facebook
^Torna sù

  • 1 www.iacopi.org
    IACOPI o JACOPI: una serie di antiche famiglie originarie della TOSCANA
  • 2 Iacopi - Jacopi
    Un cognome molto raro con (alle spalle) una storia importante !
  • 3 RICERCHE E STUDI
    Alla ricerca delle origini e della storia degli IACOPI. Sito interamente creato grazie alla ricerca e agli studi.
  • 4 AIUTI GRADITI
    Essendo ricerche storiche molto complesse è possibile vi sia qualche errore. Nel caso riscontriate delle imprecisioni vi prego di comunicarlo a maxtrimurti@gmail.com
  • 5 Benvenuto
    Buona navigazione.

IACOPI DISCENDENZE E STORIA

Una vita di ricerche per conoscere chi sono.

  

GIAPPONE da Pearl Harbour ad Hiroshima

GIAPPONE

da Pearl Harbour ad Hiroshima

Il Giappone, diventato potenza mondiale ed asiatica, viene rifiutato dagli Stati Uniti come potenza dominante in Asia. Racconto di uno scontro ineluttabile.

Il Giappone, a seguito della Rivoluzione Meiji, marcata da immense riforme istituzionali e da un decollo tecnico ed economico senza precedenti, si erge al rango di potenza regionale. Già dal 1894 dimostra contro la Cina l’ampiezza del suo potenziale militare e più ancora nel 1904-05 in occasione della guerra russo giapponese. Esso evidenzia con chiarezza in tal modo la sua volontà espansionista, installandosi in Corea e quindi in Manciuria, non nascondendo persino aspirazioni anche ad una parte della Cina. Tuttavia negli anni 1920 il paese prosegue la sua crescita ed adotta una linea politica basata più sull’espansione economica che sulla conquista territoriale. La crisi economica del decennio seguente incide fortemente sulla possibilità di utilizzare in via prioritaria questa via di penetrazione. Il Giappone, potenza esportatrice, è alla mercé dei mercati stranieri che possono essergli negati. Diventa molto forte, in tale contesto, la tentazione di imitare le potenze coloniali europee per ritagliarsi con la forza un proprio impero in Asia. A questo obiettivo tende una parte degli ambienti militari, ai quali la Costituzione del 1889 prescrive la partecipazione al potere e l’accesso privilegiato alla persona dell’imperatore. Guidati dal generale Araki, essi non hanno difficoltà a ricorrere all’azione di forza e pervengono ad imporsi nel cuore dell’apparto dello Stato, dopo il tentativo di colpo di stato del 26 febbraio 1936, nel corso del quale sono assassinati numerosi ministri moderati. La prima fase della nuova politica inizia con l’attacco alla Cina nel luglio 1937, dopo la costituzione del Governo del Principe Konoye, che rivela impotente davanti ai clan militari.

A partire dalla fine della 1^ Guerra Mondiale, da cui il Giappone saprà trarre profitto facendosi attribuire i possedimenti tedeschi del pacifico (isole Caroline, Marianne e Marshall), gli USA si sono dimostrati preoccupati della politica giapponese. Essi hanno adottato una serie di misure per costringere l’Impero del Sol Levante a ridurre il tonnellaggio delle propria flotta. Negli anni 1930 essi denunciano il dominio nipponico sulla Manciuria ed additano il Giappone, con giri di parole, come un pericolo per la pace mondiale. Gli Americani sono peraltro coscienti che essi possono esercitare un forte pressione sull’economia nipponica nel campo delle materie prime e del petrolio.

Le ambiguità del 1940

Per poter comprendere meglio le poste in gioco che porteranno allo scoppio del conflitto, conviene riandare al luglio 1940, allorché il principe Konoye ritorna al potere. Discendente da uno dei più nobili lignaggi del Giappone, cugino dell’Imperatore, il principe ha percorso una carriera di diplomatico. Egli ha presieduto dei pari nel 1933 e nel 1937 diviene Primo Ministro, per dimettersi poco dopo allo scopo di smarcarsi dalla fazione militarista, allora imperante a Tokyo. Di nuovo Capo del Governo nel 1940, Konoye si fissa l’obiettivo di ristrutturare l’economia attraverso la costituzione di una “Sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale”. Questa visione risponde alle necessità di una economia giapponese minacciata e risponde anche ad una volontà di trarre profitto dal conflitto che si è aperto in Europa, imponendo una “Pax nipponica” sul sud est asiatico.

Tuttavia, agli occhi di Konoye, indubbiamente nazionalista, ma adepto della prudenza, la forza non può essere considerata in maniera diretta. L’espansionismo deve poter progredire con abilità, per non mettere in pericolo la pace e l’economia giapponese, sempre molto dipendente dagli approvvigionamenti esterni, controllati dagli USA. Nel 1939, più del 75% dei metalli ferrosi, il 93% del rame, l’80% del petrolio, il 60% della macchine e l’insieme dei componenti per gli acciai speciali, come il vanadio, devono essere importati dagli Stati Uniti. La potenza giapponese, privata di queste risorse, crollerebbe ed il suo arsenale militare sarebbe conseguentemente ridotto all’impotenza.

Nel luglio 1940 il Giappone non è ancora legato strettamente alle sorti della Germania. Esso si interroga se il vincitore della Francia non possa spingere l’URSS verso l’Asia, come Bismarck aveva già tentato a suo tempo di agire con la Russia. Una URSS che ha inferto un duro rovescio al Giappone ai confini della Manciuria e della mongolia, in occasione della troppo ignorata Battaglia di Kalkhin Gol (luglio - agosto 1939). Una sconfitta che ipoteca e rende problematica la possibilità di creare un vasto impero continentale con l’impiego delle forze terrestri.

L’analisi che il Gabinetto Konoye fa del conflitto mondiale riposa su tre ipotesi: la Germania vince la guerra, il patto germano sovietico è solido ed il mondo sarà dominato da quattro potenze (Germania, URSS, Giappone e Stati Uniti).

I Giapponesi sono convinti che la fermezza ed anche le minacce possono permettere di mantenere gli Stati Uniti fuori dal conflitto. E’ pertanto in questo contesto che viene firmato il Patto Tripartito con Roma e Berlino, il 27 settembre 1940. Il Giappone si era poco prima assicurato il dominio su una parte dell’Indocina, sfruttando la schiacciante sconfitta francese del giugno 1940. Questi intervento in Indovina porta al massimo la tensione americano nipponica. All’interno dello stato maggiore giapponese, l’alleanza con la Germania e la prospettiva di un conflitto con gli USA non raccolgono l’unanimità. L’ammiraglio Yamamoto, comandante della flotta combinata, parlando della potenza americana dichiara: “Chiunque ha visto le sue fabbriche di automobili a Detroit o i suoi campi petroliferi del Texas sa che il Giappone manca di ricchezze e di potenza per lanciarsi in una competizione navale con una tale nazione”. La sua voce riscuote un certo seguito: Yamamoto,  antico allievo di Harvard, addetto navale a Washington negli anni 1920, ha potuto prendere piena cognizione delle immense capacità industriali di una potenza che la maggioranza dei membri del governo Konoye invece sottovalutano.. Al primo ministro che lo sonda sulle prospettive di una guerra contro l’America lo stesso Yamamoto risponde: “Se dobbiamo fare la guerra, io sono in grado di assicurare un combattimento al massimo delle possibilità per i primi sei mesi; ma non posso rispondere di quello che potrà succedere se la lotta dovrà continuare per uno o due anni: E’ ormai troppo tardi per rimettere in discussione il patto tripartito, ma io oso sperare che voi vi sforzerete di evitare una guerra con l’America”. Affinché il Giappone abbia comunque una possibilità di riuscire vittorioso nel conflitto, il solo mezzo che intravede Yamamoto sarebbe quello della distruzione della flotta americana del Pacifico, al fine di imporre una pace favorevole in meno di sei mesi. Egli sogna in tal modo una nuova Tsushima, la battaglia navale che ha permesso la vittoria nipponica sui Russi nel 1905.

La marcia alla guerra

La priorità sembra comunque restare nell’ambito diplomatico. Il Giappone si assicura la neutralità dell’URSS, per mezzo di un patto di neutralità firmato nel 1941 e non cede alle richieste tedesche che lo premono per un entrata rapida nel conflitto.. Nel luglio 1941, il Presidente USA Franklin Delano Roosevelt, dopo aver richiesto invano al Giappone il suo ritiro dall’Indocina e dopo essersi convinto da tempo dell’ineluttabilità del conflitto, decide di congelare gli interessi giapponesi negli Stati Uniti. Nei giorni che seguono la Gran Bretagna, le Filippine, poi le Indie olandesi e la Nuova Zelanda applicano misure analoghe. Gli USA esigono dai loro partners l’embargo sulle forniture di petrolio al Giappone. A partire dalla fine del luglio 1941 il Giappone non riceve più petrolio, nel momento in cui le sue riserve vengono consumate al ritmo di 400 mila tonnellate al mese. Nel mese di agosto l’embargo diventa totale. Il New York Times può scrivere “queste misure sono l’atto finale prima dell’entrata in guerra”. Tuttavia le conversazioni iniziate con gli USA non sono state interrotte. Per gli Americani i negoziati hanno lo scopo di costringere il Giappone a piegarsi e ad abbandonare le conquiste in Indovina, ma una tale ritirata appare inconcepibile agli occhi delle nuove generazioni di ufficiali dell’Esercito nipponico.

I militari sono convinti che il tempo stringe e l’ammiraglio Nagumo, specialista degli attacchi navali, dichiara nel settembre 1941: “Sono tanto più certo che possiamo vincere la guerra ora, come sono altrettanto convinto che con il tempo le nostre possibilità ci possano abbandonare definitivamente”.

La pressione si accentua su Konoye che, restio ad entrare nel conflitto e preso atto che la sua posizione è ormai diventata indifendibile, decide di dare le dimissioni nell’ottobre 1941. Al suo posto viene nominato il generale Tojo, una dei generali di estrazione plebea, apertamente avversario dei baroni dell’industria. Tuttavia i negoziati proseguono almeno con gli Stati Uniti, ad esplicita richiesta dell’Imperatore Hiro Hito, preoccupato per le prospettive del conflitto

Ma le proposte nipponiche vengono ancora una volta respinte ed il 26 novembre 1941 il Segretario di Stato USA, Cordell Hull, fa consegnare un documento ai Nipponici, nel quale condiziona la ripresa dei rifornimenti di petrolio all’accettazione da parte del Giappone di dieci condizioni esorbitanti, fra le quali in particolar modo la ritirata delle truppe imperiali dalla Cina e dall’Indocina ed inoltre la denuncia dal Patto Tripartito.

Abbandonare l’Asse sarebbe un nonnulla per i Giapponesi, ma la richieste territoriali appaiono decisamente inaccettabili. A seguito di un’ultima conferenza governativa, l’imperatore accetta il principio della guerra, malgrado le sue reticenze. Il 2 dicembre 1941 i Capi di SM dell’Esercito e della Marina imperiale chiedono udienza ed annunciano un attacco segreto per il 7 dicembre seguente.

Washington è cosciente dell’imminenza di un conflitto armato. Il generale Marshall, consigliere militare di Roosevelt, gli rimette una memoria che precisa: “Se i negoziati attuali si concludono senza un accordo, il Giappone rischia di attaccare la rotta della Birmania, la Thailandia, la Malesia, le Indie Olandesi, le Filippine, le province marittime della Russia. L’essenziale ora per gli USA è di guadagnare del tempo, in quanto anche se dei considerevoli rinforzi sono stati avviati verso le Filippine, il livello di potenza necessario per fanteria, aviazione e marina non è stato raggiunto”.

L’attacco non avrà luogo nelle Filippine, ma a Pearl Harbour, la base americana delle isole Hawai, in maniera folgorante e nel più assoluto segreto. Il 7 dicembre 1941, poco prima delle otto del mattino, gli aerei siluranti della marina imperiale attaccano la base, realizzando una sorpresa totale. In qualche minuto le 8 corazzate della flotta americana del Pacifico sono fuori combattimento con 159 aerei distrutti. L’operazione, concepita dall’ammiraglio Yamamoto viene realizzata dall’ammiraglio Nagumo e per gli USA il bilancio è disastroso ed enorme sarà lo shock di ordine psicologico.

Per molto tempo Roosevelt sarà accusato di aver scientemente dissimulato le informazioni che preannunciavano l’imminenza di un attacco giapponese a Pearl Harbour, ciò al fine di creare un casus belli per provocare la mobilitazione dell’opinione pubblica e di conseguenza lo scoppio della guerra, che egli desiderava contro il Giappone e Potenze dell’Asse. Nonostante una serie di presunzioni e di accuse dell’ammiraglio americano Theobald, non si dispone fino ad oggi di vere prove a riguardo. In ogni caso, dopo il luglio 1941, attraverso l’embargo sulle forniture di petrolio, Roosevelt aveva implicitamente già aperto le ostilità e nel novembre 1941,con la sua decisione di rompere i negoziati,aveva deliberatamente spinto il Giappone alla guerra.

Sei mesi di conquiste, poi il riflusso

Dopo la sorpresa di Pearl Harbour seguono sei mesi di “guerra lampo”, secondo i piani di Yamamoto. In qualche mese i Giapponesi, ormai padroni del mare, si impadroniscono delle Filippine, di Hong Kong, della Malesia, della fortezza inglese di Singapore, giudicata imprendibile, dell’insieme dell’Indonesia e della Birmania. Tre giorni dopo Pearl Harbour, l’aeronavale giapponese affonda due navi da guerra britanniche inviate nell’area da Churchill come deterrente, il Prince of Wales ed il Repulse. Qualche mese più tardi la portaerei Hermes viene ugualmente affondata ed a quel punto l’ammiragliato britannico decide di ripiegare i resti della flotta  sull’Africa Orientale, abbandonando il Pacifico.

Agli inizi di gennaio 1942 lo Stato Maggiore nipponico è diviso sulla strategia da seguire. In seno all’esercito dei generali auspicano una pausa nelle conquiste: Essi si rifiutano di sguarnire la Cina e la Manciuria. Per contro la Marina imperiale, aureolata dal successo vuole proseguire la conquista nella convinzione che il tempo gioca contro il Giappone.

Da parte americana, contrariamente alle speranze di Yamamoto, lo shock di Pearl Harbour scatena una volontà inflessibile di condurre una lotta ad oltranza fino alla capitolazione dell’avversario. La strategia nel pacifico si fissa l’obiettivo di tenere le Hawai, di sostenere l’Australia e risalire a nord attraverso le Nuove Ebridi. Questo piano deve essere messo in opera nel giro di sei mesi. Questo compito viene accompagnato da una mobilitazione generale e da uno sforzo prodigioso di produzione dei cantieri navali e della costruzione di nuovi aerei capaci di assicurare sul mare e nell’aria una superiorità contro la quale il Giappone non potrà lottare.

