesi, un uomo d’arme fu colpito da una freccia scoccata da un Gallese. Questa, dopo essere penetrata direttamente nell’alto della coscia, laddove la gamba è protetta internamente ed esternamente da dei cosciali in ferro, ha quindi attraversato la veste della sua tunica di cuoio; successivamente la freccia dopo aver trafitto il piatto della sella, si é conficcata tanto profondamente nel corpo del cavallo, da ucciderlo”.

Lo stesso Giraldi riporta una descrizione dell’arco della contea di Gwent, riferendo che era confezionato in modo composito, con corno, frassino o olmo, e quasi mai vi veniva impiegato il legno del tasso (materiale che invece sarà particolarmente utilizzato per l’arco lungo). Quest’arma, secondo la sua testimonianza, risulta piuttosto brutta e presenta l’aspetto di qualcosa di incompiuto. Tuttavia, incredibilmente rigida, grande e potente, risulta particolarmente efficace, sia alle corte, che alle lunghe distanze. In un primo tempo il longbow viene utilizzato esclusivamente nel Galles, mentre nelle regioni circonvicine la fanteria è composta essenzialmente di lancieri ed in effetti quando la monarchia inglese introduce l’uso del longbow sul campo di battaglia, la fanteria del regno era composta in maggioranza di arcieri gallesi (Sherwood, Chiltern, ecc.).

Il sud est dell’Inghilterra risulta peraltro la regione più ricca di legname per la fabbricazione dell’arco lungo.

Una supremazia tardiva

L’arco è chiaramente già ampiamente conosciuto in Inghilterra prima del suo sistematico impiego sul campo di battaglia, ma poche fonti scritte fanno menzione della sua utilizzazione a fini militari prima del suo periodo di massimo impiego, il 13° secolo. Sotto il regno di Enrico 2°, non costituisce ancora l’arma preferita dalla maggior parte delle classi di combattenti della società inglese. Questo atteggiamento sembra confermato anche dalla speciale predilezione di suo figlio, Riccardo Cuor di Leone, per la balestra. Questi decisamente convinto dell’efficacia della balestra, cercherà di procurarsi dei mercenari specializzati per il suo impiego. Appare evidente che l’arco presenta dei vantaggi considerevoli sulla balestra, non fosse altro per il solo tempo di caricamento, ma probabilmente Riccardo 1° Plantageneto apprezza nella balestra il suo straordinario potere di penetrazione. In effetti, su questo punto specifico solo nel 14° secolo l’arco potrà concorrere con la balestra, a condizione che gli arcieri siano ben addestrati. Per questa ragione l’arco corto, che risulta già di impiego comune fin prima della conquista dell’Inghilterra da parte dei Normanni, viene soppiantato per un certo periodo dalla balestra.

Sotto il regno di Enrico 3° (1216 - 1272), nell’epoca in cui il ruolo del longbow diviene importante nel combattimento, la balestra è ancora considerata un’arma superiore ed i balestrieri come il fiore all’occhiello della fanteria inglese. Ma l’arco lungo diviene durante la guerra del cent’anni lo strumento di numerose vittorie inglesi (Crecy, Azincourt), a seguito delle quali anche i Francesi finiranno per adottarlo, ma con decisamente minore successo. Nel continente nelle truppe dei re normanni ed angioini, gli arcieri non costituiscono un corpo importante e non sono certamente i più efficaci: la supremazia della cavalleria rimane per lungo tempo incontestata.

Un utile divertimento

Nel 15° e 16° secolo in Inghilterra, le discussioni in materia di arte militare rimangono dominate dall’impiego dell’arco sul campo di battaglia. Molti sono ancora le persone che convinte del “carattere provvidenziale” di quest’arma, proprio per effetto del ruolo determinante che aveva giocato nella guerra dei cent’anni. Per di più dopo la fine del medioevo la sua pratica era considerata, da parte della classe dirigente, come benefica per la popolazione. Il dibattito risulta peraltro molto appassionato, volendo attribuire a tale esercizio delle virtù di civismo. Le prescrizioni reali in materia di preparazione militare non possono peraltro essere dissociate da un fenomeno che genera una forma di divertimento molto apprezzato alla fine del medioevo. Esse stabiliscono di esercitarsi al tiro con l’arco su delle aree specificamente dedicate a tale scopo. In tale contesto diviene usuale organizzare delle gare di tiro ed in tal modo, l’esercizio, prescritto per il popolo dalle ordinanze, diviene in qualche maniera anche il garante della sua forma fisica. In ogni località del paese, viene organizzata un’area per l’addestramento, un terreno generalmente in declivio, sulla cui parte più elevata viene fissato il bersaut, da cui bersaglio. Risulta comunque difficile stabilire se tali usanze sono state il frutto delle ordinanze reali o piuttosto se le stesse non abbiamo definitivamente regolamentato un’usanza già diffusa nel paese, specie nella gioventù. In ogni caso, numerose testimonianze iconografiche forniscono una prova evidente che l’esercizio di tale “sport” era praticato anche da parte della nobiltà e della borghesia. Per contro nel resto dell’Europa occidentale, le armi da tratto ed a fortiori l’arco, non vengono più impiegate sul campo di battaglia dall’inizio del 14° secolo.

