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IACOPI DISCENDENZE E STORIA

Una vita di ricerche per conoscere chi sono.

  

DOM PERIGNON

DOM PERIGNON

(Stampato su “SUBASIO” n. 4/15 del dicembre 2007, Bollettino trimestrale dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi).

Ritratto di un personaggio celebre del quale la posterità ricorda il nome .. senza sapere veramente di che cosa si tratta.

Il nome di Dom Perignon evoca ancora oggi la celebre bottiglia di champagne, magari bevuta tra amici o nelle grandi occasioni. La particella Dom (Dominus) indica certamente una origine monastica, ma sono numerosi quelli che credono che si tratti ancora di un’altra leggenda, quella del buon monaco e del suo segreto. In effetti risulterebbe infinità la lista di procedimenti, ricette e rimedi che la tradizione attribuisce a dei religiosi del tempo passato.

Eppure Pierre Perignon è un personaggio effettivamente esistito. Nato nel 1638 a Sainte Menehoulde, in Francia, in una famiglia relativamente agiata di piccoli titolari di cariche pubbliche, diviene allievo, senza una storia particolare, dei padri gesuiti. Egli entra a 19 anni negli ordini per vocazione, “al fine di dedicarsi con maggiore cura alla salvezza della propria anima per poterla poi renderla un giorno a Dio suo creatore”. Dopo un trascorso nel Convento benedettino di Santa Vanna a Verdun, il novizio diventa Dom Petrus Perignon il 3 luglio 1658.

Per dieci anni egli si rende familiare con la vita benedettina, alternando gli esercizi spirituali al lavoro manuale. Nel 1668 viene destinato al Monastero di S. Pietro d’Hautvillers, nella Diocesi di Reims (l’antica abbazia esiste ancora oggi a circa 6 chilometri a nord dell’abitato di Epernay). Dom Perignon vi ricopre le funzioni di procuratore, vale a dire che risulta incaricato della direzione degli affari economici della comunità, a quell’epoca in pieno restauro. Egli diventa pertanto il Grande Intendente dell’abbazia, prendendo a cuore, da vero benedettino, il suo nuovo lavoro. Inizialmente si interessa del vigneto che la comunità monastica sfrutta dal Medioevo. I vini della Champagne, specialmente quelli d’Ay, sono in quel tempo molto rinomati ed in forte concorrenza con quelli della vicina Borgogna sulle tavole dei re e dei grandi signori. Più spesso rossi e non spumanti, questi vini non hanno niente a che vedere con lo champagne attuale.

Indubbiamente Dom Pietro non poteva certamente essere procuratore senza essere anche il cellario (responsabile della dispensa). La Regola di S. Benedetto, precisa e molto completa, stabilisce che il responsabile della dispensa deve essere “saggio, dotato di spirito maturo e discreto, sobrio e non un grande mangiatore, né altero, né turbolento, né ingiurioso, né lento, né prodigo, ma timoroso di Dio, esercitando nei confronti della comunità monastica il dovere e la funzione di Padre”. Interessarsi del vino rientra pertanto nei compiti particolari e l’apprendista enologo si occuperà della vigna e del vino per circa 47 anni.

Allorché Perignon arriva nel 1678 nel convento, la situazione è abbastanza deficitaria. Tutto è da rifare e le vigne sono in cattivo stato. Nessuna fase della vinificazione risulta soddisfacente a cominciare dalla questione della “schiumosità” (a causa del loro basso tenore alcolico, i vini della champagne conservati in barili avevano tendenza a fermentare ed a diventare “spumanti” durante i mesi estivi). Ma questo è un difetto o piuttosto una qualità ? E nel secondo caso come controllare il fenomeno ?  Si è spesso parlato di “un segreto di Dom Perignon”, che avrebbe, come se si trattasse di un colpo di bacchetta magica, inventato lo champagne. Niente di tutto ciò. Il suo segreto non è altro che quello dell’adagio dell’operaio e dei figli di La Fontaine: “Lavorate, prendetevi cura …”

Partendo da quello che prima di lui i viticultori della Champagne avevano già constatato, ma avendo a sua completa disposizione il tempo e la pazienza, virtù cardinali della Chiesa, Dom Perignon revisiona ed apporta miglioramenti a tutti gli stadi della difficile fabbricazione del vino della Champagne. Molto probabilmente personalmente esperto di cantine ed in mezzo alle sue dispense, egli mette a punto il matrimonio delle uve (assiematura) e soprattutto consegue il perfetto controllo della cosiddetta seconda fermentazione del vino nelle botti (spumosità) e delle successive fasi di eliminazione dei depositi e della chiarificazione del prodotto (attraverso l’eliminazione dei depositi rimasti in sospensione o con il bianco d’uovo o con la colla di pesce).

Questa specifica operazione di chiarificazione, che consiste nella eliminazione dei depositi di lievito che a volte intorpidiscono o scuriscono il vino, sarà successivamente effettuata attraverso travasi di bottiglie. Orbene, una tecnica a riguardo consiste nel mantenere ogni bottiglia con la testa in basso ed a farla ruotare regolarmente in modo da far scendere il sedimento nel collo della bottiglia, per poi aprirla e quindi eliminarlo. Famoso sarà a tal proposito il procedimento della casa “Veuve Clicquot Ponsardin”, che inventa un tavolo, la famosa “Table a remuer”, che consente ad un solo impiegato di girare rapidamente un centinaio di bottiglie alla volta, senza farle uscire dalle rastrelliere.

Dom Perignon presiede anche ad una migliore scelta delle bottiglie (la bottiglia moderna sarà un prodotto degli inizi del 18° secolo), dei tappi (di sughero piuttosto che di legno), della chiusura (per lungo tempo con legature di canapa sul tappo, in attesa del bloccaggio in fil di ferro del 19° secolo). L’abate Pluche nel suo “Spettacolo della Natura”, best seller francese del 18° secolo, rende omaggio a Dom Perignon che ha saputo “ben governare lo Champagne” e permesso di assicurarne una buona conservazione, ben più lunga che in precedenza.

Gli scritti dell’epoca mettono già in guardia dalla consumazione del cattivi vini spumanti Questa è la prova che il vino della Champagne era già rinomato. Dom Perignon muore a 77 anni il 14 settembre 1715, tredici giorni dopo il Re Sole e per la sua benemerenza guadagnerà una ben meritata fama.

Domenico Grimani

Domenico Grimani,

un principe della Chiesa al servizio dello Stato

(Stampato su “SUBASIO” n. 2/15 del giugno 2007, Bollettino trimestrale dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi)

 

Nel 15° secolo il mondo cristiano ha bisogno di Venezia per far fronte alla minaccia ottomana, ma la Serenissima è indipendente: eretta in Patriarcato nel 1451, ha anche la facoltà di eleggere i suoi vescovi con grande disappunto del Papa. Occorreva il talento diplomatico del cardinale Grimani per poter acquietare le gravi tensioni con Roma.

Posta sotto il patronato di S. Marco, le cui reliquie sono state recuperate ed installate nel cuore del suo spazio civico nel 9° secolo, Venezia custodisce, per usare l’espressione di uno scrittore, “chiese così belle e così grandi fondate sul mare”, tanto da manifestare chiaramente davanti a tutti la sua vocazione cristiana ed il suo attaccamento alla Chiesa. Un tale impegno diviene ancora più significativo nel 15° secolo, allorché la Repubblica si pone come bastione della Cristianità davanti alla progressione ottomana nel Mediterraneo e nei Balcani. Questo ruolo eminente si accompagna tuttavia ad una rivalità latente con il Papato, che degenera a volte in scontro aperto, come è testimoniato dall’interdetto scagliato da Papa Giulio 2° sulla Serenissima nel 1509 e quello di Papa Paolo 5° nel 1606.

L’originalità della situazione veneziana e le tensioni che essa suscita possono essere esaminate e chiarite attraverso il singolare esempio della carriera di Domenico Grimani. Questi, proveniente da una famiglia patrizia pervenuta al vertice del potere (suo padre è stato eletto Doge nel 1521), è anche cardinale ed occupa, in quanto tale, una posizione di primo piano nel governo della Chiesa.