Dopo un successo tattico dei Giapponesi il 5 e l’8 maggio 1942 nel Mar dei Coralli, si verificano due eventi fondamentali del duello nippo-americano. A Midway il 5 giugno seguente Yamamoto e Nagumo falliscono nel loro tentativo di conquistare l’atollo e di distruggere la flotta americana. A seguito di questa battaglia i nipponici perdono 5 portaerei a fronte delle due dei loro avversari. Il secondo evento avviene a Guadalcanal. Gli ammiragli King e Nimitz, per proteggere l’Australia, hanno risposto con uno sbarco in quest’isola, punto di partenza di una battaglia accanita che durerà fino al febbraio 1943. La tenacia americana viene ricompensata. I Giapponesi sono costretti ad evacuare Guadalcanal e nel frattempo Mac Arthur può iniziare la lenta riconquista delle isole Salomone. Nel corso di queste due battaglie i generali ed ammiragli americani danno prova di una grande audacia, hanno acquisito ormai una solida esperienza di operazioni combinate, predisponendo anche una efficace dottrina di combattimento.

Dopo Guadalcanal l’iniziativa sfugge ai Nipponici, costretti ormai alla difensiva. A partire dalla fine del 1943 la riconquista americana vede una imponente crescita di potenza, grazie al suo inesauribile potenziale industriale, di fronte ad un Giappone che non è in grado di affrontare una guerra lunga e manca drammaticamente di trasporti marittimi.. La flotta commerciale nipponica, prima vittima dei sottomarini americani, non può più garantire il rifornimento delle forze disperse nei vari teatri di guerra, che vanno dalla Cina alla Nuova Guinea. A differenza degli Americani i Giapponesi dimostreranno di non saper fare un buon uso dei loro sottomarini.

Il rifiuto di capitolare

Il piano strategico americano approvato nel maggio 1943 prevede una gigantesca manovra a tenaglia partente dalla Nuova Guinea verso le Filippine e dalle isole Gilbert, Marshall e Marianne verso lo stesso Giappone. L’esecuzione del piano è stata affidata al generale MacArthur ed all’ammiraglio Nimitz. La progressione si svilupperà di arcipelago in arcipelago seguendo la strategia del “salto di montone”. Verranno saltati delle intere zone per concentrarsi su obiettivi più importanti: Guam e Leyte.

La flotta giapponese è ormai surclassata dal suo avversario, mentre sul continente le offensive condotte in Birmania ed in Cina non riportano risultati comparabili. Per di più l’ammiraglio Yamamoto, il capo militare di maggior talento del Sol Levante viene ucciso il 18 aprile 1943. La resistenza accanita dei Giapponesi nelle isole Salomone, in Nuova Guinea, nelle isole Gilbert, nelle Caroline e quindi alle Marianne non può nulla contro la formidabile macchina da guerra messa in opera dagli USA, parallelamente all’enorme sforzo che impegnano in Europa. Dopo la caduta di Saipan (8 luglio 1944) l’ammiraglio Nagumo si suicida.

Il 15 giugno 1944 un consigliere dell’imperatore scrive: “”L’Inferno è sopra di noi” Nei due mesi che seguono la conquista delle Marianne, i primi bombardamenti cominciato a raggiungere il territorio del Giappone. A tutto questo si aggiunge la distruzione di una parte della 1^ flotta mobile e, sul continente, il fallimento delle offensive condotte dall’esercito imperiale dalla Birmania. La debolezza delle guarnigioni nipponiche si spiega con la deficienza di tonnellaggio marittimo e conseguentemente con l’impossibilità di un regolare rifornimento delle truppe, mentre dall’altro lato gli Americani acquisiscono a poco a poco il controllo del mare.

I Giapponesi sono ormai surclassati in tutti i settori, specialmente nella produzione d’armamenti. Essi hanno prodotto 5 mila aerei contro i 19 mila degli USA nel 1941; 9 mila contro i 50 mila nel 1942; 26 mila contro i 92 mila del 1944.

Le sconfitte successive costringono il generale Tojo alle dimissioni il 18 luglio 1944. L’imperatore Hiro Hito chiede al nuovo governo di cercare di mettere fine alla guerra in Asia e di non provocare i Sovietici. I Giapponesi sono ormai alla ricerca di una pace di compromesso, ma gli Alleati esigono una capitolazione senza condizioni. Di fronte a richieste inaccettabili, il combattimento delle forze nipponiche assomiglia sempre di più ad un disperato sacrificio.

Nell’ottobre 1944, nel corso della Battaglia di Leyte, si verifica la fine della flotta giapponese come forza navale coerente ma in questo battaglia intervengono le missioni dei primi aerei suicidi, i Kamikaze ( o Vento Divino). Da questo momento le missioni senza rientro faranno parte della quotidianità. A Okinawa (aprile - giugno 1945) 100 mila uomini impegnati nella difesa dell’isola muoiono in combattimento senza arrendersi. Per i militari, che continuano ancora a dominare il governo nipponico, l’eroismo dei Kamikaze deve servire di modello ai difensori dell’arcipelago. Tre milioni di soldati in armi e migliaia di aerei si apprestano a combattere. La mattina del 10 marzo 1945 trecento B29 americani scaricano migliaia di bombe incendiarie su Tokyo, una delle più grandi città del mondo costruite in legno.. Bilancio apocalittico di 197 mila morti, fra i quali moltissime donne e bambini. Tuttavia il Giappone rifiuta sempre di capitolare, mentre la Germania cessa di combattere l’8 maggio 1945.

Nel campo americano la resistenza accanita di Okinawa, dove sono efficacemente intervenuti i kamikaze, determina la decisione presa da Truman, successore di Roosevelt, di utilizzare la nuova e terrificante arma delle bombe atomiche. Queste bombe colpiscono successivamente Hiroshima (200 mila morti e 50 mila feriti) il 6 agosto 1945 e Nagasaki il 9 agosto 1945 (120 mila morti e 80 mila feriti). Nella stessa giornata del 9 agosto si tiene a Tokyo una riunione del Consiglio Supremo, ma le discussione non portano ad alcun risultato. Alle due del mattino il vecchio ammiraglio Suzuki, che era stato posto alla testa del nuovo governo, dichiara: “Io propongo che tutti noi ci rimettiamo alla saggezza imperiale e che la sostituiamo alle decisioni di questa conferenza”. L’Imperatore Hiro Hito si assume la decisione definitiva. Il 10 agosto 1945 il Giappone richiede la pace e l’annuncio ufficiale della capitolazione viene fatta il 15 dello stesso mese. La pace viene firmata il 2 settembre 1945 e numerosi ufficiale si suicidano.

E’ da vinto, ma non da monarca destituito, che l’Imperatore si presenta 25 giorni più tardi davanti ad un MacArthur che assume già la posa da proconsole. Gli Americani, avendo capito che la chiave della loro conquista consisteva nel mantenimento del principio imperiale, riescono ad assicurare la pace in un paese che si apprestava ad una lotta ad oltranza. In tal modo le forze armate del Giappone possono capitolare, ma il paese può ontinuare a vivere.

GIAPPONE Dalle origini all’era Meiji

GIAPPONE

Dalle origini all’era Meiji

E’ una storia che comincia nella notte dei tempi. Una storia piena di bellezza e di furore. Scorcio cronologico fino al 1868.

Le più antiche fonti scritte relative alle origini del Giappone, contemporanee dell’inizio dell’8° secolo, si riferiscono alle sole tradizioni mitologiche. Il Giappone compare nelle cronache cinesi del 1° secolo sotto il nome di “Popolo di Wa”. Bisogna rivolgersi verso l’archeologia per poterne sapere di più. L’americano E.S. Morse, che insegnava geologia nella nuova università di Tokio fra il 1877 ed il 1879, è stato il pioniere della preistoria e della protostoria giapponese. E’ a lui che si deve la scoperta della cultura Jomon. Gli archeologi giapponesi ne hanno preso rapidamente il cambio, ma purtroppo lo sfruttamento ideologico che è stato fatto dello studio delle origini nazionali all’epoca del Giappone imperialista non ha facilitato un approccio scientifico al problema.

Nessuno sognava di mettere in discussione il mito del primo imperatore Jimmu. Questi, discendente della dea solare Amaterasu, sarebbe stato l’iniziatore, nel 660 avanti Cristo, della linea dinastica imperiale. Bisognerà infatti attendere la sconfitta del 1945 e gli anni della ricostruzione, perché l’archeologia giapponese potesse conoscere un nuovo sviluppo.

Preistoria del Giappone

Migliaia di siti archeologici sono stato metodicamente scavati nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Da questo lavoro è risultato che l’occupazione dell’arcipelago da parte dell’uomo risale ben al di là del periodo Jomon, che va dal 10 mila al 3 mila avanti Cristo e che le culture paleolitiche vi si sono sviluppate almeno 50 mila anni. Queste ricerche archeologiche hanno altresì permesso di precisare quella che è stata l’evoluzione dei gruppi umani installati nel Giappone dal paleolitico medio e superiore fino al neolitico.

Verso il 30 mila, dei “ponti continentali”, dovuti all’abbassamento del livello del mare conseguente alla estensione dei ghiacciai, collegano la Corea all’isola di Kyushu ed a Honshu e quest’ultima all’isola di Hokkaido. Più a nord, quest’ultima isola risulta collegata con l’attuale isola di Sakhalin ed alla costa siberiana. Il mare del Giappone è a quei tempi un vasto lago chiuso come lo era il Baltico nel periodo del mesolitico europeo. L’esistenza di questi “ponti” provvisoriamente emergenti ha favorito l’arrivo sull’arcipelago giapponese di gruppi venuti dal continente che sono state all’origine delle popolazioni ainui autoctone, molto vicine ai popoli degli “urali”, piuttosto che “caucasici”, come si era comunemente creduto per lungo tempo.

Dal – 10 mila al - 6° secolo. Il periodo detto Jomon

Il rilevamento livello dei mari di quel tempo dimostra che già a quel tempo l’arcipelago giapponese era isolato dal resto del continente asiatico e Kyushu, Honshu ed Hokkaido risultano separate. Il periodo detto Jomon, che significa “marcato di corde”, trae il suo nome dalla decorazione della ceramica che la caratterizza. Il vasellame scoperto a Fukui, nella Prefettura di Nagasaki ed a Kamikuroiwa, in quella d’Ehime, risale, secondo la datazione al Carbonio 14, all’11° millennio avanti Cristo e rappresenta il più antico conosciuto al mondo. L’esistenza di vasellame e di abitazioni permanenti si accoppia innegabilmente allo sviluppo dell’agricoltura. La caccia (cervi e cinghiali) e la raccolta (frutti duri, noci, nocciole, castagne), la pesca e la raccolta di frutti di mare appaiono largamente sufficienti per nutrire la popolazione del tempo, quello che viene definito come “neolitico giapponese”, periodo antico ed originale. Delle vestigia di santuari a cielo aperto mettono in evidenza una religione legata alla caccia ed alla forze naturali.

Dal – 4° secolo al 300 dopo Cristo. L’epoca della cultura Yayoi

Questo periodo vede la diffusione della cultura del riso, della tessitura e della metallurgia proveniente dalla Cina, attraverso la Corea. I rituali funerari mettono in evidenza una gerarchizzazione della società e della campane di bronzo, dette Dotaku, diventano oggetti di culto, simboli rituali del potere o delle divinità agrarie che comandano la vita di queste comunità contadine.

Dal 3° al 6° secolo. L’epoca della cultura Kofun

Il tempo dei Kofun è caratterizzato dalla presenza delle tombe a tumulo, di cui le più grandi sono state erette nella regione di Yamato (a sud di Nara) e sono considerate come l’espressione di un potere superiore, di un regime politico, già molto potente, dal quale discenderebbe la linea imperiale giapponese. A partire dal 4° secolo si evidenzia la costruzione di grandi tombe, lunghe diverse centinaia di metri e circondate da fossati. La più grande, che risale al 5° secolo, si trova nella piana di Osaka e viene attribuita all’imperatore semi leggendario Nintoku. In questa categoria di costruzioni solo il mausoleo di Qin Shi Huangdi, il “primo imperatore” della Cina, protetto da migliaia dei suoi guerrieri di terracotta, sembra il più esteso. La tomba di Osaka occupa un’area di 32 ettari e raggiunge una quota di 35 metri. Queste grandi tombe rappresentano l’espressione di un nuovo potere, quello di una aristocrazia guerriera. Sulle pendici di queste tombe erano installate delle statuette di terra cotta di dimensioni variabili, dette Haniwa. La moltiplicazione nell’arredamento funerario dei pezzi legati alla cavalleria e la generalizzazione della rappresentazione dei cavalli testimoniano in questa epoca di invasori a cavallo, venuti senza dubbio dalla Corea.

Tra le federazioni tribali, che strutturano lo spazio giapponese di questo periodo, quella di Yamato sembra essere stata la più potente, al punto tale che i suoi capi si sono presentati come discendenti della divinità solare Amaterasu. Sono stati accertati a questa epoca contatti con i regni coreani, ma anche con la Cina degli Han e quindi dei Wei, che sembra considerare il “Regno dei Wa” come un vassallo. E’ senza dubbio nel 4° secolo che lo Yamato (nome antico del Giappone) riesce a stabilire il suo protettorato sul Minama, nel sud della Corea. I “Barbari dell’Est” delle fonti cinesi, in questo periodo, basano l’essenziale della loro civiltà sugli apporti venuti dal Continente ed in particolare dalla Cina e dalla Corea.

Dal 6° secolo agli inizi del 7° secolo. Introduzione del Buddismo

La riunificazione della Cina da parte dei Sui, accelera la modernizzazione della Corea e del Giappone, che iniziano ad impiegare la scrittura. Il re dei uno dei reami della penisola coreana auspica un protettorato giapponese sulla provincia coreana di Minama che cerca di disputarsi con un monarca rivale. Per incoraggiare l’imperatore Kimmei ad intervenire, egli invia nel 552 una statua di Budda, facendogli intendere la superiorità di questa nuova religione. La corte giapponese si divide sulla questione della religione. Il Clan dei Soga si schiera dalla parte dei favorevoli al Buddismo, mentre il Clan dei Mononobe diviene il capofila di quelli che rimangono attaccati alle credenze tradizionali. Nel 604, a seguito della sconfitta dei Mononobe, il Principe Shotoku emana l’editto dei 17 articoli con il quale raccomanda l’adozione della religione buddista e stabilisce un “protocollo”, ispirato a quello della corte imperiale cinese. Insieme al Buddismo si impone in Giappone anche l’influenza cinese e nel 602 viene adottato anche l’uso del calendario cinese e la nobiltà guerriera nipponica si trasforma a poco a poco in una aristocrazia di funzionari alla stregua dello stesso modello cinese.