La larga diffusione dell’archibugio ha contribuito a soppiantarle, sia nella guerra ossidionale, che sul campo. Questo cambiamento di maniera di combattere altrove contribuisce ad alimentare in Inghilterra la polemica fra i conservatori, partigiani dell’arco ed i loro detrattori, che insistevano sulla necessità di adattarsi ai cambiamenti ad ai progressi tecnici in materia d’armamento.

Proprietà tecniche eccezionali

Alcune delle proprietà del longbow meritano di essere ricordate, così come i materiali impiegati ed i metodi di fabbricazione. La struttura dell’arco non è composita e risulta normalmente costituito di legno di tasso (ma non sempre), fatto che lo rende leggero, flessibile e rapido nella risposta. Nelle sue rare rappresentazioni, sembrerebbero essere state sfruttate le proprietà complementari della parte centrale (cuore) del legno, che, più duro, resiste meglio alle compressioni e della parte periferica del legno (alburno; parte sotto la scorza più chiara), perfetto per resistere alle tensioni. Appare opportuno sottolineare che più l’arco è lungo e più si piega in sicurezza, ma, al di là di una certa lunghezza, la sua potenza decresce. Tuttavia non esiste alcuna relazione diretta fra la lunghezza dell’arco e quella della freccia, che evidentemente è condizionata dall’altezza e dalla spalla dell’arciere. In effetti è l’angolo che il tiratore è capace di dare alla corda, ovvero la distanza massima fra la mano che tiene l’arco e quella che tende la corda, che determina la lunghezza della freccia, quello che, in gergo, si chiama l’allungo di un tiratore. Questi archi, in posizione di armamento, non devono superare il metro e ottanta di altezza, dato che è già considerevole. Essi debbono poter lanciare con regolarità e precisione senza affaticare significativamente l’arciere. Poiché la potenza dell’arco risultava relativamente significativa (dell’ordine delle 80 - 90 libbre a seconda delle stime), era parallelamente necessario un esercizio regolare per un suo impiego efficace o solo, più semplicemente, per armarlo. I criteri di efficacia per le armi da tratto si riferiscono in primo luogo alla potenza di perforazione ma anche alla loro precisione. Quest’ultima caratteristica varia notevolmente e si esprime attraverso scarti di portata o di precisione di tiro in direzione. Affinché l’arco sia effettivamente efficace la sua forma ed il suo materiale debbono rispondere ad un vincolo, cioé necessitano di essere adattati all’arciere che l’impiega. Questi cerca di trasmettere all’arco il massimo di energia possibile in funzione della sua forza e della lunghezza del suo braccio e questa situazione è quella che determina la lunghezza delle sue frecce. Le sezioni dell’arco devono rimanere leggere, pur nella loro capacità di immagazzinare energia. Il limite di elasticità determina la massima tensione della corda, cioè l’estensione massima, sotto la quale il materiale riassume la sua forma originale, dopo il rilascio della corda. In un secondo tempo il massimo dell’energia immagazzinata deve potersi trasmettere alla freccia attraverso una buona dinamica di lancio: in ogni caso nella maggioranza dei casi circa un 25% di energia viene perduta in vibrazioni e sfregamento dell’arco e della freccia. L’energia trasmessa alla freccia è tanto maggiore quanto questa è maggiore di peso ed il tutto si concretizza in una migliore efficacia.

Le frecce

Un buon controllo, da parte dell’arciere, delle proprietà meccaniche e della tensione dl suo arco risulta, come abbiamo visto, determinante per la scelta delle sue frecce. Queste hanno una grande efficacia perché superano nettamente in portata (distanza), nel tiro parabolico, tutti gli altri tipi di proiettili. Seppure semplici nella loro concezione, esse sono tuttavia di delicata fabbricazione: devono essere perfettamente adattate all’arco in  lunghezza ed in peso; devono essere diritte e possedere dei buoni impennaggi; disporre di una asta di relativa flessibilità e di una punta appropriata. Le punte delle frecce presentano forme molto differenti. Esse sono generalmente di ferro, provviste di elemento che viene conficcato in cima all’asta di legno o di un bossolo che si adatta all’estremità della stessa. La funzione della intaccatura finale della freccia è quella di mantenerla sulla corda, fino al trasferimento completo dell’energia al momento del tiro. Per quanto riguarda gli impennaggi (di piume), questi permettono di assicurare la stabilità del proiettile nell’aria, aumentandone considerevolmente la portata. E’ pertanto possibile affermare che gli artigiani medievali possedevano una conoscenza empirica dell’aerodinamica e dominavano alcuni principi meccanici; i proiettili e le armi da tratto ne sono la dimostrazione. Tuttavia anche se le caratteristiche del longbow risultano eccezionali, un buon arco non presuppone automaticamente un buon arciere, perché la precisione del gesto e la forza applicata fanno parte integrante della pratica di ogni buon arciere ed ecco dunque perché la fama di un Robin Hood non è usurpata ed è durata fino ai giorni nostri.

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