Abbandona la carriera politica per quella ecclesiastica

Domenico Grimani, nasce nel 1461 da una eminente famiglia del patriziato veneziano. Suo padre Antonio ha costruito una immensa fortuna negli affari con il Levante e con l’Europa settentrionale ed i suoi successi economici gli hanno permesso di accedere a delle cariche elevate all’interno delle istituzioni della Serenissima. Domenico, che riceve una educazione molto curata presso l’Università di Padova, dove eccelle sia nel diritto canonico che negli studi filosofici, è destinato a seguire le orme del padre. Entrato nel Gran Consiglio, nello stesso periodo Domenico continua i suoi studi a Padova dove ottiene il Dottorato nel 1487 e nel corso dello stesso anno riesce ad essere eletto Senatore. Nel 1489, in occasione del passaggio nei territori della Repubblica dell’Imperatore Federico 3°, egli viene nominato membro dell’ambasceria inviata incontro al sovrano e che lo scorterà da Aquileia, per Bassano, Treviso, Vicenza, fino a Verona. Prendendo la difesa della dottrina tomista in numerose dispute, egli acquisisce rapidamente una solida reputazione nel settore filosofico ed alla fine decide di lasciare la promettente carriera politica per orientarsi sulla via della Chiesa.

Nel 1491 il Papa Innocenzo 8° lo nomina Segretario e Protonotario apostolico. Anche se non riceve l’ordinazione maggiore (vescovo) prima del 1498, Domenico Grimani comincia molto presto ad accumulare benefici ecclesiastici e si vede persino affidare, per esempio, la commenda (1) di una abbazia nell’isola di Cipro, allora veneziana. Creato Cardinale nel 1493, in cambio del versamento di diverse decine di migliaia di ducati al Papa Alessandro 6° Borgia, egli diventa poco dopo Amministratore del Vescovato cipriota di Paphos, prima di farsi attribuire, nel 1495, l’Arcivescovado di Nicosia. Due anni più tardi egli ottiene la prestigiosa sede di Aquileia, nel Friuli, guadagnandosi così il titolo di Patriarca, associato a tale carica.

Questa rapida ascensione è favorita dall’appoggio delle autorità della Serenissima, che dispone di due sedi patriarcali nei suoi territori: quella di Aquileia, che è molto desiderata dagli Imperiali all’inizio del 15° secolo e quello dell’isola di Grado, trasferita a Venezia mezzo secolo più tardi per decisione pontificale. Secondo la tradizione, S. Marco, venuto a predicare nell’Italia del nord, sarebbe stato il fondatore della sede vescovile di Grado e Venezia e questa trae, da questo doppio motivo, una giustificazione ed un argomento nelle sue velleità di indipendenza nei confronti della Roma di S. Pietro. A questo rilevante incarico Grimani aggiunge la commenda dell’Abbazia di San Pietro di Rosazzo nel 1501 e quella di Santa Maria di Sesto al Reghena nel 1503. Come una buona parte dei prelati del suo tempo Grimani non si interessa veramente alle attività pastorali e non risiede stabilmente nelle diocesi di giurisdizione, affidategli nel tempo. In tale contesto egli visiterà soltanto una volta il suo patriarcato, poco tempo dopo essere stato ordinato prete e dopo aver ricevuto nella primavera del 1498 la consacrazione episcopale. Questo viaggio di un po’ meno di un anno lo conduce nei diversi vescovati della sua giurisdizione, dove il suo passaggio è ritmato da entrate solenni.

Il Papa ed il Doge gli affidano missioni delicate

Una volta compiuto questo suo dovere protocollare, Domenico preferisce affidare le sue funzioni ad un Vicario e si reca a Roma, consacrando ad affari di alta politica, all’amministrazione dei suoi beni ed al consolidamento della sua famiglia. Legato ai territori della Serenissima attraverso una parte dei suoi molteplici benefici ecclesiastici ricevuti, Grimani diventa “romano”, specie dopo la sua accessione al cardinalato. Egli si installa in un palazzo ai bordi del Tevere ed accompagna il Papa nei suoi spostamenti: il 31 ottobre 1493 è a Viterbo al seguito di Papa Alessandro 6° ed il 12 luglio 1494 fa ancora parte del seguito del papa nell’incontro a Vicovaro con il Re Alfonso 2° di Napoli. Questo nuova posizione non gli impedisce si ritornare anche per lunghi soggiorni nella sua patria d’origine, dove conserva numerosi legami e segue con interesse l’evoluzione degli affari della famiglia. Grimani si caratterizza ormai per una doppia appartenenza che porta a giocare un ruolo di intermediario fra Roma e Venezia.

Sia da un lato, come dall’altro egli viene impiegato per il disbrigo di missioni segrete e spesso viene sollecitato ad intervenire da entrambe le parti in affari che interessano i due sovrani. Nel 1498, ad esempio, quando Papa Borgia cerca una signoria per suo figlio Cesare, proprio al posto dei Malatesta a Rimini, egli incarica Grimani di sondare a tal proposito l’opinione della Serenissima, che esercita l’alta protezione su quei territori. Inversamente Venezia non esita a servirsi del cardinale come avvocato presso la Curia: nel 1501 deve in tale contesto sostenere l’ambasciatore veneziano a Roma nella disputa di precedenza che l’oppone al rappresentante del Duca di Savoia e l’influenza esercitata sul Papa gli consente di aver vinta la partita. L’anno seguente egli difende ancora davanti ai cardinali la decisione presa dalla Repubblica di concludere la pace con i Turchi, contro i quali si trovava in guerra dal 1499.

Forte di questi diversi precedenti, Grimani viene ad assumere un ruolo cruciale di mediatore nella violenta disputa che oppone Roma a Venezia intorno al 1510 e che è rapidamente sfociata in conflitto aperto. In effetti anche se la Serenissima si era mostrata favorevole all’ascesa al trono pontificale di Giulio 2° nel 1503, le relazioni con il nuovo pontefice vengono a degradarsi progressivamente negli anni seguenti. I motivi principali sono rappresentati da un contenzioso territoriale a proposito della Romagna, occupata dai Veneziani e reclamata da Roma, ed in particolare a differenti punti di vista circa le pretese giurisdizionali a proposito della nomina dei vescovi nei possedimenti della Repubblica.

La strappo viene consumato nel marzo 1509 quando Giulio 2° aderisce alla Lega di Cambrai. Questa Lega, costituita nel dicembre 1508 per iniziativa del Re di Francia Luigi 12°, costituisce una vasta coalizione anti veneziana nella quale prendono parte l’imperatore Massimiliano d’Asburgo ed il Re di Spagna Ferdinando d’Aragona. Nell’aprile il papa lancia l’interdetto su Venezia, mentre gli eserciti confederati marciano sulla città veneta ed il 14 maggio 1509 le truppe veneziane vengono duramente sconfitte ad Agnadello. Durante il succedersi di questo lungo crescendo e di questa tragica scalata di eventi Grimani si è sforzato senza successo di acquietare le tensioni e di convincere il santo padre ad una posizione più moderata.

La sconfitta della Serenissima cambia completamente la situazione. Giulio 2° vuole approfittarne per dissociarsi dai suoi alleati e firmare una pace separata con Venezia. A tal fine fa dire attraverso Grimani che una ambasciata veneziana che venisse a chiedere perdono sarebbe oltremodo gradita. Gli inviati di Venezia arrivano a Roma agli inizi di luglio 1509 e qualche settimana più tardi il Papa riceve il capo della delegazione, accompagnato dal cardinale. Hanno così inizio delle lunge negoziazioni delle quali Grimani appare il tessitore e che si concludono il 24 febbraio 1510 con la remissione solenne dell’interdetto sulla Repubblica da parte del Papa.

I Veneziani, nonostante le pesanti concessioni alle quali sono costretti, si mostrano soddisfatti di un accordo che consente loro di alleggerire la morsa degli avversari. Dalle entrambe le parti il ristabilimento della concordia viene riconosciuto come merito del Grimani e della sua zelante azione, che guadagna ulteriore considerazione ovunque. Il papa lo sceglie per cantare la messa della pentecoste del 19 maggio 1910 e per celebrare l’apertura del Concilio del Laterano del 10 maggio 1512.