Nel 645 un colpo di stato dei Makatomi dà inizio all’era Taikwa o del “Grande Cambiamento”. Un editto, derivato dalla legislazione cinese dei Tang, rinforza l’autorità della Corte imperiale sulle province.

Nel 701 l’adozione della legislazione Taiho, definisce la struttura dell’organizzazione di governo, che sarà completata nel 725. La sua efficienza ed il suo prestigio sarà tale che la futura rivoluzione Mieji vi si riferirà ampiamente per la riorganizzazione delle sue istituzioni.

710 – 794. l’Epoca Nara.

Nel 710 viene fondata una nuova capitale a Nara, nuovo nome attribuito a Heiyokyo. La sua pianta a scacchiera con un grande viale centrale nord sud imita l’architettura cinese dei Tang. Il sovrano giapponese decide di farsi chiamare Tenno (sovrano celeste), un nome di origine cinese e lo stesso potere stabilisce ufficialmente una “storia dei tempi antichi o Kojiki” che costituirà successivamente il fondamento della tradizione giapponese.

Nel 713 una ordinanza impone la scrittura dei luoghi in caratteri cinesi ed ogni persona considerata di buona educazione doveva essere in condizione di poter comporre in cinese. Ma nonostante il prestigio della cultura cinese, nello stesso periodo, si afferma un’arte poetica tipicamente giapponese e più precisamente il Waka, una sorta di poema corto.

La Chiesa buddista passa nel 737 sotto il controllo dello stato. La ricchezza dei templi e dei monasteri inizia a suscitare qualche reazione d’ostilità da parte della popolazione, ma nonostante tutto la nuova religione progredisce regolarmente, senza peraltro opporsi alla religione locale, lo Shintoismo, la futura religione nazionale.

Fra la fine dell’8° e gli inizi del 9° secolo la colonizzazione giapponese finisce per imporsi nell’arcipelago sul popolo Ainu.

794 - 1185. Epoca di Kyoto (Heian)

La corte imperiale del Tenno si disloca ad Heiankyo (la futura Kyoto) nel 794.

Nell’857 Fujiwara Yoshifusa, potente capo del Clan dei Fujiwara, riceve il titolo di “Gran Cancelliere” o Primo Ministro. Tutti i posti di responsabilità vengono monopolizzati dagli uomini del suo clan. Alla fine del 9° secolo la decadenza ed il rovesciamento della Dinastia cinese dei Tang (960) libera i Giapponesi dal complesso di inferiorità nei confronti della cultura cinese. Mentre la lingua cinese rimane in uso nell’aristocrazia giapponese, la lingua autoctona si afferma progressivamente specialmente nella poesia.

Nell’889 il pronipote dell’imperatore Kammu (782-805) assume il nome di Taira Takamoishi e fonda il Clan dei Taira, che sarà chiamato, un secolo e mezzo più tardi, a giocare un ruolo dio primo piano nella storia del paese.

Nel 961 un nipote dell’imperatore Seiwa (858-876) assume il nome di Minamoto Tsunemoto . Questi fonda il Clan dei Minamoto, che assumerà un ruolo di grande importanza nel periodo seguente allorché inizierà la sua lotta contro il Clan dei Taira.

Nel corso di questo periodo, la decadenza del potere centrale spinge la nobiltà provinciale a costituire degli eserciti personali per difendere i loro domini. Le lotte incessanti faranno crescere l’importanza degli uomini d’arme, chiamati Bushi (1) o Samurai (2). Il “Detto dei Genji” (Genji Monogatari), scritto nel 1020 in onore di una Dama Murasaki Shikibu, racconta le avventure galanti di un principe della corte di Heian

Il regno dell’imperatore Sanjo (1068-1073), che si avvale dell’apporto di Conaisglieri del Clan Minamoto, segna l’affermazione dell’indipendenza del potere imperiale nei confronti dei Fujiwara.

Dal 1073 al 1087 il regno dell’imperatore Shirakawa (morto nel 1129), apre la lista degli imperatori che decidono di “ritirarsi” (Inzen o Jo-o, quando rimangono allo stato laicale o Ho-o, quando scelgono di farsi monaci), ma che continuano a giocare un ruolo preponderante sotto il regno dei loro legali successori.

Nel 1167, dopo diversi anni di agitazioni, legate a delle rivolte dei conventi buddisti, i Taira si sostituiscono ai Fujiwara nel ruolo di clan dominante. Ma poco dopo essi devono affrontare la ribellione di Minamoto Yorimoto, che darà origine ad una guerra aperta fra i Taira ed i Minamoto, che durerà per molti anni.

1185 – 1336. L’epoca Kamakura e le invasioni mongole

Nell’aprile 1185 la battaglia navale occorsa nello stretto che separa le isole di Honshu da Kyushu vede la vittoria dei Minamoto Yorimoto su Taira no Koyomori. Questa battaglia segna anche la fine dell’antico sistema della corte imperiale e costituisce il preludio all’instaurazione di una nuova feudalità guerriera e terriera, che sarà destinata a durare per oltre sette secoli. Accanto alla corte imperiale di Kyoto che si trova politicamente marginalizzata e ridotta al suo carattere religioso, comincia ad organizzarsi una amministrazione militare, designata poi con il nome di Shogunato (da Shogun (3)) e sotto quello di Bakufu (4), che indicava in origine la tenda sede del quartier generaledella guardia imperiale. Inizia a mettersi in opera un nuovo mondo che non è più regolato da regolamenti dio origine cinese, ma dai legami feudali a carattere personale.

La capitale politica viene trasferita a Kamakura, un borgo costiero della provincia del Kanto, dove si trova dislocato il quartier generale di Minamoto Yorimoto, che nel 1187 sottomette definitivamente il Clan dei Fujiwara.

Gli ultimi anni del 12° secolo vedono l’introduzione in Giappone del Buddismo Zen (5), che incontra il favore delle caste guerriere dei Samurai. I viaggi dei monaci buddisti in Cina, contribuiscono ancora a mantenere viva l’influenza culturale cinese. Nel 1252 viene realizzata la grande statua di bronzo del Budda di Kamakura.

L’ultimo terzo del 13° secolo sarà caratterizzato dalla minaccia mongola. L’imperatore mongolo Kubilai Khan, dopo aver conquistato la Corea nel 1259, invia in Giappone diverse ambasciate. Dopo essersi impadronito di Pechino (Kambalik), l’imperatore mongolo è sul punto di aver ragione della resistenza dei Song nella Cina meridionale e desidera stabilire il suo protettorato sull’arcipelago nipponico. Di fronte ad un netto rifiuto giapponese, i Mongoli riuniscono delle forze imponenti e lanciano a due riprese, nel 1274 e nel 1281, due tentativi di invasione. In entrambe le circostanze, come per un miracolo, dei devastanti tifoni disperdono la flotta degli invasori. Questi “venti divini” (Kamikaze) daranno successivamente il loro nome ai Kamikaze del 1945. La lotta contro le invasioni mongole, dove si distinguono i Samurai, contribuisce ad accrescere notevolmente il prestigio di questi ultimi.

A seguito della rivolta dell’imperatore Daigo 2° contro lo Shogun di Kamakura, questi scomparirà nel 1333.

1336 - 1573. Epoca Muromashi

A partire dal 1336 l’imperatore Godego tenta di restaurare il potere della corte di Kyoto. E’ l’inizio del “Grande Scisma Imperiale”, che durerà sino al 1392 e che i Giapponesi chiamano anche “periodo delle due corti” che vede affrontarsi per il controllo del potere due rami della famiglia imperiale. La guerra che ne segue permetterà ad un altro clan guerriero, gli Ashikaga, di creare un nuovo Bakufu a Muromashi.

Nel 1338 Ashikaga Takauji, assume il titolo di Shogun, carica che resterà ai suoi discendenti fino al 1573.

Il periodo che va sino alla fine del 16° secolo è marcata dall’indebolimento del potere shogunale e dal contemporaneo affermarsi dei “Signori Provinciali” (6) (Daimyo) che si fanno la guerra fra di loro. Questo periodo di caos apparente, vede schiudersi un’epoca di intensa fioritura artistica. La costruzione di castelli di fortezze, rappresenta il pretesto per delle nuove strutture architettoniche. Le armature diventano lussuose e si assiste nel contempo alla diffusione del dramma lirico, il No, ed allo sviluppo dell’estetica Zen: arte dei giardini, cerimonia del tè, organizzazione dei fiori (floreale) ecc.

La guerra d’Onin (1467-1500) per il controllo dello Shogunato determina numerose agitazioni e questo periodo viene talvolta ricordato come “epoca dei regni combattenti” o dei “principati belligeranti”.

Nel 1542, in questo paese in piena effervescenza, arrivano per caso i primi Bianchi nell’arcipelago. Spinti dalla tempesta, una giunca di pirati cinese, che avevano al loro servizio dei Portoghesi, accosta a Tanegashima, nel sud di Kyushu: Questi saranno poi seguiti da altri Portoghesi che portano al loro seguito le prime armi da fuoco ed il Cristianesimo che i Giapponesi interpretano inizialmente come una variante del Buddismo. Un gesuita spagnolo, Francesco Saverio, che aveva fondato una missione a Goa in India, sbarca nel Giappone nel 1549. Nel periodo successivo si verificherà la fondazione di un emporio commerciale europeo a Nagasaki, dove il Daimyo locale si è convertito al cattolicesimo in cambio della consegna di alcuni moschetti. Più tardi i Giapponesi, conservando i fucili ricevuti, scacceranno il Cristianesimo dal loro suolo.

1573 - 1598. Epoca Azushi - Momoyama

Nel 1573, Oda Nobunaga, già padrone di Kyoto, depone l’ultimo Shogun Ashikaga ed abolisce provvisoriamente l’istituzione shogunale. Egli sconfigge successivamente i clan dei samurai che rimangono legati all’antico sistema: i Mori, gli Uesugi , i Takeda (sarà proprio la lotta contro quest’ultimo clan che ha fornito al regista Kurosawa, il materiale per il suo film Kagemusha), Nel 1579 Nobunaga conquista la cittadella di Osaka e prende posizione contro il Buddismo, mostrandosi nel contempo piuttosto favorevole all’azione dei missionari cattolici, facendo installare persino una scuola di gesuiti nella sua residenza.

Nel 1582, dopo aver fondato il villaggio di Yedo o Edo, la futura Tokyo, Nobunaga rimane vittima di una rivoluzione di palazzo guidata da uno dei suoi generali. Lo stesso capo della rivolta è a sua volta ucciso da un samurai di modeste origini, Toyotomi Hideyoshi. Quest’ultimo si fa concedere il titolo di Kambaku (Primo Ministro) e restaura l’unità del paese, sottomettendo l’isola di Kyushu ed il Kanto. Egli trasporta la capitale ad Osaka, ma sviluppa ed abbellisce Kyoto. Sotto la sua dittatura (1582-98) viene iniziata la completa riorganizzazione della società che punta alla riunificazione politica del Giappone. Dopo aver favorito il Cristianesimo, egli comincia a sospettare gli Spagnoli di avere l’intenzione di impadronirsi del Giappone, partendo dalle Filippine e tale situazione porta ad un completo cambiamento di politica. Decreta l’espulsione dei Gesuiti e vieta il Cristianesimo ed a puro titolo di esempio il 5 febbraio 1597 dispone la crocifissione di 16 cristiani a Nagasaki.

Alla morte di Hideyoshi, nel 1598, un discendente del clan Minamoto, Togukawa Leyasu, rivendica lo shogunato come eredità familiare ed impone la sua piena autorità sui suoi avversari nell’ottobre del 1600, dopo la vittoria di Segikahara.

1603 - 1868. Epoca Togukawa o di Edo

Nel 1603, il nuovo “uomo forte” del Giappone, il cui quartier generale viene fissato a Yedo (Edo), riprende il titolo di Shogun e ricostituisce un Bakufu (shigunato). In tal modo ha inizio l’epoca Edo ed il potere degli Shogun Togukawa durerà fino al 1868.

Il Giappone entra allora in un periodo di pace interna, una pace armata, che si baserà sul potere dei samurai. Questi devono essere dei guerrieri completi, ma anche degli uomini di cultura, fatto che li predispone ad assumere anche cariche amministrative sia nel governo centrale che nelle province, sempre rette dal sistema feudale dei Daimyo.

Alcuni Olandesi, provenienti dall’Indonesia, sono autorizzati ad aprire, nel 1609, un emporio commerciale in un isola a nord ovest di Kyushu. Una ambasciata spagnola viene ricevuta nel 1611 e gli Inglesi compaiono sull’arcipelago nel 1613, installandosi, dopo gli Olandesi nell’isola di Hirado.

La fine del 16° secolo e l’inizio del 17° sono marcati da una crescita di contatti con l’Occidente, dalla generalizzazione dell’uso della stampa e delle armi da fuoco. L’abilità degli artigiani giapponesi si presta ad un rapido apprendimento delle tecniche europee e nel 1620 segna la comparsa della carta moneta.

Il regno di Iyemitsu (1632-49) contribuisce al rafforzamento del carattere assoluto del potere shogunale. Questo periodo è marcato da una grande prosperità economica. La popolazione passa nel corso del 17° secolo dai 13 ai 26 milioni di abitanti. La produzione di riso risulta in progressivo aumento e l’agricoltura si diversifica con lo sviluppo delle coltivazioni del gelso e del cotone, con l’introduzione della canna da zucchero e delle patate dolci. Nello stesso tempo progredisce anche l’allevamento dei cavalli e dei bovini. L’estrazione dei minerali (oro e argento) e gli stabilimenti tessili conoscono un periodo di grande sviluppo, così come il cabotaggio, l’organizzazione portuale e lo sviluppo del trasporto stradale favoriscono il progresso degli scambi e delle comunicazioni.