Fine letterato è anche un esperto archeologo

Grimani partecipa al governo della Chiesa e agisce sulla scena internazionale a fianco del papa. Le sue entrate gli consentono una vita fastosa, all’altezza del suo rango di principe. Secondo una testimonianza che rimonta agli ultimi ani della sua vita, l’accumulazione dei benefici ecclesiastici nelle sue mani, gli procuravano la considerevole somma di 14 mila ducati all’anno. Il cardinale consacra una parte di questo denaro a dei progetti immobiliari. Titolare dal 1501 della Chiesa di S. Marco a Roma, egli vi fa operare diversi lavori di restaurazione e di decorazione. Egli contribuisce anche all’abbellimento del Palazzo di Venezia, che occupa a partire dal 1505. Avendo suo padre acquistato due terreni sui fianchi del Quirinale, egli vi aveva supervisionato la costruzione di una villa di piacere che potrebbe aver occupato l’attuale spazio del palazzo Barberini. Queste dimore diventano un luogo privilegiato di feste e di sontuosi banchetti, dei quali gli archivi ne hanno conservato le tracce. Una lettera descrive nei dettagli un festino che il cardinale organizza il 16 marzo 1505 a Palazzo Venezia: una serie interminabile di portate servite in stoviglie di pregio ed accompagnate da suoni di pifferi, squilli di trombe e trombette ed il rullio di tamburi. Le armi cardinalizie dei Grimani, inframmezzate con le bandiere di S. Marco, addobbano a pavese tutto l’edificio.

Qualche mese prima della sua morte, mentre è vittima di continui attacchi di gotta che lo fanno soffrire, egli decide di celebrare il 25 aprilo, la festa di S. marco, con una magnificenza tutta particolare. Il Duca d’Urbino, Francesco Maria della Rovere, è l’invitato d’onore in un banchetto che dura sei ore, inframmezzato da pezzi musicali e da giochi.

Le dimore dei Grimani non sono solamente dei luoghi di divertimento, esse custodiscono anche delle interessanti collezioni. Il Cardinale è un personaggio brillante ed uno spirito fine e quest’uomo di cultura gode di un enorme credito presso gli eruditi e gli umanisti del suo tempo, che numerosi gli dedicano le loro opere. Egli si lega con una forte amicizia con Pico della Mirandola, del quale acquista la Biblioteca nel 1498 e riceve Erasmo da Rotterdam nel suo palazzo romano nel 1509.

Bibliofilo acuto, divoratore di libri e di manoscritti, egli riunisce anche numerose tele e mostra una evidente tendenza per la pittura dell’Europa settentrionale, tanto che si pone incontestabilmente fra i principali amatore d’arte dei primi decenni del 16° secolo: un inventario del 1521 rivela che egli possiede a quest’epoca opere di Hans Memling, Geronimo Bosch e di Albrecht Dürer.

Anche se gli artisti italiani non sembrano interessarlo allo stesso modo, egli possiede nondimeno un cartone di Raffaello e comanda una tela a Michelangelo. Fra le sue passioni per i libri e la pittura bisogna segnalare anche un opera eccezionale, conosciuta sotto il nome di Breviario Grimani, che il cardinale acquista intorno al 1510 dal ciambellano del Duca di Milano, Massimiliano Sforza. Si tratta in effetti di uno manoscritto miniato di estrema bellezza realizzato nelle Fiandre.

La curiosità e l’eclettismo del prelato si manifestano infine anche attraverso il suo gusto per l’antichità. Fortuitamente i lavori di costruzione che commissiona sui suoi terreni sul pendio del Quirinale, portano alla luce delle vestigia romane, che inizia immediatamente a collezionare. Riunisce in tal modo delle sculture di marmo e di bronzo, dei bassorilievi, delle iscrizioni, delle monete, delle medaglie e dei cammei che, in parte, egli lega alla sua morte alla Repubblica. Arricchiti da una nuova donazione effettuata nel 1587 da parte di suo nipote Giovanni Grimani, questi oggetti sono l’origine di uno dei primi musei pubblici aperti dalla Serenissima verso la fine del 16° secolo.

Il suo successo è il risultato di una strategia di famiglia.

Questo destino brillante non può essere considerato come l’esito di un fatto isolato ed il frutto dell’iniziativa fortunata di un solo individuo, ma riflette, al contrario, l’affermazione di una famiglia, i cui membri si sostengono mutuamente ed efficacemente nelle loro rispettive carriere. Antonio il padre di Domenico, aveva giocato un ruolo primordiale nella carriera ecclesiastica di suo figlio, finanziandone in particolare il suo cappello cardinalizio. Tuttavia i ruoli si invertono a partire dal 1499: Antonio mentre comanda la flotta veneziana ingaggiata contro i Turchi subisce nel corso dello stesso anno una cocente sconfitta che gli vale una accusa di tradimento e la condanna all’esilio. Domenico inizia da allora a lavorare per la riabilitazione del padre nella Repubblica, accogliendolo per certo periodo a Roma e per il quale ottiene nel 1510 la prestigiosa carica di Procuratore di S. Marco in ricompensa dei servizi resi nella composizione della disputa fra Giulio 2° e la Serenissima. Nel 1521 il cardinale usa ancora tutta la sua influenza per assicurare l’elezione di Antonio alla carica di Doge, installandosi a Venezia a sostegno della sua campagna politica. Il successo finale del padre deve molto allo zelo del figlio.

Parallelamente Domenico, secondo il costume del tempo, si occupa anche dei suoi nipoti, i figli di suo fratello Girolamo. Il maggiore di questi, Marino, l’accompagna a Roma nel 1504 ed il prelato sovrintende alla sua formazione, prima di ottenergli nel 1508 l’amministrazione del Vescovato di Ceneda (attuale Vittorio Veneto). Poi nel 1517 gli lascia il Patriarcato di Aquileia, ricuperando in cambio Ceneda, prima di cederlo successivamente al cadetto di Marino, Giovanni, che intende orientare alla carriera ecclesiastica. Nel 1522 Domenico partecipa ancora alla sistemazione di Marco, un altro figlio di Girolamo, dotandolo di 8 mila ducati per ottenere un posto nella Procuratoria di S. Marco.

Nei primi decenni del 16° secolo i componenti della famiglia Grimani raggiungono eminenti posizioni nella carriera politica e religiosa che vengono ad illustrare il prestigio sociale di una famiglia che dispone già di una solida fortuna. I Grimani si sforzano di dare continuità alla loro posizione di preminenza, preparando con cura la formazione e la carriera dei loro eredi. Questo innegabile successo collettivo presuppone una profonda solidarietà fra i membri e dei legami di parentela così stretti, tanto da poter affermare che l’ascensione dei Grimani è l’evidente risultato di una strategia familiare, tenace, meticolosa, frutto del lavoro di diverse generazioni.

Ciò non toglie comunque che a titolo individuale il cardinale Domenico ha giocato un ruolo di grande rilievo in questo successo: sostegno indefettibile di suo padre nelle ore difficili, ne è uno degli artefici della sua riabilitazione e del suo trionfo finale, mentre si rivela uno zio attento, generoso e disponibile nei confronti dei figli del fratello. In tal modo splendore già di per sé di rilievo del suo percorso personale, viene ad essere ulteriormente incrementato da questa azione efficace di elevazione sociale praticata nei confronti dei suoi parenti. Tuttavia manca a questa carriera una ultima consacrazione che il prelato ha auspicato invano. A più riprese in effetti egli crede a delle possibilità di diventare Papa e si attiva a tal fine. Mentre la riconciliazione veneto pontificale del 1510 lo proietta al rango dei primi cardinali della Curia, Grimani cerca nel 1513 di approfittare di questa situazione favorevole brigando, con scarso successo, per la successione di Giulio 2°, appena morto. All’improvviso la sua candidatura appare molto fragile: non solo rivalità e gelosie lo oppongono all’altro cardinale veneto del Conclave, Marco Corner, che chiaramente si guarda bene dal sostenerlo, ma anche e soprattutto, Imperiali e Spagnoli sono apertamente ostili alla sua elezione a causa della guerra che ancora vede opposti gli Asburgo alla Serenissima. In tale contesto il nome di Grimani raccoglie appena due suffragi ed sarà infine il cardinale Giovanni de’ Medici a raccogliere la tiara con il nome di Leone 10°.

La morte di questi avvenuta il 1° dicembre 1521, ravviva nondimeno le speranze di Domenico. Si trova a Venezia quando apprende la notizia del decesso del papa e si mette immediatamente in viaggio per Roma, nonostante la cattiva stagione. Grimani entra in Conclave da ammalato e deve poco dopo lasciarlo per curarsi, rimettendo ai suoi partigiani il compito di sostenere la sua candidatura, con un ulteriore fallimento. Il cardinale ha tra il seguito del papa defunto dei nemici determinati, che fanno del tutto per sbarragli la strada. In effetti si ha particolarmente timore che un Papa Grimani regni sulla Cristianità e governi lo Stato Pontificio, nello stesso momento in cui un altro Grimani, padre, è Doge della Serenissima: questo sarebbe come dare alla Repubblica di S. Marco un influenza smisurata e la maggioranza del Collegio cardinalizio non vuole assumersi la responsabilità di questo rischio. In conclusione il 9 gennaio 1522 viene eletto Adriano d’Utrecht, Vescovo di Tortosa in Spagna, che assume il nome di Adriano 6°. La delusione per Domenico è grande e egli decide di allontanarsi da Roma. Vi ritornerà solo un anno dopo, poco prima della sua morte, avvenuta il 26 agosto 1523, l’anno anche della morte di suo padre.

Conclusione

La storia di Domenico Grimani è prevalentemente quella di un grande prelato cattolico all’inizio dell’età moderna. Uomo del suo tempo per la sua cultura umanistica, egli incarna ed illustra l’onnipotenza di una Chiesa ricca e sovrana, prima delle lacerazioni della Riforma. Attraverso questo percorso individuale è tuttavia possibile discernere anche il destino collettivo di una famiglia che, riuscita a cumulare l’influenza politica, il potere religioso e la fortuna economica, riesce a consolidare la sua preminenza sociale per alcune generazioni, attraverso una combinazione abile e calcolata ed il mutuo sostegno dei questi tre elementi.

Infine la carriera di Domenico Grimani, che si sviluppa attraverso il corso tumultuoso delle relazioni fra Venezia e Roma, contribuisce alla finale positiva soluzione della disputa. La posizione che egli acquisisce nella Curia è testimone del ruolo fondamentale giocato dalla Serenissima, sia nei fragili equilibri politici della penisola, ma anche del peso che Venezia ha nello scacchiere del mondo cristiano. Ma tuttavia gli ostacoli insormontabili che il cardinale incontra nei suoi tentativi di ascensione al pontificato, evidenziano chiaramente anche l’instabilità politica dell’Italia del tempo e le numerose inquietudini e diffidenze, non sempre destituite di fondamento, che gli altri partners della politica italiana nutrono nei confronti della Serenissima Repubblica di S. Marco.

NOTA

(1) Dal latino ecclesiastico Commendare “affidare”. Godimento di entrate di un vescovato, di una abbazia o chiesa da parte di una persona alla quale sono affidate delle funzioni spirituali senza obbligo di espletarle.

 

Treccani, Dizionario biografico degli italiani 2002, Voce: Grimani

ELEONORA D’AQUITANIA

ELEONORA D’AQUITANIA

(Stampato su “Subasio” n. 1/12 del marzo 2004. Bollettino trimestrale dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi)

Donna e Regina dall’esistenza eccezionale! Fu la causa di numerosi conflitti ma anche una delle propugnatrici della letteratura cortese

Eleonora Duchessa d’Aquitania[1] fu una donna, una Regina, dall’esistenza straordinaria nella quale molto resta aureolato di mistero. Dipinta in generale come volubile ed ambiziosa all’eccesso, forse lo fu. Dopo il suo divorzio dal troppo timido Luigi 7° di Francia, attraverso il suo secondo matrimonio con Enrico Plantageneto di Normandia (1133 - 1189), essa fu la causa iniziale del lungo conflitto fra la Corona di Francia e quella d’Inghilterra nella Guerra dei Cent’anni. Ma agli occhi della storia essa rimane anche la regina dei Cantastorie in lingua d’oil (nord della Francia) e dei Trovatori occitani. E’ proprio a lei che si deve il fiorire in tutta l’Europa dell’immenso movimento della letteratura cortese, costruita intorno al mito celtico del Santo Graal.

Eleonora era l’ereditiera del potente Ducato d’Aquitania, che occupava la parte centro - meridionale occidentale della Francia. Nata a Poitiers fra il 1120 ed il 1122, a 15 anni, nel luglio 1137, le fecero sposare a Bordeaux, il Delfino di Francia, divenuto qualche giorno più tardi Luigi 7° a seguito della morte del padre. Come dono di nozze a questo Re che regnava veramente solo un territorio molto esiguo intorno a Parigi, la sposa portava invece in dote un enorme dominio: la Guyenna, la Guascogna, il Poitou, la Marche, il Limousin, l’Angoumois, il Perigord, la Santoinge ed altri territori, dei possedimenti a dir poco immensi, se confrontati con quelli del marito.

Si dice che il giovane Re ne fosse follemente innamorato, ma impacciato e quasi bloccato, tanto che non seppe in alcun modo soddisfare l’impetuosa giovenca che era Eleonora. Essa proveniva dalla razza bollente di suo nonno Guglielmo 9° d’Aquitania detto il Trovatore (1086 - 1127), autore di poemi che avevano cantato le lodi dell’amore e delle donne nella maniera più libera per quel tempo.

Dal suo arrivo a Parigi, la giovane sposa, già delusa, si scontra con un ambiente reputato rozzo e freddo. Luigi 7°, terribilmente geloso, fa cacciare il poeta Marcabru[2], giudicato troppo “vicino” alla Regina. Inoltre l’influenza che la regina esercita nella condotta degli affari irrita la Corte capetingia. Ad esempio il sostegno incondizionato che Eleonora apporta al contratto matrimoniale fra Petronilla, sua sorella, divide i grandi feudatari. Per di più essa convince il Re ad uno sfortunato intervento nella Champagne che si conclude con l’eccidio di più di 1000 persone, morte nell’incendio della chiesa di Vitry sur Marne appiccato per istigazione dello stesso Re. Duramente condannato da Bernardo di Chiaravalle[3], condizionato dai suoi confessori, attanagliato dalla sua estrema pietà, il giovane è costretto a prendere le distanze da Eleonora. Nonostante i consigli del suo fido consigliere Suger[4], torturato dai rimorsi dopo il massacro di Vitry e sotto la pressione del Papa, Luigi 7° si lancia nella 2^ Crociata, predicata nell’estate del 1146 da Bernardo di Chiaravalle. Parte nel 1147 per l’Oriente accompagnato dalla moglie e la crociata si tradurrà in un grave disastro. Ad Antiochia Eleonora ritrova suo zio, Raimondo di Poitiers[5] e dopo quest’incontro il dissidio della coppia diviene pubblico. Non si sa esattamente che cosa sia realmente successo ed a riguardo si è parlato molto di una relazione con lo zio. Sembrerebbe che Eleonora si sia lamentata di aver sposato un monaco e che la sua vita era piena di noia tanto che …. Rientrato in Francia dopo il fallito assedio di Damasco e senza le sue truppe, Luigi 7°, folle di gelosia, commette il gravissimo errore politico di far pronunciare il suo divorzio da Eleonora dal Concilio dei Beaugency per motivi di parentela. La sposa ripudiata nel marzo 1152 ha appena trent’anni.

I possedimenti dell’Aquitania in questo modo escono dai domini del Re di Francia !

Ridiventata una delle donne più corteggiate dell’epoca, la duchessa s’innamora di Enrico Plantageneto, di dieci anni più giovane di lei e lo sposa. Questi erede della Casa di Angiò, è esattamente l’antitesi di Luigi 7°. Focoso, ambizioso, colto, il suo carattere seduce completamente la donna. Insieme potranno essere dei conquistatori. Quando muore nel 1154 il Re d’Inghilterra, che aveva nominato Enrico erede al trono, la coppia non esita un istante a superare una pericolosa tempesta per traversare la Manica e per farsi coronare a Westminster il 28 febbraio 1155. Di nuovo Regina, ma d’Inghilterra questa volta, Eleonora si trova con il suo giovane sposo Enrico 2°, alla guida di uno dei più grandi regni d’Occidente. Sotto la Corona Plantageneta si trovano così riunite l’Inghilterra, la Bretagna, la Normandia e l’Aquitania, il cui avvenire è assicurato da numerosi discendenti. Eleonora, al massimo della gloria, può ora dare la misura delle sue capacità. Essa accarezza persino la speranza di vedere un giorno un suo discendente alla testa del regno dei Capetingi. Nel 1158 viene concluso un progetto di matrimonio fra il suo secondo figlio e la figlia del nuovo matrimonio di Luigi 7°.