Nel 1613, Iyemitsu, inquieto, a sua volta, a causa di una crescente penetrazione di mercanti europei, che utilizzano il Cristianesimo come strumento della loro politica, fa promulgare un editto che vieta l’accesso alle coste giapponesi delle navi straniere ed introduce la pena di morte per gli immigranti clandestini. Vengono inoltre stabiliti dei premi per quelli che denunciano alle autorità i preti cattolici. I membri della nobiltà, i Bushi, non devono intrattenere alcun rapporto con gli stranieri. Nel 1634 il Giappone diventa totalmente vietato all’azione dei missionari e viene proibita anche qualsiasi navigazione di Giapponesi verso l’estero.

A partire dal 1637, i Portoghesi rimangono tollerati solo sull’isolotto di Deshima, di fronte a Nagasaki. I Cristiani di Kyushu, costretti ad abiurare, devono mensilmente pestare il crocefisso a testimonianza della sincerità della loro rinuncia al cattolicesimo.

La rivolta del samurai cristiano Masuda Shirò contro i provvedimenti adottati dallo Shogun, viene duramente repressa nel 1638, a seguito dell’intervento degli Olandesi. Migliaia di cattolici di Kyushu vengono annegati e questa rivolta provoca una radicalizzazione della chiusura del Giappone verso l’esterno. Il Cristianesimo è totalmente vietato, così come l’uso di lingue straniere e della loro traduzione sul suolo giapponese. Anche gli stessi Olandesi sono relegati nell’isolotto di Deshima nel 1641, rimasto ormai l’unica finestra con l’Occidente. La pena di morte è automatica per gli stranieri iberici. I membri di una ambasciata portoghese, inviata da Macao per negoziare l’abolizione di tali misure, sono tutti decapitati nel 1640. A partire da questo  momento la chiusura del Giappone verso l’esterno appare ormai completa.

Il Giappone negli anni 1731-32 viene colpito da una terribile carestia. A questa ne seguirà un’altra fra il 1787 ed il 1788, fatto che contribuisce a stabilizzare la demografia nipponica, dopo la rapida crescita dei secoli precedenti. Le limitate risorse dell’arcipelago dal punto di vista agricolo pongono il problema della copertura alimentare e devono essere imposte, da parte del potere politico, alcune restrizioni. La miseria, aggravata dalle epidemie e le catastrofi naturali, spiegano le numerose rivolte contadine che scuotono il Giappone e che giustificano il ruolo dei Samurai.

Intanto nel 1738 i Russi si installano a nord nell’arcipelago delle Kurili. Questa occupazione avrà poi un seguito di strascichi abbastanza tormentato. Nel 1806-07 i Russi lanciano una spedizione punitiva contro l’isola di Sakhalin, dopo l’arresto di alcuni negozianti che vi avevano aperto un negozio.

Gli anni 1831-67, quelli del regno dell’imperatore Komei, vedono un rapido declino del potere shogunale, mentre il sovrano di Kyoto riprende progressivamente la sua autorità. La crisi profonda che attraversa il paese favorisce le speranze di quelli che vedono nell’istituzione imperiale un mezzo per ristabilire la situazione. In questo periodo viene elaborata una mistica nazionale e religiosa allo scopo di fare della figura dell’imperatore il simbolo di un dio vivente ed allo stesso tempo un grande prete, intermediario fra il popolo ed i Kami, le divinità della tradizione scintoista.

La minaccia occidentale, contro la quale gli Shogun hanno cercato di premunire il Giappone due secoli prima, diventa ogni giorno più pesante. Il campanello di allarme sarà la Guerra dell’Oppio, condotta dall’Inghilterra contro la Cina nel 1840-42. Nel 1849 i Russi fondano il porto di Dui, nell’isola di Sakhalin.

L’8 luglio 1853 la squadra americana di quattro navi (le famose “navi nere” dell’immaginario collettivo nipponico), comandate dal Commodoro Perry, getta l’ancora nella baia di Yedo, per costringere il Giappone ad accettare la politica americana della “porta aperta” e la conclusione di un trattato commerciale.

L’8 marzo 1854, viene concluso un trattato nippo-americano che prevede l’apertura di sue porti franchi a Shimoda e Hakodaté, sull’isola settentrionale di Hokkaido, la libertà di circolazione degli Americani in Giappone e l’apertura di due consolati: Il trattato viene ratificato dagli Stati Uniti nel gennaio 1855 e dal Giappone nel febbraio seguente.

Gli Inglesi ottengono, a loro volta, con il Trattato di Nagasaki del 14 ottobre 1854, dei diritti equivalenti a quelli riconosciuti agli Americani e lo stesso accadrà poco tempo dopo con i Russi. Per concludere tali trattati, il Bakufu ha consultato i Daimyo e l’imperatore fatto che mostra con ogni evidenza l’indebolimento della sua autorità.

Nel 1858 l’imperatore Komei rinnega (smentisce) e ritira l’appoggio ai ministri fautori dell’accordo con le Grandi Potenze, ma nello stesso anno, il 29 luglio, viene comunque concluso il Trattato di Yedo con gli Americani. Questo trattato apre agli USA dei nuovi porti e concede loro l’extraterritorialità in materia di giustizia. Le altri grandi potenze seguono rapidamente l’esempio americano, Paesi Bassi, Russia, Gran Bretagna, Francia, Portogallo e Prussia. Una concessione europea viene aperta a Yokohama, fatto che contribuisce ad esacerbare la xenofobia nipponica.

Segue quindi un periodo confuso, seminato di rivolte di samurai. Una parte vuole imporre il potere imperiale al posto dello shogunato, altri esigono invece la rappresentanza di clan all’interno del governo. Tutti agiscono a modo loro, ma in ordine disperso, sfidando le potenze straniere.

L’imperatore Komei muore nel gennaio 1867 e gli succede suo figlio Mutsu Hito. Alla fine dello stesso anno, il 9 novembre 1867, l’ultimo Shogun viene costretto ad abdicare. I clan ribelli ottengono la soppressione dello shogunato il 3 gennaio 1868. Il potere imperiale, con il sostegno dei principali clan di Samurai, riesce rapidamente a controllare la situazione ed il 9 maggio 1869, l’imperatore (Tenno) decide di trasferirsi a Edo (Yedo), diventata per l’occasione Tokyo (capitale dell’est), mentre Kyoto diviene da quel m omento Saikyo (la capitale dell’ovest). Il Tenno sarà quindi in condizione di mettere in opera la “Rivoluzione dei Meiji”, sospinta dalla reazione nazionale che si è coagulata intorno ai clan dei samurai del sud.

NOTE

(1) Guerriero nobile: equivalente di Samurai;

(2) Membro della classe nobile dei guerrieri (bushi), che fa parte del seguito di un Daimyo, grande signore feudale;

(3) Generale, Comandante. Il Regime dello Shogunato, fondato da Tokugawa Leyasu nel 1600, si basa su una stretta organizzazione feudale di grandi principati sottomessi agli Shogun. Questi stabiliscono la loro capitale ad Edo (attuale Tokyo) che darà il suo nome. Ai tre secoli dell’era shogunale;

(4) Termine di origine cinese che indicava inizialmente la tenda del comando in capo della guardia imperiale. Il termine si confonderà in seguito con lo Shogunato;

(5) Originalmente “meditazione” dal sanscrito dhyana. Scuola buddista che vuole raggiungere il “risveglio” (Satori), ovvero un pieno controllo mentale ottenuto attraverso l’educazione ed il controllo del corpo (specie attraverso le arti marziali). Le due principali sette zen furono introdotte in Giappone dalla Cina, la Rinzai nel 12° secolo e la Soto nel 13° secolo. La setta Rinzai è quella che avrà il favore dei Samurai;

(6) Grandi Signori feudali, vassalli dello Shogun. Nell’epoca Edo (17°-18° secolo) si contavano 266 Daimyo. Molti di loro parteciperanno alla Rivoluzione Meiji del 1868 che provocherà la loro scomparsa;

Gli umbri ed il servizio militare

GLI UMBRI ED IL SERVIZIO MILITARE

(stampato sul quotidiano CORRIERE dell’UMBRIA di PG, del 10 agosto 1993 con il titolo “Il coraggio di essere soldato”)

Fare il soldato sin dai primordi della vita sociale è stata una dura ed ineluttabile necessità, sia per procacciarsi i mezzi per la sopravvivenza (ad esempio il cacciatore per la comunità), sia per rispondere adeguatamente a chi, con la prepotenza e con la forza, cercava comode "scorciatoie" per il potere e l'agiatezza.

Con la vita sociale organizzata e l'introduzione dei primi poteri strutturati il servizio militare diviene un obbligo sociale ed è conseguente alla chiamata dei Capi della comunità.

Solo con Roma il servizio militare riceve una sistematizzazione ufficiale e viene a rappresentare una condizione necessaria e sufficiente per l'accesso alla carriera politica ed alle cariche pubbliche ("cursus honorum"). Con lo "sbarramento programmato" del servizio militare i romani conseguono indirettamente l'eliminazione dalla vita politica (con innegabili ripercussioni positive) degli inetti, degli incapaci, dei codardi e degli........psicolabili!

Gli Umbri, inizialmente alleati di Roma, rispondono al servizio militare in termini di volontariato e solo a partire dal 90 a.C. - divenuti cittadini romani - vengono soggetti alla coscrizione obbligatoria. In particolare l'esenzione dal servizio militare era concessa ai non idonei (fisici e mentali) o a chi avesse già fatto 10 campagne a cavallo o 16 da fante.

Con Vespasiano (69-79 d.C.) cessa per i cittadini romani (e quindi anche per gli Umbri) il servizio obbligatorio e ciò è dovuto all'eccesso di domanda di arruolamento volontario da parte dei barbari e dei servi della gleba (per quest'ultimi e per molti anni a venire il servizio militare rappresenta forse l'unica via d'uscita dalla loro dura e triste condizione di "legati" alla terra per legge!). Col senno di poi si può anche considerare che l'atto di Vespasiano è stato certamente uno dei fattori fondamentali e concomitanti della disgregazione dell'Impero Romano.

Caduto l'Impero di Roma, i Goti non si fidano delle qualità guerriere degli italiani e così fanno anche i Longobardi, perlomeno sino a Rotari, il quale per la prima volta consente ai sudditi liberi di accedere al servizio militare. Ne restano però esclusi i "Servi della Gleba" (coloni) ai quali è consentito di diventare al massimo "Servi di masnada" (sempre servi!) con mansioni ausiliarie (sentinella, basso scudiero) presso i vari feudatari.

Gli Umbri per la maggioranza coloni rimangono così sui loro campi e divenuti liberi con l'avvento dell'era comunale preferiscono ugualmente "starsene a casa" o garantire al massimo in qualche modo la sicurezza dei loro villaggi.

Con la comparsa in Umbria delle Compagnie di Ventura straniere dei bretoni e dei borgognoni (disoccupate per la fine della guerra dei cento anni) e con il sistematico sabotaggio (eufemisticamente chiamato "Cavalcata") e saccheggio dei territori nemici, fare il colono diviene un mestiere "a rischio" e molti giovani legati alla terra, sia per pura sopravvivenza, sia per desiderio di riscatto sociale, oppure per mero desiderio di avventura, si accostano al mestiere delle armi.

Sorgono così le Signorie (che in Umbria non hanno grande fortuna) e con il loro successivo assoggettamento al potere temporale della Chiesa si esaurisce progressivamente l'eccezionale fenomeno dei Capitani di Ventura umbri, mentre il servizio militare torna di nuovo facoltativo e di "mestiere".

Con Napoleone e l'istituzione del Dipartimento del Trasimeno con capoluogo Spoleto, ritorna per qualche anno agli inizi dell'800 la coscrizione obbligatoria ma, con la Restaurazione e la Santa Alleanza tutto torna come prima o ... quasi!.

La realizzazione dell'Unità Nazionale sancisce nel 1861 la definitiva introduzione in Umbria del servizio militare e della coscrizione obbligatoria di cui, la contemporanea costituzione dei Comandi Provinciali e la successiva fondazione (1870) del Distretto Militare di Perugia, ne costituiscono il naturale presupposto e la base dell'ulteriore sviluppo.

Come reagiscono gli Umbri alla nuova situazione che è tutt'oggi in vigore? Sostanzialmente bene. Certo dopo 400 anni di desuetudine alla coscrizione obbligatoria l'impatto, amplificato dalle nuove tasse imposte dai "piemontesi" liberatori, non è dei migliori!

Nasce una patologica, seppure ridotta, tendenza alla renitenza alla leva, alimentata dall'ansia di un "mammismo" ancestrale tutto umbro che, a seconda dei periodi, va ad incrementare, ... negli allora fitti e poco praticabili boschi dell'Appennino, il brigantaggio (piaga endemica della Regione fino alla 1^ Guerra Mondiale), oppure in tempi recenti (bandi di arruolamento della Repubblica Sociale e dei Tedeschi) il movimento partigiano.

Non è raro il fatto di leggere, nelle Memorie Storiche dei Reggimenti che hanno avuto nel tempo la loro sede in Umbria, di operazioni tendenti a snidare renitenti e disertori rifugiati nei boschi dell'Appennino. A tal proposito le Memorie dell'8° Reggimento della Brigata "Re" ci dicono che ben due battaglioni nell'ottobre - novembre 1869 furono impiegati a tal scopo nella zona fra Gubbio e Pietralunga. Ma non si sa con quali risultati!

Allora la coscrizione obbligatoria è ormai entrata a far parte della cultura e del costume sociale della Regione? Dai risultati di oggi sembrerebbe di si; ma rimane pur sempre latente un rifiuto generico di tipo psicologico, che non consegue però dalla tendenza al Pacifismo, bensì più probabilmente da una mutazione genetica consolidata, frutto dei 400 anni di soggezione inane al potere temporale.

GIAPPONE l’incredibile rivoluzione Meiji

GIAPPONE

l’incredibile rivoluzione Meiji

Mentre il Giappone, rimasto ancora al medioevo, sembra diventare la prossima preda dello straniero, esso riuscirà a trasformarsi completamento nel corso di una generazione. Storia di un vero miracolo.

Isolato all’Estremo Oriente dell’Asia, chiuso agli stranieri, ripiegato sulle sue tradizioni millenarie, l’arcipelago nipponico sembrava, intorno al 1860,  promesso alla stessa sorte che avevano già conosciuto le Filippine o le Indie olandesi. Il Giappone, molto meno popolato ed esteso dell’immensa Cina, sembrava ormai dover essere la prossima preda delle potenze europee, nel momento in cui la Francia si installava in Indocina e l’Impero cinese di Mezzo era costretto con la forza ad aprirsi al commercio dei “Barbari”.