Nel frattempo la ricchezza e l’efficace amministrazione dei sovrani anglo angioini e dei loro funzionari sbalordiscono l’Europa. Ma è soprattutto l’influenza culturale della corte di Eleonora che dà la sua impronta al secolo, favorendo il risveglio e l’espansione dell’immaginario dei Celti e di Re Artù, attraverso una moltitudine di opere poetiche, ispirate particolarmente dalla traduzione che il normanno Maistre Wace[6] ha realizzato dell’opera di Re Artù (Historia Regum Britanniae) di Goffredo di Monmouth.[7]

Questa epoca d’oro per la Regina non dura che un breve spazio di tempo. Il secondo matrimonio di Eleonora è altrettanto sfortunato del primo. Ma questa volta è la Regina che soffre delle numerose tresche amorose dello sposo. Questi in particolare è pubblicamente attratto dalle grazie della giovane e bella Rosamunda.

Separandosi dal marito la Duchessa, circondata dai suoi figli, stabilisce la sua corte a Poitiers, che trasforma in un incomparabile cenacolo artistico e poetico, facendolo diventare il centro della vita cortese e cavalleresca. Cristiano de Troyes[8] vi soggiorna e vi trova forse l’ispirazione del suo primo romanzo “Erec ed Enide”. Egli in seguito si invaghisce della figlia della Regina, Maria, “la gioiosa contessa della quale la Champagne si illumina” che, come la madre, ha il raro dono di suscitare la poesia intorno ad essa. E’ proprio per Maria de Champagne (1128 – 1190) che Cristiano scriverà quei romanzi di cavalleria che marcheranno per sempre l’immaginario collettivo dell’Occidente.

Eleonora da parte sua è ancora troppo focosa per contentarsi del suo ruolo di ispiratrice e di musa dei poeti. Non è certo facendo uccidere Rosamunda, così come hanno potuto raccontare all’epoca, che si vendicherà del suo sposo, ma fomentando, a partire dal 1173 la rivolta dei figli contro il padre. La natura eterogenea del regno Plantageneta ed il potere sempre più tirannico di Enrico 2°, spiegano da soli i problemi che verranno. Eleonora, la cui immagine verrà a poco deformata da calunnie, accusata di tutti i vizi, non tarderà a pagare la vendetta del marito. Catturata da un uomo di Enrico 2°, viene imprigionata in Inghilterra per ben dodici anni. Dopo la morte di Enrico 2° ed all’accessione al trono nel 1189 del suo figlio preferito, Riccardo Cuor di Leone (1157 – 1199), Eleonora ritrova la libertà. Nonostante i suoi 67 anni, infaticabile, dopo la partenza di Riccardo per la 3^ Crociata, si impegna a difendere l’integrità dell’eredità di suo figlio. Dimentica dell’età, non smetterà di percorrere l’Europa per cercare in Navarra la sposa promessa per il figlio o per portare il riscatto richiesto dall’Imperatore Enrico 6° d’Asburgo, Duca d’Austria per la liberazione di Riccardo.

Ma la morte di Riccardo, ferito a morte da un verrettone di una balestra durante un assedio, scuote dalle fondamenta la fortuna dei Plantageneti che la stessa Eleonora aveva largamente contribuito ad edificare. Cosciente dei limiti del suo ultimo figlio, Giovanni senza Terra (1166 - 1216), ella non esita ad uscire dal suo ritiro, quando ha quasi 80 anni, per cavalcare attraverso i suoi stati per riprenderli in mano, in modo che accettino il nuovo Re. Si recherà perfino a rinnovare il suo giuramento feudale per l’Aquitania nelle mani del Re Filippo Augusto di Francia ed a far sposare una delle sue nipoti, Bianca di Castiglia, (1188 - 1252) con il Delfino di Francia, come pegno di riconciliazione fra le due corone.

Allorché muore, nel 1204, presso l’Abbazia di Fontevrault[9], l’azione di smantellamento della potenza anglo normanna in terra di Francia è appena iniziata.

Eleonora, Duchessa, due volte Regina, si era spenta a circa 82 anni al termine di una vita i cui sussulti rappresentano una vera e propria epopea. La Leggenda dei Cavalieri della Tavola Rotonda risuona ancora del suo nome come di quello dei suoi figli. La sua tomba, che si può ammirare nel coro della chiesa abbaziale di Fontevrault, la rappresenta con un libro in mano. Questa allegoria eterna il ricordo di quella che ha permesso la nascita della letteratura cortese, ineguagliato luogo di incontro fra la dama ed il cavaliere, della letteratura francese e successivamente, attraverso la corte di Palermo, della letteratura italiana.

 

[1] 1122 - 1204. Figlia di Guglielmo 10° d’Aquitania (1099 - 1137) e di Aenor di Chatellerault

[2]Originario della Guascogna, 1127 - 1148. Uno dei primi trovatori storicamente documentati

[3] 1090? - 1153, Monaco di Citeaux (Cistercense) ed Abbate di Clairvaux (Chiaravalle)

[4] Abate di S. Denis (Dionisio) 1081 - 1155

[5] 1136 - 53. Principe d’Antiochia

[6] Jersey, 1100 ? 1174; poeta anglo normanno, autore del Roman de Brut e del Roman de Rou dove viene descritta la battaglia di Hastings

[7] Chierico normanno nato nel Galles nel 1100, Vescovo di Asaph nel 1152; morto ad Asaph nel 1152

[8] morto nel 1185 circa: poeta alla corte di Maria de Champagne, autore tra gli altri del “Lancelot” e del “Roman de Perceval” (Racconto del Graal)

[9] monastero doppio, uomini e donne, fondato dal beato Roberto d’Arbrissel nel 1101, caro ai Duchi d’Aquitania, dove sono sepolti Eleonora e Riccardo Cuor di Leone

Dove è sepolto Cristoforo Colombo?

DOVE E’ SEPOLTO CRISTOFORO COLOMBO ?

(stampato sulla pag. 21 del quotidiano CRONACA di Piacenza, del 3 gen 2005)

Per strano che possa essere il dubbio sulla sua sepoltura sussiste ancora ! Le spoglie del navigatore, spostate senza sosta, potrebbero trovarsi, sia a Siviglia, sia a Santo Domingo. Delle analisi in corso sull’DNA potrebbero tranciare definitivamente sulla questione.

Dove si trova il corpo di Cristoforo Colombo ? A Siviglia o a Santo Domingo ? Da circa un secolo la controversia resiste. Per chiudere la questione una volta per tutte, dei ricercatori spagnoli hanno ottenuto l’autorizzazione a procedere ad una esumazione parziale del corpo del navigatore a Siviglia per poter arrivare ad una comparazione del DNA dei supposti resti di Colombo con quelli accertati del suo secondo figlio. Tale esumazione ha avuto luogo nel giugno 2003 ed i risultati definitivi delle analisi, effettuati presso l’Università di Granada, dovrebbero essere conosciuti fra non molto. Ma perché tutti questi dubbi ? Ciò è dovuto al fatto che le spoglie dell’esploratore hanno sofferto delle vere e proprie vicissitudini

Peregrinazioni transatlantiche del corpo di Colombo

 

Cristoforo Colombo muore a Valladolid in Spagna il 20 maggio 1506. I suoi funerali vengono celebrati nella Cattedrale di Santa Maria Antigua e sebbene egli avesse espressamente richiesto per testamento di essere sepolto in America, il suo corpo viene inumato nella Cripta del Convento dell’Osservanza, a Valladolid.

La soluzione adottata viene considerata provvisoria, perché, pur volendo rispettare le volontà del defunto, non esisteva ancora nelle Americhe una chiesa degna di accogliere colui che aveva dato alla Spagna il più grande regno del mondo.

Nel 1513 su esplicita richiesta di Maria Isabella, moglie di Diego, figlio primogenito di Colombo, le spoglie dell’ammiraglio vengono trasferite con editto reale a Siviglia. Nel corso di una solenne cerimonia il corpo di Colombo viene deposto presso il Convento di Santa Maria de las Cuevas, posto sulla riva destra del Guadalquivir, di fronte a Siviglia, al quale nel 1526 sarà affiancato quello del figlio Diego.