Il monarca divinizzato che regnava allora a Kyoto non deteneva alcun potere reale, in quanto lo stesso era effettivamente esercitato, già da un millennio, da una serie di differenti dinastie “shogunali” (1), di cui l’ultima in carica era quella del Clan dei Togukawa. Questa deteneva dal 17° secolo un potere centrale forte ed aveva chiuso il Giappone agli stranieri. La società nipponica rimasta sostanzialmente tradizionale, in apparenza analoga al nostro Medioevo europeo, doveva nondimeno realizzare, nello spazio di una generazione, una spettacolare mutazione che l’ha fatta entrare direttamente nella stessa modernità che l’Occidente aveva messo diversi secoli a costruire. Questa rivoluzione ha permesso all’Impero del Sol Levante di affermarsi, già dalla fine del 19° secolo, come una “Inghilterra asiatica”, capace di tener testa vittoriosamente alle armate dello Zar di tutte le Russie. Al contrario della Cina, il Giappone perviene a raccogliere con successo la sfida delle pretese straniere.

In un Giappone in preda alle carestie causate dall’espansione demografica e colpito da frequenti catastrofi naturali, la prima metà del 19° secolo aveva visto l’indebolimento progressivo del sistema shogunale ed il ritorno in primo piano dei grandi clan feudali. Questa situazione di crisi porta una parte dell’aristocrazia guerriera dei samurai ad indirizzarsi verso la dinastia, rappresentata a Kyoto dall’imperatore Komei, prigioniero di una corte completamente separata dalla realtà del paese. Ricordando le origini divine della dinastia, i fautori di una restaurazione rivendicano per la dinastia imperiale il potere confiscatogli, già da a molti secoli, da parte degli Shogun. E’ in tal modo che, a partire dalla fine del 18° secolo, si cristallizza una mistica nazionale e religiosa che tende a fare del sovrano un dio vivente, intermediario fra il popolo e le divinità ed incaricato di vendicare gli attentati all’ordine del mondo. Questa adesione all’imperatore, che va di pari passo con un potente risveglio delle credenze scintoiste, si trova rinforzata, nel momento in cui, a partire dal 1850, il Giappone si trova a fronteggiare gli interventi stranieri.

La minaccia esterna diviene concreta l’8 luglio 1853, quando le quattro navi “nere” della squadra del Commodoro Perry arrivano a gettare l’ancora nella Baia di Edo (attuale Tokyo), latore di una lettera del Presidente Fillmore, nella quale viene reclamata l’apertura del paese al commercio americano. Il Bakufu (2), il potere shogunale, ottiene un termine di dieci mesi per fornire una risposta ufficiale, un lasso di tempo che il potere ufficiale nipponico aveva assolutamente bisogno per affrontare al suo interno l’agitazione (la rivolta) scatenata contro di lui dai Samurai (3), fautori del patriottismo. Perry, ritornato a Tokyo nel febbraio 1854, ottiene la firma di un trattato che apre al commercio americano l’isolotto di Shimoda ed il porto di Hakodaté, nell’isola settentrionale di Hokkaido. L’accordo, ratificato dalle due parti rispettivamente nel gennaio e febbraio 1855, spinge inevitabilmente i concorrenti degli USA, Russi ed Inglesi in particolare, a esigere delle condizioni di commercio analoghe a quelle americane. Le Convenzioni firmate nel 1858 con gli USA (Trattato di Yedo o Edo), l’Olanda, la Gran Bretagna, la Russia e la Francia, poi successivamente con il Portogallo, la Prussia e la Svizzera, aprono dei nuovi porti agli stranieri. I nuovi accordi introducono il principio della extraterritorialità per i loro cittadini residenti all’estero, riconoscono la libertà religiosa e consentono la nomina di agenti diplomatici con i relativi Consolati. Concessioni occidentali vengono aperte a Yokohama ed a Nagasaki e per di più un accordo concluso ad Edo nel 1866 prevede persino il taglio dei diritti di dogana dal 20 al 5%.

L’aumento dei prezzi, l’epidemia di colera, portata da una nave europea e la sottomissione del Bakufu alle volontà degli stranieri, scatenano a quel punto una violenta ondata xenofoba. Diversi attentati perpetrati ai danni degli stranieri ed i tiri ricevuti dalle loro navi, provocano delle inevitabili rappresaglie che non fanno che eccitare maggiormente la collera della popolazione. Sfruttando tutta questa esasperazione, una lega di signori (Daimyo (4)) condotta da Shimazu Saburo, si appoggia all’imperatore per strappare allo Shogun, nel 1862, la maggior parte dei suoi poteri e realizzare una rivoluzione feudale che aveva fatto di Kyoto il centro politico del paese.

Comincia a quel punto una impietosa guerra civile che oppone, per oltre cinque anni, i fautori del potere imperiale sotto la guida di Shimazu alle forze dello Shogun Iyemoshi e quindi dello Shogun Keiki, sostenute dagli stranieri. Alla fine del gennaio 1868 Keiki, ormai sconfitto, si rifugia su una vascello americano, prima di sottomettersi al nuovo imperatore, il Meiji Tenno (5), (chiamato Mutsu Hito dagli Occidentali), segnando in tal modo la fine del Clan Togukawa.

Il giovane sovrano, una volta assicuratosi il successo, si mostra per la prima volta al suo popolo, prima di ricevere in prima persona, fra il 23 ed il 25 marzo 1868, i rappresentanti delle potenze straniere. L’anno seguente il sovrano lascia Kyoto per installarsi definitivamente a Edo, ribattezzata Tokyo, la “Capitale dell’est”. In definitiva sarà proprio una cospirazione feudale che avrà finalmente ragione e determinerà la fine del regime shogunale, aprendo in tal modo la via all’era Meiji.

Sono allora sufficienti alcuni anni al nuovo regime per trasformare da cima a fondo il paese, imponendo una incredibile rivoluzione politica, sociale, economica e culturale. I primi significativi provvedimenti vengono emanati molto rapidamente, ma l’immenso cantiere della modernizzazione del paese a marce forzate conosce il suo pieno sviluppo nel corso del quarto di secolo che segue.

A partire dal marzo 1869, i grandi signori che partecipano al governo rinunciano ai loro diritti sulla terra a vantaggio dello stato, che li indennizza in diverse maniere, ad esempio facendo di essi dei governatori imperiali, largamente retribuiti. Nel luglio 1869 i primi vengono imitati dagli altri grandi proprietari, fatto che sanziona l’abolizione di fatto del sistema feudale. Una riforma agraria viene a completare queste misure, liberando il mercato della terra. Dall’ottobre 1871, viene dichiarata l’uguaglianza davanti alle imposte e viene riorganizzata la contribuzione fondiaria. Le leggi fiscali del 1884-89 confermano queste misure ed assicurano ormai allo stato delle entrate regolari. Le rendite che l’imperatore deve pagare a quelli che sono stati spodestati dalla riforma agraria, vengono rapidamente riconvertite in vantaggi fiscali o in titoli di stato di cui alcuni contribuiscono alla fondazione di banche nazionali.

Queste operazioni portano però alla rovina la piccola nobiltà dei samurai. Questa vede sparire il suoi ultimi privilegi, specialmente il ricorso alla vendetta ed il privilegio di portare la doppia spada. Dopo due rivolte, schiacciate nel 1874 e nel 1877, la Nobiltà guerriera finisce per riconvertirsi nella nuova casta militare, di cui il potere aveva bisogno.

Simultaneamente, il nuovo Giappone realizza uno sforzo considerevole in materia di insegnamento. Dal 1871 l’istruzione pubblica diviene obbligatoria dai sei ai tredici anni, 25 mila scuole vengono già aperte nel 1887. Una legge del 1886 organizza un sistema di insegnamento secondario che conta ben 269 istituti nel 1905. Anche l’insegnamento tecnico non viene dimenticato ed il Giappone trarrà un grande vantaggio dagli sforzi compiuti. Nel 1908, appena meno del 6% dei coscritti risultavano analfabeti e l’arcipelago nipponico con ben otto università ed una scuola di lingue estere a Tokyo dispensa un insegnamento di qualità.

Il Maresciallo Yamagata viene incaricato di organizzare un esercito nazionale e nel 1872 ha inizio il servizio militare obbligatorio ed il lancio da parte del Ministero della Marina di un programma di costruzioni navali che porterà il tonnellaggio della flotta da guerra dai meno dei 140 mila tonnellate del 1872 alle 275 mila del 1904.

Dal 1871, il Ministero della Giustizia viene separato da quello della Polizia. Una Corte di Cassazione e quattro Corti d’Appello vengono istituite nel 1876, sei anni prima della redazione di un Codice Penale di ispirazione europea, a sua volta seguito da un Codice Civile e da un Codice Commerciale, molto prossimi ai testi tedeschi corrispondenti. Il paese viene a dotarsi in tal modo di un sistema giudiziario moderno, nello stesso tempo in cui le sue istituzioni politiche si modulano, almeno formalmente, sui modelli occidentali. Nel 1889, il potere assume la forma di una aristocrazia a base religiosa. L’imperatore, sacro ed inviolabile, detiene il potere esecutivo e ratifica le leggi votate da una assemblea bicamerale che prevede una Camera dei Pari ed una Camera dei Rappresentanti, eletta a suffragio censitario. Le libertà fondamentali vengono garantite ai cittadini ma il loro esercizio “rimane sottomesso alle legge del regno”.

Ma è proprio nel campo economico che il bilancio delle riforme è stato perlomeno il più spettacolare. Le esportazioni di thé e lo sviluppo dell’allevamento del baco da seta contribuiscono al progresso dell’agricoltura che vede intensificarsi la produzione di riso.

Lo sfruttamento delle modeste risorse locali permette di far passare la produzione di carbone da un milione a 7,5 milioni fra il 1884 ed il 1900, mentre quella del ferro passa dalle 20 mila alle 70 mila tonnellate. Lo stato giapponese, a seguito di massicci investimenti nell’industria pesante, lancia la produzione di macchine utensili, crea cementifici e fabbriche di vetro ed installa delle manifatture per lavorare la lana ed il cotone. Il volume delle esportazioni viene moltiplicato per quaranta fra il 1869 ed il 1910. Un gigantesco sforzo nella costruzione di ferrovie, consente all’arcipelago nipponico di passare dai 160 chilometri del 1880 agli 8.200 del 1910 e la flotta commerciale a vapore passa dai 110 bastimenti del 1873 ai più di 2500 battelli del 1910. La riorganizzazione dei porti e la creazione di grandi compagnie marittime contribuiscono ugualmente allo sviluppo del commercio. Tutte queste trasformazioni vengono accompagnate da una rapida crescita demografica: il Giappone passa dai 33 milioni nel 1872 ai 50,7 milioni nel 1910, con il 40% della popolazione con una età media inferiore a 20 anni.

Questa rivoluzione è ben lungi dall’essere una imitazione servile dell’Occidente. Essa attinge la sua ispirazione nell’intimo e nel profondo della tradizione multi millenaria dello shintoismo, elevata al rango di religione di stato. Uno stato che insegna alle giovani generazioni una morale ufficiale, frutto della sintesi delle credenze tradizionali e di un nazionalismo che esalta la grandezza della razza giapponese. Dal 1869 le anime di quelli che erano morti al servizio del Paese vengono divinizzate secondo la tradizione scintoista e nel 1872, il “Gonfalone del Sole Levante” diviene la Bandiera nazionale. Il programma dell’aristocrazia guerriera nipponica era quello di fare del Giappone una nazione ricca e potente. Essa riesce a riunire tutte le energie del paese intorno alla persona dell’imperatore per evitare che l’arcipelago del Giappone possa subire la sorte della Cina, che la casta dei mandarini non era stata capace di salvarla dalla disintegrazione.

Nel corso degli anni 1890, i “Trattati ineguali” del 1855 e del 1858 diventano l’oggetto di una profonda revisione. Il Giappone si apre maggiormente verso l’esterno, ma mette contemporaneamente fine alla extraterritorialità ed agli esorbitanti privilegi doganali, di cui beneficiavano gli stranieri.

Nel 1894-1895 la Guerra contro la Cina per la questione della Corea, consente all’Impero del Sol Levante di ottenere una vittoria completa sul campo, che gli permette la conquista dell’isola di Formosa, ma l’intervento della Grandi Potenze gli impedirà di sfruttare per intero questa vittoria. Dieci anni più tardi, il nuovo Giappone potrà prendersi una straordinaria rivincita contro l’orso russo, in occasione della guerra del 1904-05, mostrando in tal modo a tutto il mondo ed in maniera folgorante che era stato sufficiente appena qualche decennio per trasformare l’arcipelago nipponico in una nuova Grande Potenza dell’Estremo Oriente.

NOTE

(1) Il Regime dello Shogunato (da Shogun = Generale, Comandante), fondato da Tokugawa Leyasu nel 1600, si basa su una stretta organizzazione feudale di grandi principati sottomessi agli Shogun. Questi stabiliscono la loro capitale ad Edo (attuale Tokyo) che darà il suo nome ai tre secoli dell’era shogunale;

(2) Termine di origine cinese che indicava inizialmente la tenda del comando in capo della guardia imperiale. Il termine si confonderà in seguito con lo Shogunato ed il suo regime;

(3) Membro della classe nobile dei guerrieri (Bushi), che fa parte del seguito di un Daimyo, grande signore feudale;

(4) Grandi signori feudali vassalli dello Shogun. Nell’epoca Edo (17°-18° secolo) si contavano 266 Daimyo. Molti di loro parteciperanno alla Rivoluzione Meiji del 1868 che provocherà la loro scomparsa;

(5) Imperatore; Celeste Sovrano.

Le guerre napoleoniche

LE GUERRE NAPOLEONICHE

Origini, concetti e limiti

(Pubblicato negli Atti del Convegno di Modena del 18 gennaio 2003 sul tema: “Il Sogno di Libertà e di Progresso in Emilia negli anni 1796 97, ed. Gennaio 2003, Supplemento n. 51 di Nobiltà, Rivista di Araldica, Genealogia ed Ordini Cavallereschi)

La cronologia storica e politica fa iniziare l’era napoleonica con il colpo di stato del 18 brumaio. A questa data però, solo da un punto di vista militare, gli stati maggiori delle potenze europee erano già entrati, senza saperlo, nel periodo delle guerre napoleoniche, allorché Napoleone conduce vittoriosamente la sua prima campagna in Italia.

Da Cairo Montenotte a Waterloo, due decenni di guerre quasi ininterrotte, vedranno l’affermarsi, le gesta e l’epilogo di uno dei più grandi capitani della storia. L’azione di quest’uomo segnerà i destini dell’Europa e traccerà un nuovo significativo capitolo dell’arte della guerra, che rompendo concettualmente con il passato, getta le fondamenta della guerra moderna, determinando il passaggio epocale dalle guerre dei Sovrani alle quelle nazionali o dei popoli.

L’eredita’ della Rivoluzione

L’Armata Francese a disposizione dell’”Ancien Regime”, nel periodo immediatamente precedente il periodo rivoluzionario,  era una struttura ben organizzata ed in grado di esprimere delle buone capacità operative, esso aveva sempre rappresentato in ogni momento storico una delle colonne portanti del sistema e tale situazione fondava la sua logica su un Corpo Ufficiali proveniente per la quasi totalità dalla classe dei nobili e quindi apparentemente coerente con il potere. Ma a guardarla meglio tale struttura aveva in sé, ben evidenti, i germi della sua prossima dissoluzione. Di fatto, per una serie di ingiuste disposizioni, l’ufficialità era praticamente divisa in due tronconi, i rampolli dei grandi nobili (con quattro quarti di nobiltà) ai quali spettavano avanzamenti ed onori ed i rappresentanti della piccola nobiltà, che, sebbene numericamente più rilevanti, erano esclusi di fatto dagli alti gradi e disprezzati dai grandi nobili, covavano un sordo rancore nei confronti di questi e dell’istituto monarchico che aveva permesso tale situazione.

Ecco dunque perché al manifestarsi della crisi rivoluzionaria, effetto dell’innaturale alleanza fra il terzo e la maggioranza del secondo (piccola nobiltà e basso clero) stato della società francese, l’Armata Francese risulterà incapace di reagire e subirà un inatteso quanto rovinoso tracollo.

Nel periodo che va dalla Monarchia Costituzionale (1789) al periodo Repubblicano (1793), fino al Colpo di Stato del 18 Brumaio 1799, l’Armata Francese subirà una profonda opera di ristrutturazione che nella prima fase vede essenzialmente un'azione di smantellamento delle strutture del vecchio regime (creazione della Guardia Nazionale; svuotamento dei Reggimenti d’Ordinanza, attraverso la paralisi del vecchio sistema di alimentazione e legalizzazione delle diserzioni a favore della Guardia Nazionale). La programmata demolizione della Forza Armata a favore della “milizia rivoluzionaria”, fa aprire gli occhi alla bassa nobiltà che, disillusa dalle prospettive in atto ed incapace di modificare il corso degli eventi lascia in massa le armi ed emigra all’estero.

Nella seconda fese a partire dal 1793, comunemente chiamato periodo della riorganizzazione, la Convenzione, pressata anche dagli eventi esterni, procede alla ricostituzione delle Forze Armate, con la “Legge dell’Amalgame” del generale Lazzaro Carnot , riassiemando in un nuovo organismo unitario ciò che rimaneva dei Corpi d’Ordinanza con la Guardia Nazionale ed i Volontari ed organizza una struttura che riesce a mettere sul piede di guerra, in poco tempo, ben ottocento mila uomini.

Solo quattro anni separano la battaglia di Valmy dalla prima Campagna d’Italia di Bonaparte, quattro anni durante i quali le Armate dei Re della prima coalizione non riescono ad aver ragione dell’Armata rivoluzionaria francese.

Nonostante il trauma della guerra civile, l’indebolimento delle istituzioni indotto dall’emigrazione dell’aristocrazia e la disorganizzazione dell’Armata Reale, la Francia non solo riesce a trovare ed organizzare tutte le risorse necessarie per far fronte alle plurime minacce che incombono sulle sue frontiere ma, per di più, lo spirito della Rivoluzione si è ormai allargato al Belgio ed ai Paesi Bassi.

Quando Napoleone Bonaparte, riceve nel 1796 il suo primo comando in capo dell’Armata d’Italia, viene ad avere nelle sue mani una istituzione militare che non è più quella dell’Ancien Regime ma una organizzazione considerevolmente mutata dalle vicende dell’ultimo decennio.

Questo nuova struttura, insieme alla legge del generale Jourdan del 1798, che introdurrà la coscrizione obbligatoria per i giovani dai 18 ai 25 anni, risultato ed eredità della Monarchia e della Rivoluzione, costituirà, di fatto, la base dello strumento militare napoleonico.

Gli uomini

Il primo e nuovo fattore della potenza militare della Francia è quello di aver fatto ricorso alla coscrizione di massa nel momento in cui la guerra, e lo sarà ancora per quasi un secolo, è soprattutto una guerra d’uomini, piuttosto che una guerra tecnologica.

La vittoria in tale contesto va a chi ha gli effettivi più numerosi, a chi ha maggiori risorse in uomini e la Francia, con la lontana Russia, è il paese più popolato d’Europa. Quasi un milione di uomini sono gli effettivi dell’Armata Rivoluzionaria Francese che nel 1793 - 95 si vede confrontata con gli Eserciti di professionisti dei Sovrani dell’epoca, i cui effettivi, decisamente meno importanti, sono peraltro molto costosi e quasi certamente meno motivati.

L’efficacia dell’esercito rivoluzionario, che si diceva costituito da ciabattini comandati da bassi ufficiali, eletti capi battaglione, non risiede solamente nell’ardore rivoluzionario né nelle sole virtù dello slancio patriottico che anima il soldato repubblicano ma e soprattutto nel fatto che ormai nelle forze che stazionano da una parte e dall’altra del Reno e delle Alpi l’elemento determinante, il “soldato”, non è più lo stesso ed è talmente diverso che sembra appartenere a due mondi differenti.

I soldati della coalizione antirivoluzionaria si trovano coinvolti in una guerra d’aggressione, in una di quelle tante guerre con le quali i sovrani sono da tempo abituati a regolare i loro affari di famiglia. Essi hanno limitati contatti e risultano distanti dai loro ufficiali, vivendo alla giornata in un certo antagonismo di classe. Sono dei professionisti costosi, senza prospettive di carriera, di provenienza diversa e raccogliticcia, oppure mercenari stranieri estranei agli interessi del paese che servono. Tutti indistintamente sono stati formati sotto la dura scuola della disciplina prussiana che prevede ancora, nel governo del personale, vessazioni e punizioni corporali. Sono stati inoltre addestrati per le esigenze, quasi meccaniche, degli scontri regolati da schemi formali, in uno scenario di guerre brevi, di bassa intensità e con obiettivi generalmente di portata limitata.

In Francia, l’emigrazione all’estero dell’ufficialità legata all’alta aristocrazia, la defezione di interi reggimenti, passati al completo alle Armate dei Principi, l’arresto di molti ufficiali sospetti e la straordinaria mobilitazione di uomini effettuata, vengono a lasciare pieno campo libero proprio ai pochi ufficiali rimasti della piccola nobiltà, professionisti validi e fino ad allora relegati ai solo gradi subalterni od alle armi essenzialmente tecniche, quali l’artiglieria o il genio. Alla stessa stregua di questi, i migliori sottufficiali della vecchia armata reale, professionisti sperimentati, accedono rapidamente ai gradi superiori o perfino a dei comandi. Il messaggio ugualitario e fraternità della Repubblica trova senza dubbio un terreno favorevole in un esercito rinnovato, dove il darsi del tu fra cittadini risulta ormai una consuetudine. Lo spirito di corpo già sufficientemente curato nelle vecchia armata reale ne risulta rinforzato. In sostanza il soldato repubblicano di ogni grado, animato da motivazioni ideologiche, da un vivo sentimento nazionale, viene a trovare nel seno delle nuove unità un forte senso di fraternità d’arme, che compenserà, per un certo tempo e perlomeno nella fase iniziale, l’indisciplina, l’inesperienza e l’improvvisazione dell’esercito rivoluzionario.

Quindi attraverso il fenomeno dell’ideologizzazione del conflitto (lotta per la libertà e la fraternità), si giunge inevitabilmente, alla fine del periodo rivoluzionario, al concetto della “Nazione in Armi” nella quale tutte le sue componenti hanno l’obbligo di concorrere alla sua difesa ed al successo delle idee rivoluzionarie

Per questo motivo già dalla prime vittorie, l’esercito francese verrà a beneficiare di un ascendente morale indiscutibile. Egli è pronto e disponibile a combattere, non per una guerra dinastica, ma per una guerra di nazione, globale e di lunga durata.

In sostanza in Francia - dove ideologicamente si stava verificando quanto già preconizzato prima di Napoleone dal filosofo napoletano Palmieri, allorché sottolineava, che per avere la vittoria, la popolazione doveva credere giusta la guerra che si conduceva – il potere scopre la necessità di un “consenso” e della “motivazione” delle masse che mobilita e tale situazione di per sé stessa possente ed anticipatrice dei tempi nuovi, se la si combina con il “carisma” di un professionista avveduto, di un abile manipolatore dell’opinione pubblica, di un “nazionalista” ante litteram, insomma di un vero capo, quale Napoleone, non poteva che produrre gli effetti che ha prodotto.

I concetti pre napoleonici.

Nel 1792 il pensiero militare in Europa è ancora dominato dal modello prussiano. Dalla fine della guerra dei sette anni tutti gli eserciti hanno più o meno imitato il modello federiciano, specie per quanto attiene alla disciplina del fuoco ed ai movimenti sul campo di battaglia. La possibilità di vittoria risiedono nella capacità nel rapido e preciso schieramento rettilineo e lineare delle truppe, ottenuto con passo cadenzato e ritmato per ottenere sulla fronte il massimo volume di fuoco nel punto voluto.

Le vere innovazioni di Federico il Grande di Prussia come, la concentrazione degli sforzi, la manovra da una posizione centrale e l’acquisizione della superiorità in un determinato punto, sono peraltro passati relativamente inosservati. Il quadro generale dell’impiego delle forze mobili rimane, come durante i due secoli precedenti, fortemente collegato alla rete di sicurezza costituita dalla piazzeforti, per le quali sono ipotizzati assedi lunghi e costosi. Da un tale scenario ne deriva una logistica agganciata alla piazzeforti, di corta portata e che esclude a priori movimenti di grandi masse di forze. Sul campo di battaglia l’ordine obliquo, ovvero la possibilità di concentrare tutta o parte di una forza contro il fianco del nemico, sembra rappresentare il sommo del pensiero operativo in campo tattico, in un contesto strategico globale abbastanza indefinito o assente.

Gli eserciti dell’epoca sono pertanto sempre considerati come un monoblocco, articolato sul terreno in linee successive, per impedire l’infiltrazione del nemico. Efficaci solo su una unica direzione gli eserciti sono evidentemente vulnerabili contro forze articolate e raggruppate in un solo punto e risultano di difficile riarticolazione in tempi accettabili durante la battaglia, a fronte di forze particolarmente mobili.

Nondimeno le esperienze delle guerre d’indipendenza americane, avevano già permesso di trarre qualche utile ammaestramento per le guerre future, puntualmente registrati negli scritti sul pensiero militare di contemporanei francesi quali il Conte di Guibert ed i fratelli Du Teil.

Da tali eventi era emersa evidente l’efficacia degli attacchi della fanteria in colonna, aprendo una nuova disputa fra i sostenitori dell’ordine “profondo” e quelli dell’ordine “lineare”.

Ma un certo rilievo avevano avuto il combattimento della fanteria leggera in “ordine disperso”, una specie di piccola guerra, disdegnata fino ad allora e l’impiego a massa nel combattimento di truppe “irregolari”, che, col passare del tempo e del loro impiego, miglioravano sensibilmente e progressivamente il loro rendimento.

Il pensiero militare francese della fine del 18° secolo rappresenta infatti una sintesi delle teorie federiciane, delle possibilità offerte dai progressi della modernizzazione senza precedenti delle artiglierie, attraverso il sistema Gribevaul e delle idee innovatrici sul movimento e la cooperazione interarmi.

In tale contesto nel 1791 viene stampato un regolamento concernente la manovra fra la tre armi principali, fanteria, cavalleria a l’artiglieria. Lo spirito del documento si basa essenzialmente sulla volontà di ottenere la necessaria libertà d’azione sul campo di battaglia, attraverso un diverso impiego delle avanguardie, mezzo che consente in tale modo l’organizzazione del resto delle forze per la concentrazione degli sforzi e lo sfruttamento vigoroso del successo. Si tratta in qualche modo della riscoperta del primato della manovra, sia nell’offensiva che nella difensiva, attraverso l’impiego finale, a massa e concentrato, del fuoco di artiglieria in stretto coordinamento con il fuoco e l’urto della fanteria. Una tale preparazione e decisione della battaglia, attraverso la manovra del fuoco e dell’urto delle forze mobili, rappresenta una vera e propria rottura con il classico schema del “duello di frontale di fuoco” degli eserciti del secolo della così detta “guerra dei merletti”.

Per questo motivo, nel quadro ormai stabilito della divisione di fanteria del tempo, le formazioni di combattimento dell’arma base vengono riviste e viene adottato l’ordine misto che consiste l’impiego simultaneo di unità di fanteria ordinate in linea ed in colonna, combinando così la potenza d’urto dell’unità, con la massima capacità di fuoco e sanzionando, attraverso la necessità di una indispensabile mobilità la possibilità di disporre di una permanente possibilità di manovra.

Da quanto precede ne consegue l’alleggerimento della logistica allo stretto necessario alle operazioni basato anche sulla totale rusticità del soldato, diminuendo altresì il ruolo ed il peso delle piazzeforti.

Per questo tipo di guerra, certamente più difficile da condurre, occorre disporre diversamente dal passato, di un complesso di specialisti, il moderno stato maggiore, idoneo a programmare l’addestramento alla manovra delle varie unità ed a coordinare le differenti azioni sia sul piano tattico che su quello strategico.

Questi concetti validi sul piano teorico non troveranno però facile attuazione  nella, malgrado l’entusiasmo nazionale dei primi tre anni di guerra, sia per l’eccessiva pressione  e controllo del potere politico, sia perché in ogni tempo è stato sempre più difficile scacciare le idee obsolete che adottarne delle nuove.  pratico

Ad ogni buon conto, a fronte di una aumentata potenza complessiva, non corrisponde una adeguata visione strategica del combattimento ed una conseguente capacità di manovra ad alto livello, anche se sul campo traspare in tutta la sua evidenza un fenomeno secondario ed inatteso di questa nuova esperienza, che consiste nella possibilità di disorganizzare facilmente le rigide formazioni serrate di uomini del nemico, attraverso l’impiego sistematico e complementare di grandi bande di tiratori.

I concetti napoleonici.