Finalmente il 2 giugno 1537, su richiesta di Maria di Toledo, un decreto reale autorizza la salma di Colombo ad attraversare l’Atlantico per essere definitivamente inumato nella Cattedrale di Santo Domingo, a destra dell’altare maggiore. Per lungo tempo nessuno si preoccuperà più di questa sepoltura, almeno sino al 1795, quando gli Spagnoli, per effetto del Trattato di Basilea, devono cedere alla Francia il territorio dominicano.

Il 21 dicembre 1795, infatti, nel corso di una cerimonia ufficiale, viene provveduto al trasferimento delle spoglie di Colombo dalla nave francese “La Decouverte”, che le trasportava, al vascello spagnolo “San Lorenzo”, che ha il compito di riportarle in terra iberica e pertanto, contrariamente a quanto spesso affermato, la salma di Colombo non è stata trasferita in tutta fretta per sottrarla all’occupazione francese.

La tappa successiva del viaggio é l’Avana, dove il feretro arriva il 15 gennaio 1796. Quattro giorni più tardi Colombo viene temporaneamente tumulato nella Cattedrale dell’Avana, dove resterà per un secolo intero. Infatti il 26 settembre 1898, con l’indipendenza di Cuba, a seguito della guerra ispano - americana, il corpo deve essere spostato ancora una volta.

Ed é proprio in questo modo che, nel 1899, le presunte spoglie mortali dell’Ammiraglio ritornano a Siviglia, dopo un’assenza di 362 anni. Nella cattedrale viene edificato nel 1902 un apposito monumento dedicato al navigatore ed i resti mortali vengono riuniti in un piccolo cofanetto all’interno del sarcofago. Tutto lascia pensare che le spoglie di Colombo si trovino effettivamente a Siviglia.

Tuttavia, nel 1877, nella Repubblica Dominicana, degli operai, durante dei lavori all’interno della Cattedrale di Santo Domingo, fanno una strana scoperta: una cassa di piombo contenente 13 ossa grandi e 28 più piccole con l’iscrizione «Illustre grand’uomo Don Cristobal Colon». Le autorità della Repubblica Dominicana giungono rapidamente alla conclusione che potrebbe trattarsi di vere e proprie reliquie di Colombo e che forse nel 1795 potevano essere stati esumati altri resti.

Uno scheletro incompleto e mal conservato

 

Da allora nasce la controversia che imperversa tuttora. Nel  1992, le reliquie di Santo Domingo vengono ufficialmente trasferite in un gigantesco monumento : il «Faro di Colombo», costruito per l'occa­sione; l'edificio fatto a forma di croce, dal costo di svariati milioni di dollari, aveva lo scopo di commemorare il 500° anniversario della scoperta delle Americhe da parte del marinaio ligure.

In tale contesto e per non lasciare ancora a lungo irrisolto il dilemma, viene appunto deciso di effettuare delle analisi del DNA sui resti conservati a Siviglia, in modo da poterli comparare con quelli del suo secondo figlio Fernando, un ecclesiatico i cui resti mortali non hanno mai lasciato la Cattedrale di Siviglia.

I prelievi ufficiali vengono effettuati agli inizi del giugno 2003 sotto la direzione del professore Josè Antonio Lorente, Direttore del laboratorio d’indentificazione genetica dell’Università di Granada, alla presenza di esperti delle due nazioni implicate nella controversia, di due discendenti di Cristoforo Colombo, Jaime ed Annunciata Colon de Carvajal e persino di un rappresentante dell’FBI americano.

Il drappeggio che copriva la tomba di Colombo nascondeva una porta a forma di scudo, dietro la quale si trovava un cofanetto riportante la seguente iscrizione: “Ecco le ossa di Cristoforo Colombo, primo ammiraglio del Nuovo Mondo”.

I primi esami effettuati non hanno consentito di sciogliere i dubbi : lo scheletro é risultato danneggiato dai numerosi viaggi ; inoltre, mal conservato, sembra essere incompleto e forse alcune ossa sono rimaste a Santo Domingo o … altrove.

Alcuni studiosi e ricercatori hanno persino avanzato l’ipotesi che il corpo di Colombo non abbia mai lasciato il Convento di Valladolid, sulle cui rovine oggi è stato costruito un albergo.

 

 

Colombo aveva ordinato che fosse sepolto assieme alle sue catene

I Francescani del Convento di Valladolid non avrebbero potuto preferire di conservare il corpo di questo grande e mistico uomo, che si era votato a Dio ed alla Vergine Maria, piuttosto di vederlo partire dal loro ambito ? Insomma non avrebbero potuto dare un altro corpo in occasione del primo viaggio a Siviglia?

Di fatto un piccolo dettaglio, negletto dai ricercatori e dagli studiosi, potrebbe dare nuova forza alla ancora irrisolta controversia. Secondo una biografia di Cristoforo Colombo, pubblicata in Francia nel 1862, sembrerebbe che l’ammiraglio sarebbe stato inumato, su sua esplicita richiesta, con le catene che egli portava in occasione del suo sfortunato ritorno in Spagna nel 1498: di fatto, rimpiazzato come Vice Re delle Indie da Francesco Bobadilla, questi lo aveva fatto arrestare, mettere ai ferri e fatto rientrare in queste condizioni in Spagna, per essere poi liberato, al suo arrivo nella penisola iberica, dai Re Cattolici.

Questo importante dettaglio era stato peraltro segnalato anche da Fernando Colombo in un opera da lui pubblicata a Venezia nel 1571: «Egli aveva preso la decisione di conservare queste catene come delle reliquie, a testimonianza del prezzo che egli aveva ricevuto in cambio dei suoi servigi. Egli le aveva infatti conservate. Io le ho viste qualche tempo dopo nella sua camera, dove le aveva appese ed egli aveva inoltre disposto che le stesse fossero deposte nel suo sepolcro».

 Insomma al capitolo non ancora risolto del DNA si aggiunge quello delle catene di ferro!  C’è da scommettere che la telenovella cresciuta intorno alle spoglie di Colombo non mancherà di riservare in futuro ancora qualche altro episodio.

 

Gianni Granzotto, Cristoforo Colombo, Milano, Mondadori, 1984

Eresia e ortodossia

ERESIA ed ORTODOSSIA

ovvero lo SCISMA del 1054

 

(Pubblicato su Impero Romano d’Oriente del 3 gennaio 2004)

 

All’interno della chiesa cristiana, il problema della definizione dell’ortodossia, o della «retta fede», porta, nell’11° secolo, dopo numerose condanne reciproche per eresia, alla rottura fra la Chiesa di Roma e quella di Bisanzio o d’Oriente.

 

Nel momento in cui il papato si è dato come missione il dialogo o la riconciliazione fra le differenti chiese del cristianesimo, può risultare di un certo interesse effettuare un riesame, dal punto di vista dell’ortodossia, delle cause della prima grande frattura di questa religione, passata alla storia come lo Scisma del 1054. In effetti la rottura prodottasi nel mondo cristiano nel 1054 è il risultato di una crisi ben più profonda protrattasi per diversi secoli, dal 6° al 10°, e che si è incentrata sulla definizione dell’ortodossia. Il problema della definizione di quella che doveva essere la “Retta Fede” nascondeva in realtà una vera e propria lotta di potere e di supremazia fra Oriente ed Occidente. La propagazione e la diffusione dell’ortodossia sono sempre andati di pari passo con l’espansione territoriale delle potenze politiche dell’epoca; in ogni caso le resistenze all’ortodossia, immediatamente bollate come eretiche dai detentori del potere, avevano nondimeno alla base aspetti dogmatici, ma anche risvolti sociali e politici non irrilevanti.

Che cos’é l’ortodossia

L’ortodossia, che significa “Fede dritta, retta” (dal greco ortos: verticale), è un insieme di dogmi, il cui credo è giudicato necessario per vivere pienamente la fede di Gesù Cristo, la sola via per la salvezza eterna. In effetti la definizione dell’ortodossia si incentra nel Cristo Salvatore, ma la fede cristiana è stata elaborata e diffusa da Paolo apostolo ed illustrata nei quattro Vangeli, giudicati dalla Chiesa come Santi. Il Cristo, Verbo incarnato, si è fatto uomo per portare all’umanità la salvezza e la parola di Dio. Credere in questa parola significa avere una fede retta. Il problema nella sostanza sta nel fatto che il Cristo non ha lasciato un trattato teologico: la sua predicazione è stata trascritta attraverso gli Evangelisti e per questo umanamente soggetta da interpretazioni. Sono pertanto le interpretazioni dei testi santi che possono essere o meno ortodosse. Da qui il problema fondamentale: quale interpretazione delle Scritture è ortodossa e quale no lo è ? Chi è che stabilisce che cosa è ortodosso o eterodosso?