In sostanza all’arrivo di Napoleone la situazione militare francese “presentava una illogica mistura di vecchie pratiche e nuove teorie”, per dirla con le parole del generale Colin, ma il generale corso ha l’innegabile merito di aver saputo perfettamente coniugare il meglio offerto dal nuovo Esercito rivoluzionario e cioè:

-      quantità enormi di soldati pronti ad essere  “motivati” o “ideologizzati”, riorganizzate per l’impiego in una nuova struttura (corpo d’armata) efficiente ed efficace;

-      nuove tecnologie, specie nell’artiglieria, tali da essere usate in modo spregiudicato e nuovo (concentrazioni di fuoco nei punti dove prevedeva lo sfondamento, manovra del fuoco insieme alla manovra delle truppe);

Napoleone fa propri anche i nuovi concetti di Guerra (non più limitata a schermaglie fra sovrani e limitata negli scopi da perseguire ma in un quadro di guerra globale che tende all’annientamento dell’avversario per cancellare la vecchia dinastia al governo o addirittura annetterne il territorio). Con Napoleone si assiste dunque al trapasso dalle “Guerre di Gabinetto” (così come le ha definite il P. Maravigna nella sua opera), alle “Guerre Totali”, presupposto delle “Guerre assolute” del ‘900.

Napoleone è un uomo del suo tempo, la sua formazione la sua curiosità multidisciplinare e la sua grande capacità di lavoro gli permettono di acquisire solidi riferimenti storici. Ha studiato ed appreso le guerre ed i sistemi precedenti. Dopo essere stato l’allievo del fratello maggiore dei Du Teil, presso la Scuola di Artiglieria di Auxonne, passa successivamente alle dipendenze dirette del fratello minore nell’assedio di Tolone ed attraverso anche il loro insegnamento consegue una sintesi personale sul modo di come si deve condurre la guerra e le forze che si rendono necessarie a tal fine. 

Tre sono punti cardine del pensiero napoleonico: le operazioni; la battaglia, lo sfruttamento del successo.

Secondo il generale corso la necessità assoluta dell’unità d’azione politico militare da luogo sistematicamente, sotto differenti forme, a due assiomi tipici delle guerre napoleoniche che in un certo senso definiscono la natura ed il ritmo delle stesse: “distruggere il nemico attraverso la battaglia” e “la vittoria arride agli eserciti che sanno manovrare”.

Approfondendo ed adattando le riflessioni di Federico di Prussia, Bonaparte concepisce la sua prima campagna secondo dei principi che non abbandonerà più: l’economia delle forze, la concentrazione dei mezzi (principio della massa) ed il mantenimento della libertà d’azione, attraverso la sicurezza del dispositivo e di un idoneo sistema informativo.

L’economia delle forze si traduce, a livello strategico, con la scelta di obiettivi politici chiari, dai quali le operazioni militari decorrono logicamente. Per tali operazioni la ripartizione dei mezzi viene effettuata fra l’asse principale dello sforzo e quello secondario, limitando il numero delle missioni assegnate ed assegnando a ciascuna solo le risorse strettamente indispensabili.

La concentrazione degli sforzi e tutta la vita di Napoleone ne è un esempio, verrà conseguita attraverso una unità di comando spinta all’estremo. Tale azione tende, operando su una sola linea di operazioni, a realizzare la riunione delle forze attraverso incrementate velocità di movimento delle unità, ottenendo la massa sul punto più debole dell’avversario. La nozione dello Schwerpunkt federiciano applicato al livello della battaglia, viene esteso da Napoleone all’intero teatro d’operazioni.

La libertà d’azione, infine, deve essere ottenuta per mezzo di una sorpresa strategica iniziale sull’avversario. Questo stratagemma consente di acquisire e quindi conservare successivamente l’iniziativa sull’avversario, mediante la rapidità degli spostamenti ed attraverso l’utilizzazione di grandi ostacoli naturali o artificiali (avanguardie) che permettono di mascherare le vere intenzioni. Questo è il caso del passaggio delle Alpi da Nord a Sud nel 1800, quando il generale austriaco Melas era predisposto a parare una traversata da Ovest. E’ anche il caso della manovra di Ulm del 1806 durante la quale il Reno e la Foresta Nera coprono un pericoloso aggiramento per il Nord. Quando questi mezzi vengono a mancare la perplessità degli stati maggiori nemici viene rinforzata attraverso l’attuazione di movimenti apparentemente confusi e da eventuali azioni diversive, quale quella celebre di Schulmeister.

In tale scenario grandissima importanza assume il servizio informazioni e di ricognizione, attivamente operante sin dal tempo di pace, per conoscere nel dettaglio il quadro di battaglia del nemico, la sua organizzazione e la sua dottrina, nonché riconoscere nel dettaglio i possibili terreni di possibili scontri futuri.

In sostanza, come e meglio di un giocatore di scacchi che cerca di mantenere la mossa di vantaggio, Napoleone cerca sistematicamente di aumentare i tempi di reazione dell’avversario in modo che nel momento cruciale della battaglia decisiva il rapporto di forze gli risulti spesso favorevole oppure che il terreno o lo schieramento delle forze accrescano l’efficacia dei propri mezzi.

Strutture e mezzi militari

Questi principi, impiegati a partire dalla Campagna d’Italia del 1796 e 1797, sebbene coronati da successo completo, non ottengono però un altrettanto favore generalizzato nel pensiero militare dell’Esercito francese, anche perché Bonaparte a quel tempo, non è che uno dei generali della repubblica, uno fra i tanti che nello stesso periodo riportano sfolgoranti successi sul Reno, in Svizzera ed in Olanda. In questo periodo la Francia non sente pertanto il bisogno di riformare profondamente l’organizzazione militare

Ma tutto questo cambia con il colpo di stato del 18 brumaio dopo il quale la sopravvivenza del regime napoleonico dipenderà essenzialmente (e Talleyrand sarà il primo a comprenderlo) dalla capacità del generale a presentarsi come erede della Rivoluzione, sebbene ne pronunci la lode funebre ed a mantenersi militarmente contro le inevitabili coalizioni .. fino all’esaurimento di questa o della stessa Francia.

Quando il 1° Console prende il potere la situazione militare appare grave. L’Italia del Nord è perduta e l’esercito manca di tutto.

Dopo un’inevitabile riorganizzazione delle istituzioni finanziarie e del sistema di reclutamento, preliminari per il ristabilimento di un corretto flusso logistico, Bonaparte, in attesa della ripresa in primavera delle operazioni contro la seconda coalizione, introduce una variante organica significativa nell’Esercito francese, introducendo il livello del Corpo d’Armata ed applicandolo inizialmente all’Armata d’Italia.

L’idea base è quella di raggruppare sotto un unico comando dei mezzi interarma, capaci di condurre autonomamente ed isolatamente combattimenti della durata di una giornata o di concorrere con altri corpi all’esecuzione di una grande battaglia.

La sua struttura iniziale prevede una avanguardia del livello brigata o divisione ridotta, una divisione di fanteria su due o tre brigate, una brigata di cavalleria e dell’artiglieria a livello divisionale e di corpo d’armata.

Questo nuovo livello ordinativo, innovativo ed intermedio fra le divisioni ed il Quartier Generale, consente di gestire con maggiore flessibilità ed efficacia l’accresciuto numero delle divisioni sul campo di battaglia e soprattutto realizza a livello più basso del Gran Comando quell’unità d’azione che le divisioni da sole non sono in grado di realizzare.

Solo nel 1808 dopo l’addestramento della futura Grand Armée al campo di Boulogne verrà data una forma definitiva al corpo d’armata e farà assumere all’Esercito Francese l’assetto desiderato da Napoleone. Il nuovo Corpo d’Armata sarà strutturato su due/cinque divisioni di fanteria ed una brigata/divisione di cavalleria leggera. La Guardia Imperiale sarà anch’essa articolata in corpi d’armata ed il resto della Cavalleria costituirà una possente riserva, distinta dal resto delle forze, con il compito di assicurare la sicurezza lontana dell’esercito e di fornire la indispensabile massa d’urto nelle battaglie.

Ormai lo stato maggiore napoleonico ed i suoi marescialli dispongono di un formidabile strumento di elevate ed efficaci prestazioni, con un livello di morale e di fiducia in sé stesso decisamente elevati e superiori a quello delle contemporanee forze europee e soprattutto pronto per Ulma, Austerlitz, Jena, Auerstadt, Eylau e Friedland, prima di essere purtroppo inesorabilmente usurato ed irrimediabilmente deteriorato nell’interminabile guerra di Spagna. Uno strumento militare, in sintesi, motivato, disciplinato, rapido nelle marce, preciso nelle sue manovre sul terreno e sufficientemente flessibile per adattarsi alle varie situazioni di impiego ipotizzabili.

        

La manovra napoleonica

Napoleone ha detto di aver sempre evitato di operare secondo uno schema prestabilito e soprattutto non ha mai lasciato al riguardo degli scritti chiarificatori, sia per le necessità del momento, sia per le generazioni future. Quando non sono dei puri e semplici ordini da eseguire, le sue corrispondenze sulle questioni militari si limitano  a dei consigli di condotta, a delle disposizioni o a delle attitudini o comportamenti preferibili. Ciò nondimeno l’esame delle Campagne dell’Impero lasciano trasparire due grandi sistemi d’operazione.

Il primo è rappresentato dalla manovra sul tergo delle forze nemiche, il cui scopo è quello di “gettare le proprie forze sul tergo dell’avversario per circondarlo e catturarlo al completo”. L’azione consiste nell’attirare il nemico lontano dalla sua capitale e dalle sue risorse principali, portandosi rapidamente sulle sue linee di comunicazione e della logistica, per accerchiarlo, inseguirlo e dargli battaglia se da questi viene accettata in tali condizioni.

Le condizioni per la sua applicazione sono la disponibilità di una barriera naturale come schermo ai propri movimenti, la disponibilità di effettivi sufficienti per avviluppare l’avversario, garantendo in ogni casi le proprie comunicazioni e con una autonomia logistica da tre a cinque giorni. E’ il caso dell’utilizzazione dinamica del terreno a fronte della sua semplice utilizzazione difensiva e soprattutto dell’organizzazione prospettiva delle operazioni contro l’improvvisazione della reazione avversaria.

Almeno 27 operazioni sono state condotte secondo questo schema di manovra, fra le quali le più significative si ricordano Marengo, Ulma, Jena e Montmirail, tante per non pensare ad uno schema di pensiero o ad un sistema perfezionato nel tempo, piuttosto che ad una semplice coincidenza.

Il secondo sistema d’operazioni, più frequentemente adottato da Napoleone, è quello della manovra per linee interne attraverso la quale “cerca interporre tutte le sue forze riunite fra le masse divise dell’avversario per distruggerle separatamente

Disponendo dell’iniziativa o quando la ricerca, Napoleone procede per colpi offensivi, come per esempio nel 1796, allorché riesce a separare gli Austriaci dai loro alleati piemontesi, o nel 1812 durante l’offensiva di Smolensk, oppure nel 1815, quando riesce a raggruppare l’Armata del Nord alla giunzione dei dispositivi di Blucher e Wellington.

Quando non dispone dell’iniziativa né della superiorità di mezzi oppure se cerca di guadagnare del tempo, Bonaparte interpone le proprie forze in un dispositivo di attesa strategica, che abbandona non appena i movimenti potranno essere determinanti. Questo è il caso a due riprese nel 1797 per opporsi ai due tentativi del generale austriaco Alvinczy di sbloccare il generale Wurmser, circondato a Mantova. Napoleone manovra allo stesso modo anche nel 1805 nei giorni che precedono Austerlitz, per indurre l’Armata austro - russa a commettere il famoso “errore di Pratzen”. Ritroviamo infine lo stesso modo di procedere anche nel 1813, poco prima di Lipsia e negli inizi della campagna del 1814, capolavoro nel suo genere, con la quale costringe ad una ritirata provvisoria e simultanea le Armate separate di Blucher e di Schwarzenberg.

Anche in questi casi di manovra si può parlare di una semplice coincidenza o piuttosto di un vero e proprio sistema di azione ?

La marcia al nemico

Anche nella marcia al nemico, così come evidenziato nella maniera di concepire le operazioni, emergono delle incredibili similitudini da una campagna all’altra.

L’organizzazione per corpi d’armata e la ricognizione in profondità condotta da forte massa di cavalleria, consentono, di norma, movimenti su tre o quattro itinerari, intervallati fra loro in modo che ogni corpo sia distante dai suoi vicini non più di una giornata di marcia. L’esempio tipico di tale organizzazione è l’ordine di marcia adottato dall’Armata francese all’inizio della Campagna del 1806. Più tardi questo verrà individuato come struttura a “bataillon carré” ossia quel dispositivo quasi geometrico dei corpi napoleonici in marcia. In realtà si trattava piuttosto di un dispositivo a losanga, rinforzato da una riserva al centro della figura geometrica e teoricamente capace di presentare lo stesso volume di forza in tutte le direzioni, attraverso una semplice rotazione. E’ con una organizzazione di questo tipo che la Grand Armée procederà verso Eylau contro le forze del generale Benningen.

La battaglia napoleonica

La battaglia è lo scopo ultimo di tutta la strategia di Napoleone. Deve rappresentare l’evento decisivo e deve concludere la guerra, attraverso la distruzione delle forze nemiche, oppure la loro cattura. Nella sua preparazione e nel suo sviluppo tattico la battaglia procede identità di vedute e con la stessa logica di pensiero militare che il Bonaparte lascia intravedere a livello strategico ed operativo. Si ritrovano nei principi delle sue battaglie gli stessi principi generali che caratterizzano le guerre napoleoniche in generale.

La concezione della battaglia è sempre semplice. Si tratta di disarticolare (destabilizzare) il dispositivo del nemico, attaccandolo il più rapidamente ed il più presto possibile e nel punto più debole. La preparazione è sempre minuziosa ed il terreno viene riconosciuto senza sosta in tutti i suoi dettagli, anche personalmente dallo stesso Imperatore, che passa gran parte del suo tempo a cavallo, fuori dal suo quartier generale.

L’esecuzione assume sempre delle caratteristiche di vigore e di decisione e vi si ritrovano normalmente applicati i principi dell’economia delle forze e della concentrazione degli sforzi. La libertà d’azione viene sistematicamente preservata e mantenuta con la disponibilità e l’impiego a ragion veduta di una riserva, composta il più delle volte da cavalleria pesante e dalla Guardia Imperiale.  Questa azione nel suo complesso costituisce un blocco di procedure in continua evoluzione piuttosto che l’applicazione di un procedimento unico e fisso. Eylau ad esempio comincia con un attacco centrale non riuscito, prosegue con una azione difensiva provvisoria, continua con una nuova offensiva al centro e si conclude infine con un avvolgimento sui fianchi.