L’opera dei Concili

 

A partire dall’Imperatore Costantino il Grande (306 - 337) e dalla riunione del 1° Concilio Ecumenico a Nicea nel 325, sono le assemblee dei vescovi che decidono riguardo l’ortodossia e conseguentemente sulla condanna delle dottrine eterodosse. Le loro decisioni sono ritenute applicabili non solo all’insieme dei Cristiani ma al mondo intero (dal greco oikumené: universo, terra abitata). In tal modo a Nicea viene condannato a grande maggioranza l’Arianesimo, dottrina che subordinava il Cristo a Dio. Nella pratica e dopo Costantino, l’Imperatore bizantino si considerava come un “vescovo dell’esterno” e partecipava anch’egli direttamente alla definizione dell’ortodossia. In tal modo è proprio l’Imperatore bizantino che, dopo aver adottato personalmente la dottrina elaborata (credo) dal Concilio di Calcedonia del 451, la impone a tutto il suo Impero, proprio perché fede ortodossa. In occidente sono i Re barbari, che hanno fondato le loro chiese nazionali, quelli che convocano i Concili nazionali, partecipando anch’essi largamente alla definizione dell’ortodossia.

In Spagna, ad esempio, il re visigoto aveva l’abitudine di riunire periodicamente dei concili nella Cattedrale di San Leucadia a Toledo, capitale del regno. Ben 15 Concili vengono indetti a Toledo dal 589 al 693, vegliando instancabilmente affinché i preti, ai quali era stato distribuito un libretto contenente indicazioni pratiche e dogmatiche, rimanessero nella retta fede. Nel 633 il Re Suintula fu persino detronizzato dal Concilio e rimpiazzato da Sisenardo, perché colpevole di essersi allontanato dall’ortodossia. All’inizio dell’8° secolo, il Papa, subordinato e dipendente per la sicurezza da Costantinopoli, non era ancora il garante dell’ortodossia come lo è oggi. Anzi il più delle volte era obbligato ad accettare le decisioni dottrinali bizantine senza neanche contraddirle anche perché, in genere, non conosceva il greco.

 

Sulla Natura del Cristo

 

La definizione dell’ortodossia riguardava essenzialmente la natura del Cristo. In effetti discutere su chi fosse il Cristo in corpo e spirito, equivaleva a pronunciarsi sull’ideale umano, equivaleva alla elaborazione di una regola di vita, promessa di salvezza eterna. D’altronde tutti i Cristiani del medioevo non erano perfettamente d’accordo sulla natura del Cristo. Alla dottrina uscita dal Concilio di Calcedonia, quella considerata ortodossa dall’Imperatore di Costantinopoli e dal Papa di Roma, si opponevano una miriade di concezioni e dottrine diverse. I “Calcedoniani”, considerando che il Cristo era consustanziale al Padre ed allo Spirito Santo, concludevano che Egli era completamente sia uomo che Dio e che quindi possedeva due nature distinte ma unite in una sola persona. I “Nestoriani”, appoggiandosi alle tesi di un Patriarca del 5° secolo, Nestorio, vedevano nel Cristo due nature, ma anche due persone distinte Il Nestorianesimo venne condannato dal Concilio Ecumenico di Efeso del 431. Per reazione al nestorianesimo (ed ai Difisiti)ed appoggiandosi sui lavori di Eutichio, Archimandrita a Costantinopoli, i “Monofisiti” avanzavano la tesi che il Cristo non avesse che una sola natura, divina ed incorruttibile, da prima della sua incarnazione. Anche il Monofisismo viene condannato dal Concilio di Calcedonia del 451.

All’inizio del 7° secolo, l’Occidente non era esente da queste controversie teologiche. L’Arianesimo era ancora molto diffuso. I Longobardi, giunti in Italia del nord alla fine del 6° secolo, erano in gran parte rimasti seguaci di Ario. Per essi il Cristo era il figlio di Dio ma non era consustanziale al Padre, cosa che implicava un concetto di “subordinazione”, inaccettabile per il Papato, che nel tempo opera notevoli pressioni, attraverso le principesse longobarde e bavaresi, come Teodolinda, per ottenere la conversione di principi di Pavia

Una posta in gioco politica

L’esigenza di propagare e di diffondere l’ortodossia rientrava nella sfera delle competenze del ruolo stesso dei sovrani ed in modo particolare di quello degli imperatori bizantini, che si facevano chiamare Isapostolos, cioè “uguali agli apostoli”. L’imperatore bizantino aveva non solo il dovere di convertire il suo popolo ma anche quello di convertire tutti i popoli della terra al cattolicesimo, compito e responsabilità di cui avrebbero dovuto comunque rendere conto nel Giudizio Finale. A questo imperativo escatologico - condurre i popoli alla salvezza eterna - si aggiungeva peraltro un imperativo molto più prosaico e di natura squisitamente politica. In tal modo di fronte all’aggressione persiana, l’Imperatore Eraclio (610 - 641), dovendo far prevalere l’unione sulle divisioni interne, impiega maldestramente l’ortodossia come un mezzo politico. Consigliato dal Patriarca Sergio, egli abbandona il credo di Calcedonia per avvicinarsi ai dissidenti “monofisiti”, dichiarando che il Cristo non aveva che una sola volontà e dando così origine al “Monotelismo”. Questo rimettere in discussione unilateralmente l’ortodossia ufficiale provoca una violenta opposizione da parte dei “Diotelisti”, i seguaci della doppia volontà del Cristo.

Massimo il Confessore, diotelista, si rivolge alla sola autorità morale in grado di tenere testa a Bisanzio: il Papa Martino 1°. Questi convoca nel 649 un Concilio nel Laterano, nel corso del quale viene condannata questa nuova ortodossia imperiale. La crisi del monotelismo, che ha diviso più di quanto non abbia unificato, contribuisce a poco a poco a far scivolare impercettibilmente l’ortodossia da Costantinopoli verso Roma, che in tal modo riesce ad affermare anche la propria indipendenza di giudizio da Bisanzio. Il successo ottenuto costa nondimeno la vita al Papa Martino, arrestato, torturato e giustiziato per ordine dell’Imperatore. Dopo il fallimento del monotelismo, condannato anche dal 6° Concilio di Costantinopoli del 681, l’Oriente bizantino viene sconvolto da una nuova crisi: la crisi iconoclasta, legata essenzialmente al culto delle immagini sante.

I Carolingi contribuiscono alla liberazione del Papato dalla pressione bizantina

La dottrina Iconoclasta viene decretata nel 730 dall’Imperatore Leone 3° e ribadita da suo figlio Costantino. Ma la sua vita sarà molto contrastata. Abolita a partire dal 787, viene quindi ristabilita dall’Imperatore Leone 4° nell’813 e definitivamente condannata l’11 marzo 843 con la “Domenica dell’Ortodossia”, sotto la reggenza della Basilissa Teodora. Questi ripetuti cambiamenti di opinione nel campo dogmatico, contribuiscono a danneggiare notevolmente la credibilità e l’autorità morale di Costantinopoli ed in tal modo la posizione ed il ruolo di “garante” dell’ortodossia si sposta sempre di più verso ovest. Il Papa, rifiutando di farsi coinvolgere nelle dispute bizantine iconoclaste, arriva a condannare, sorretto dalla sicurezza politica che gli viene fornita dalla potenza dei Carolingi, non solo l’iconoclastia, ma anche la venerazione delle immagini, riconoscendo a quest’ultime un mero ruolo didattico. Di fatto il Regno di Carlo Magno (768 - 814) contribuisce alla completa liberazione del Papato dalla pressione bizantina, non fosse altro per la sola presenza di truppe carolingie in Italia ed a Roma. Al sostegno militare e politico dei Carolingi, il Papato ricambia con un sostegno morale e spirituale al Sacro Romano Impero. Ormai tutte le campagne e le conquiste di Carlo Magno si accompagnano a conversioni sulle quali la Santa Sede gode di piena libertà d’azione,

Queste conversioni però diventano anche oggetto di aspre lotte d’influenza fra Roma e Costantinopoli, poiché la conversione di un popolo alla fede ortodossa creava il più delle volte le premesse per un potenziale alleato. A Costantinopoli i principi convertiti entravano con una grande cerimonia nella grande famiglia cristiana e l’Imperatore bizantino diveniva il padrino del nuovo battezzato. In tal contesto l’integrazione definitiva della Bulgaria nella metà del 10° secolo nella sfera di obbedienza bizantina, risulterà propedeutica alla sua successiva integrazione politica nel 1019.

Dottrine già represse possono di nuovo svilupparsi

 

Islam ed eresie

L’ortodossia come arma politica era pertanto una delle ragioni essenziali della sua propagazione, ma questa azione va incontro a numerose resistenze. Di fatto l’invasione araba del 7° secolo impedisce a Costantinopoli di proseguire i suoi sforzi per guadagnare all’ortodossia i Cristiani d’Egitto o dell’Asia Minore. La crisi del 7° secolo rende ormai chiaramente evidente a tutti quanto l’azione e la pressione politica diretta fosse indispensabile ai fini della propagazione della retta fede. In questo momento di crisi molte dottrine, sino a quel momento represse dal potere bizantino, possono di nuovo, entro certi limiti, riprendere a svilupparsi nell’ambito della dominazione mussulmana. In tal modo i nestoriani, seguendo i mercanti arabi, arrivano a convertire alla loro fede, verso la metà dell’8° secolo, dei Turchi della Transossiana e fondare persino un vescovato a Samarcanda, la loro capitale. I Nestoriani, tra l’altro, risultano anche i cristiani più graditi ai Califfi, nella misura in cui essi ricoprono sempre più di frequente la carica di medici di corte. Al contrario i seguaci ortodossi del credo di Calcedonia diventano oggetto di numerose repressioni, in quanto il potere mussulmano li accusa di essere delle spie al servizio di Costantinopoli. In tal modo l’ortodossia bizantina viene deliberatamente perseguitata in vari modi, ed a partire dal 9° secolo le conversioni all’Islam si moltiplicano anche per sfuggire alla Djizia, una tassa speciale pro capite riservata ai Dhimmi, cioè ai Cristiani.

In Occidente e più in particolare in Spagna, vedono la luce due tendenze simultanee e contraddittorie riguardanti l’ortodossia. Da un lato, attratti dalla civiltà e dalla religione mussulmana, dei cristiani si convertono all’Islam o quanto meno integrano nell’ortodossia cattolica, più o meno coscientemente, degli elementi tratti dall’Islam. In tale contesto particolare si sviluppa l’eresia “adozionista”. Secondo Felice d’Urgell, Il Cristo era il figlio adottivo di Dio, rinnegando in tale maniera la consustanzialità del Padre e del Figlio. Questa eresia viene condannata dal Concilio di Francoforte del 794 e fornisce a Carlo Magno il pretesto per intervenire negli affari del Regno delle Asturie di Alfonso 2°. Dall’altro lato ed a fronte di questa diluizione dell’ortodossia, alcuni cristiani di Spagna reagiscono con determinazione, praticando il martirio volontario, oggi molto in voga nell’Islam. Essi ingiuriavano pubblicamente l’Islam, cosa che comportava automaticamente la loro esecuzione per decapitazione.

Nuove eresie si sviluppano fra i cristiani

Tuttavia l’ortodossia non viene messa a dura prova solamente nelle terre dell’Islam. Nnuove eresie, con origini e nature diverse, si sviluppano nel seno della Cristianità e tutte rimettono sostanzialmente in discussione l’ortodossia. In Oriente i Pauliciani, dal nome di San Paolo, hanno una interpretazione spiritualista della Bibbia a tendenza manichea. Per essi ci sono due divinità: un Dio severo dell’Antico Testamento ed un Dio buono del Nuovo Testamento; essi rifiutano il culto della Vergine e considerano che Maria é la Gerusalemme celeste nella quale Gesù è entrato da precursore. Essi ricusano anche il culto della croce, strumento di supplizio ed intendono per “croce” Gesù con le braccia aperte. I pauliciani avevano costituito un piccolo stato in Asia Minore, da dove effettuavano dei raids contro i villaggi bizantini. La loro capitale Thepriké viene conquistata con la forza nell’878 e l’eresia debellata. Di fronte alla esagerata accumulazione di ricchezze da parte della Chiesa, si sviluppa nella penisola balcanica l’eresia Bogomila. Anche’ssa professa due divinità ed assimila i preti ai farisei, ricusando la validità dei sacramenti. I Throndraki, per i quali Dio è prima di tutto Amore, praticavano invece una vita in comune. Per essi ogni uomo può definirsi Gesù, in quanto questi era stato scelto dallo stesso Dio fra gli uomini.

Un’ultima ondata di eresie tocca direttamente intorno all’anno mille ed in maniera differente sia l’Oriente che l’Occidente. Tutte queste hanno come radici comuni la riforma monastica che crea per conseguenza un diffuso clima penitenziale nella società dell’epoca. Questo è il periodo in Italia dei Camaldolesi di San Romualdo e della ripresa dell’eremitismo. L’eresie che si sviluppano ad Arras, a Monforte nel 1025, hanno in comune il disprezzo del corpo; gli eretici di Orleans del 1022 affermano che l’uomo è cattivo per natura, che il perdono dopo il peccato è impossibile, che il battesimo non apporta la Grazia, che la consacrazione delle ostie non ha alcun effetto. Il rogo viene quasi di norma a sanzionare tutte queste prese di posizione. Per contro in Oriente l’eresia professata da Eleuterio, affermava, come in Occidente, che la natura umana è fondamentalmente cattiva, ma differiva nelle sue conseguenze pratiche: per i seguaci di questa eresia, l’unione con lo sposo celeste veniva assimilata all’unione sessuale. Un monaco, dopo un anno di astinenza, poteva unirsi con due donne; peraltro era anche accettato colui che per ricercare la propria salvezza, si castrava. Pratiche strane, condannate come eretiche e scandalose.

Una difficile formulazione

La definizione dell’ortodossia si è da sempre scontrata con una molteplicità di interpretazioni della Bibbia. A fronte dell’impossibilità di spiegare attraverso l’ausilio della sola ragione l’ortodossia, i responsabili politici e religiosi sono stati costretti a sceglierne una (in modo arbitrario), ma da quel momento l’ortodossia passa al servizio di quelli che la elaborano e la sua propagazione e diffusione divengono degli strumenti e delle sfide politiche e religiose. In tale contesto l’ortodossia si è dovuta confrontare all’esterno della Cristianità con l’Islam ed il paganesimo ed al suo interno con le concezioni cristologiche eterodosse, con le eresie, senza parlare del Giudaismo. L’Oriente e l’Occidente, in teoria d’accordo sull’ortodossia definita a Calcedonia nel 451, hanno vissuto il Cristianesimo in maniera sempre più diversa. Questa pratica diversa della religione, messa poi pienamente in luce dallo Scisma del 1054, giunge persino a rimettere in discussione la stessa ortodossia delle due cristianità, per effetto della loro storica reciproca diffidenza. Esattamente cento cinquant’anni più tardi, dallo strappo del 1054 il divorzio fra le due chiese è ormai consumato. In effetti il vero scisma ha inizio a partire dal 1204 ed è la risultante dello sviamento della 4^ Crociata dei latini e della presa di Costantinopoli. Alla separazione fra Cristiani d’Oriente e d’Occidente si aggiunge nel 16° secolo un’altra separazione ancora più brutale fra cattolici e riformati. Se però l’unità d’Europa in costruzione ha potuto superare quest’ultimo ostacolo religioso nato del 1500, il processo di unificazione in atto non sembra ancora, a parte la Grecia, avere superato la frontiera fra l’Europa cattolica e protestante da un lato e quella ortodossa dall’altro.

Massimo Iacopi

Riepilogo cronologico

Eresia di Nestorio, condannata nel 431;

Eresia Monofisita, condannata nel 451;

Eresia Monotelista, condannata nel 681;

Eresia Adozionista, condannata nel 794;

Disputa Iconoclasta, terminata nell’843;

Eresia Pauliciana, vinta ed estirpata nell’879;

Fra le eresie dell’anno Mille, l’Eresia Bogomila sopravvive in Bulgaria per tutto il Medioevo e contribuisce allo sviluppo del Catarismo.

BIBLIOGRAFIA

                                                            

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  2. Mordillat et J. Prieur, Jésus après Jésus. L'origine du christianisme.- Paris, Ed. du Seuil, 2004.- 386
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