A livello tattico appare meno evidente l’esistenza di un piano fisso, sistematicamente concepito a monte, come ad esempio la battaglia ideale ed idealizzata di Austerlitz. Il più delle volte la modellizzazione della battaglia avviene a seguito di un processo successivo all’evento, o nei bollettini ufficiali od a seguito delle plurime scritture e riscritture dei fatti. E’ infatti proprio così che, attraverso la redazione o, se si vuole la penna, di Berthier, rivista e corretta dallo stesso Napoleone, la battaglia di Marengo diventerà per lungo tempo come il modello ideale dell’applicazione dell’ordine obliquo, durante una ritirata.

Ma era proprio veramente necessario attribuire a Bonaparte il merito del sussulto finale dell’Armata d’Italia a Marengo, quando questa non fece altro che subire l’azione dell’avversario durante tutta la giornata?

Quando invece la battaglia è voluta e decisa dallo stesso Bonaparte questa assume effettivamente altre caratteristiche.

L’applicazione sistematica di fuoco concentrato e potente è un preliminare costante per l’indebolimento dell’avversario, prima che le masse della fanteria effettuino l’azione di rottura. Tale azione non può essere in effetti la conseguenza della polivalenza della fanteria, ma piuttosto il risultato di una cooperazione permanente interarma e l’impiego di formazioni di combattimento adeguate al tipo di minaccia o all’effetto desiderato sulle forze nemiche.

Una volta ottenuta la disarticolazione del nemico, realizzata attraverso la rottura del centro o di un’ala, la cavalleria raccoglie i frutti della vittoria attraverso uno sfruttamento del successo i cui risultati a volte superano di bel lunga quelli della stessa battaglia. E’ infatti nei giorni che seguono la battaglia che tutta l’Armata, messa in condizione di inseguire, perviene all’occupazione degli obiettivi iniziali e pone termine alla campagna. L’esempio più efficace è proprio quello della Campagna del 1806 dove le forze prussiane del Blucher, battute in due scontri decisivi fra il 9 ed il 14 ottobre, vengono praticamente disintegrate proprio durante il successivo inseguimento.

Epilogo e limiti.

Gli effetti di Napoleone sulla storia nazionale, sono tutti ed essenzialmente di natura politica, anche se l’Armata d’Italia ha giocato un ruolo non trascurabile ed è stata uno dei Corpi di riserva dello strumento militare napoleonico. Come ci racconta lo Scala nella sua monumentale “Storia delle Fanterie” ben 77 generali della Grand Armée erano italiani (fra questi conviene citare il Pino, il Lechi ed il modenese Fontanelli) ed il contributo di sangue versato dai nostri connazionali alla causa bonapartista supera ampiamente le 147 mila unità di cui circa 15 mila solamente in Russia. Fra gli effetti di Napoleone da un punto di vista politico vanno dunque evidenziati:  il risveglio degli ideali dell’unità nazionale, attraverso la creazione del tricolore e di uno pseudo stato italiano del Nord, vassallo della Francia, il riscatto delle masse, ritornate ad essere soggetti della storia, la distruzione a livello mondiale dell’Ancien Regime e per quanto ha tratto con l’Italia, la eliminazione della eccessiva frammentazione del quadro politico, nonché la conseguente apertura delle intelligenze ad orizzonti più vasti, infine la notevole “diminutio” dell’influenza politica del potere papale e l’eliminazione politica della Repubblica di Venezia, che sarebbero stati, comunque ed in ogni caso, nemici dell’unità nazionale.

Dal 1796 al 1815 i due decenni di guerra napoleoniche si concludono con i risultati che tutti conosciamo. Così dopo aver analizzato le cause dei successi militari, occorre mettere in evidenza quelle che hanno determinato lo scacco finale. Contrariamente alla convinzione generale che tali risultati traggono le loro cause principali dalla sfortunata Campagna di Russia, molte di queste in realtà trovano la loro origine nel periodo di splendore dell’Impero, nel 1807, dopo Tilsitt, quando Napoleone si trova all’auge della sua potenza. Ad eccezione dell’Inghilterra che cerca disperatamente di uscire dal proprio isolamento politico ed economico dopo il colpo di mano su Copenaghen, la Francia non ha altri nemici in Europa oltre I Savoia in Sardegna ed i Borboni a Palermo.

Dal 1807 emerge una crescente inadeguatezza e divergenza fra la politica di potenza continentale europea verso la quale tende Napoleone e la corrispondente strategia adottata per raggiungerla. Gli scopi o gli obiettivi della guerra sono talvolta in contraddizione con gli obiettivi politici. Per contro spesso la politica nel tracciare i suoi obiettivi non tiene nel debito conto i mezzi militari effettivamente disponibili.

Gli esempi sono numerosi. Scatenare un conflitto contro il Portogallo, che si estenderà a tutta la penisola iberica, decorre dalla necessità politica di mantenere ermetico un blocco economico continentale, che peraltro causa danni ingenti alla economia della Francia e dei suoi alleati. Sempre riguardo al problema Spagna: valeva la pena di scatenare una guerra e perdere un alleato, quando questo poteva essere controllato da vicino politicamente? Cosa potevano pensare al riguardo gli alleati tedeschi della Confederazione del Reno? Valeva la pena di fare la guerra alla Russia, quando invece la sua alleanza, mantenuta e consolidata avrebbe potuto avere delle positive conseguenze per la stabilità dell’Europa? 

Nel 1812 Napoleone si rende conto, troppo tardi, che a differenza della Francia, conquistare Mosca non significa necessariamente dominare la Russia e nel 1813 l’Imperatore rifiuta di abbandonare Dresda, la capitale di un alleato, quando la una corretta valutazione della situazione militare l’imponeva l’avrebbe imposto come opportuno.

Si è molto scritto sulla parte giocata dal tradimento e dalle defezioni che marcano la storia politica e militare napoleonica a partire dal 1813. Talvolta dimenticando che le stesse, più che la causa primaria dei successivi rovesci non sono forse altro che l’effetto e la conseguenza di errori o negligenze. Né Murat, né Bernadotte avrebbero probabilmente tradito se non ci fosse stata l’avventura del 1812 che ha portato, dopo uno stato di guerra continuato dal 1792, l’Europa alla esasperazione ed alla disperazione. La Confederazione del Reno non si sarebbe orientata verso il nazionalismo tedesco se non ci fosse stato quel largo ed inutile tributo di sangue dei suoi soldati in Spagna, in Russia e gli effetti economicamente perniciosi del blocco continentale.

Si può in un certo senso rimproverare ed attribuire a Napoleone il fatto di non aver perfettamente compreso il fenomeno della guerra globale, alla quale inevitabilmente portavano le proprie ambizioni. Bonaparte, dopo aver ereditato gli Eserciti popolari e della rivoluzione, non immagina effettivamente che i sovrani europei, per sopravvivere, avrebbero accettato il rischio politico della costituzione di propri Eserciti nazionali, attraverso la coscrizione di massa, così come è il caso della Spagna nel 1808, dell’Austria del 1809 e di tutta la Germania a partire dal 1813.

Inoltre egli valuta male, quanto alla loro possibile incidenza, le forme non convenzionali della guerra.

Ecco dunque che il fenomeno della guerriglia napoletana, che prende corpo fin dal 1806, non riesce a far comprendere l’importanza militare di un possibile sollevamento popolare e generale organizzato, come saranno poi quelli della Spagna dal 1808 al 1812 e quello del Tirolo del 1809.

In questo settore occorre evidenziare anche la politica della terra bruciata condotta dai Russi a danno dei Francesi. Questa avrà le peggiori conseguenze sulla logistica, già in crisi, della Grand Armèe

Un altro errore da imputare a Napoleone è quello di aver negletto o rinunciato al potere marittimo dopo la battaglia di Trafalgar, che lo costringerà a delle scelte strategiche, necessariamente terrestri, sia in campo militare che economico. Un grave scacco dal momento che il generale corso aveva scritto esplicitamente che il suo obiettivo era di “conquistare il mare attraverso la potenza terrestre”.

Da ultimo fra le cause del sconfitta va riportata anche l’assenza di qualsiasi progresso di ordine tecnico che di fatto impedirà qualsiasi rinnovamento nei mezzi e nelle procedimenti.

A livello strettamente militare, in mancanza di novità significative, non si poteva sopravvivere ad una inevitabile usura. I coalizzati, imparano a poco a poco ed a loro spese i metodi napoleonici e cominciano a reagire correttamente. Iniziano a dotarsi dei mezzi necessari ed adattano conseguentemente le strutture dei loro Eserciti. In tale quadro avviene l’adozione generalizzata prima del sistema divisionale e quindi di quello del corpo d’armata. Allo stesso tempo il ricorso alla coscrizione ed alla mobilitazione delle forze sulla base di un sentimento nazionale, consente anche ai coalizzati di disporre di eserciti di massa, che avranno sempre di meno da temere da quelle progressivamente minori di quelle francesi.

A partire del 1813 i coalizzati riescono ad affrontare i francesi con forze che sono decisamente più efficaci, con maggiori capacità di mimetizzare i propri movimenti, con una più forte coesione e con delle risorse (dei mezzi) complessivamente superiori.

Ma diversi errori di ogni genere si possono comunque rilevare a vari livelli. L’eccessiva centralizzazione della manovra, la mancanza di iniziativa dei grandi livelli subordinati e in ultimo le sconfitte dei marescialli contribuiscono notevolmente a  diminuire gli effetti delle vittorie napoleoniche, privando la politica dell’Imperatore di un ampio respiro e quindi di un vero futuro. Questo è il caso della guerra di Spagna e degli inizi della Campagna del 1813 in Germania.

A livello operativo le qualità della manovra compensano sempre di meno l’inferiorità numerica che si amplifica di giorno in giorno. E’ il caso della sconfitta della manovra per linee interne adottata a Lipsia e di quella di aggiramento profondo del 1814.

La ragione più importante e probabilmente più insidiosa della fine è forse quella che l’Esercito francese del 1805, sul cui valore, qualità e competenza Napoleone fondava le sue combinazioni politico - militari, è andato progressivamente esaurendosi nel periodo intercorrente fra Ulma ed Eylau, passando soprattutto per le dolorose vicende della Spagna e soprattutto non è mai stato significativamente rinsanguato dal punto di vista qualitativo e della professionalità. Di fatto l’elevato tasso di perdite subito ed il conseguente crescente bisogno di nuovi effettivi, determinano impercettibilmente un livello di truppa sempre più giovane, cosmopolita, sempre meno motivato e decisamente meno addestrato ed efficace.

I procedimenti e le tattiche che richiedono un alto livello addestrativo non possono essere effettivamente più applicate sul terreno ed i comandanti dei corpi sono portati ad adottare per consentire una adeguata comandabilità e limitare i danni dispositivi tattici più compatti e più rigidi. E’ il caso di quanto effettuato nelle battaglie di Wagram, della Moscova, di Lipsia e di Waterloo nelle quali le massicce formazioni di combattimento, provocano inevitabilmente anche enormi perdite.

Allo stesso tempo, nel tentativo di compensare la mancanza di qualità, le armate napoleoniche sono costrette a triplicare il numero delle artiglierie, aumentando così anche il livello delle perdite inflitte al nemico, ma anche i costi in equipaggiamenti ed i problemi già gravi della logistica.

In questo modo Napoleone viene, in un certo senso, a pagare il suo tributo al fatto di aver troppo abusato dell’impiego della forza e del ricorso quasi sistematico alla guerra negli strumenti della sua politica.

Dopo la guerre napoleoniche gli strateghi cercheranno di scoprire e comprendere un sistema che Napoleone non aveva mai formalizzato per iscritto, come se in effetti esistesse e si potesse trovare una sorta di pietra filosofale ad uso militare. Nel suo “Precis de l’art de la guerre”, del 1838, lo svizzero Jomini sembra volerne svelare la chiave interpretativa ai suoi contemporanei. La sua analisi della condotta delle operazioni farà scuola, sia nell’Esercito unionista di Grant come in quello confederato di Lee, tanto che alcuni cronisti arrivarono persino a dire che gli ufficiali di quella guerra “marciavano con la sciabola in una mano e con lo Jomini nell’altra”. In realtà lo Jomini non fa altro che sistematizzare una esperienza ed una teoria, peraltro incompleta, imbinariandola nelle logiche della Restaurazione, ma la cui semplicità e le cui qualità didattiche intrinseche gli varranno, per contro, numerosi adepti.

Dopo di lui il Clausewitz svilupperà una teoria più globale, incompiuta anch’essa ma certamente rivoluzionaria per l’epoca e per questo ancor meno compresa. Più tardi ancora altri personaggi in Francia (Ardent du Picq), in Italia (Marselli), in Inghilterra (Mac Dougall) e negli Stati Uniti (Halleck e Hart Mahan) tenteranno a loro volta di estrapolare dalle guerre napoleoniche delle equazioni universali, applicabili ad ogni conflitto. I loro sforzi otterranno un modesto successo, quale quello della generalizzazione ed uniformizzazione dei ragionamenti, parzialmente validi per “l’era del moschetto”.

Nel 1796 Napoleone scriveva “disgrazia per quel generale che si presenta sul campo di battaglia con un sistema ..”. Venti anni più tardi, a Sant’Elena, affermerà: “la strategia è la scienza dell’impiego nel tempo e nello spazio. Sono, per quanto mi riguarda, meno avaro dello spazio che del tempo; Per quanto attiene lo spazio, abbiamo sempre la possibilità di riconquistarlo, mentre il tempo perduto non lo potremo mai recuperare”.

Oggi, due secoli più tardi, ben molti punti interrogativi persistono ancora sulle vere cause dei successi napoleonici. E tuttora ancora difficile discernere il peso rispettivo della eredità militare della rivoluzione, delle circostanze, della congiuntura e del genio dell’uomo che, comunque con la sua azione, ha sconvolto l’arte della guerra. Questa, iniziata come una azione contro rivoluzionaria, porterà le potenze verso le guerre nazionali e globali.

Dopo Napoleone la dissuasione non dipenderà più  dalla potenza momentanea di un sovrano o di un governo, ma dalla rispettiva capacità di mobilitare tutte le risorse umane, economiche e ben presto tecnologiche di una nazione. La guerra di Secessione americana, la più sanguinosa del 19° secolo, rappresenta indiscutibilmente l’esempio più lampante e netto che il mondo era ormai entrato nel periodo delle guerre moderne. 

Copyright © 2013. www.iacopi.org  Rights Reserved.