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IACOPI DISCENDENZE E STORIA

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Bizantine al potere

BIZANTINE AL POTERE

(Pubblicato su Impero Romano d’Oriente - giugno 2007)

L’Impero bizantino offre un curioso terreno di osservazione sulla gestione potere al femminile. Ritratto di Imperatrici senza dolcezza.

Nell’Impero bizantino, erede dell’Impero romano, le donne hanno occupato spesso il primo posto. Esse venivano riconosciute come “Imperatore dei Romani”, in quanto, all’epoca, il potere si declinava al maschile, a prescindere dalla natura di colui che l‘esercitava.

In tale contesto la questione di verificare se la pratica del potere esercitato dalle donne nell’Impero si sia tradotta in un approccio differente, marcato da maggiore umanità, più sensibilità, più di indulgenza non ha ragione di essere. In effetti la donna al potere di Bizanzio è riconosciuta ed accettata nella misura in cui mostra gli … attributi, ovvero delle qualità virili !

Con questo lavoro ci ripromettiamo di esaminare la pratica del potere attraverso tre figure femminili che hanno profondamente marcato il loro tempo ed hanno richiamato l’attenzione dei cronisti: la prima Teodora, sposa dell’Imperatore Giustiniano 1° nel 523, Irene, l’autocrate dal 797 all’802 ed infine la seconda Teodora, Imperatore dall’842 all’856.

Queste tre donne presentano certamente dei punti in comune, ma hanno esercitato il potere in maniera differente: la prima in qualità di sposa, mentre le altre due in qualità di imperatore e d’autocrate.

La prima Teodora ha richiamato l’attenzione del cronista Procopio, un suo contemporaneo, che ne redige un curioso antipanegirico nella sua celebre “Storia Segreta” (1), a sua volta in forte contrasto con le “Guerre”, panegirico scritto in gloria dell’Imperatore Giustiniano.

Teodora nasce per alcuni in Siria, per altri a Creta. La sua famiglia si trasferisce in seguito a Costantinopoli, dove suo padre, un certo Akakios, ricopre la carica di Maestro degli Orsi. Alla sua morte egli lascia la moglie e tre figlie, fra le quali Teodora, nella più grande indigenza. Non appena Teodora raggiunge l’adolescenza, viene spinta dalla madre sulla scena della vita. Essa diventa una cortigiana, vendendo la sua bellezza e mostrandosi nuda senza alcun pudore. In tal modo essa ha l’opportunità di incontrare il nipote dell’Imperatore Giustino, Giustiniano, che aveva circa 38 anni. Teodora si trovava nella pienezza della sua bellezza. Disponeva di una grazia naturale eccezionale, di un bel volto equilibrato e degli occhi molto espressivi ed inoltre mostrava una grande finezza di spirito ed un umore decisamente allegro. Tutti questi tratti del personaggio sono ancora visibili nel celebre mosaico della Chiesa di S. Vitale a Ravenna.

Il nipote dell’Imperatore, colpito dal suo fascino, la prende per amante. Non volendola però mantenere in questa condizione, Giustiniano ottiene dall’Imperatore Giustino, suo zio, l’autorizzazione a sposarsi con l’antica cortigiana nel 523. Dopo la morte di Giustino, avvenuta nel 527, Teodora e suo marito, l’Imperatore Giustiniano 1°, vengono solennemente incoronati e la donna riceve il diadema imperiale e le acclamazioni della folla nell’ippodromo. La nuova basilissa, disponendo di uno spirito limpido ed acuto e di una grande fermezza di carattere, occuperà per circa 22 anni un ruolo particolarmente importante nel governo dell’Impero. Teodora arriverà a scrivere che “L’Imperatore non decide nulla senza aver sentito prima il mio consiglio” (2). Senza essersi particolarmente distinta per la sua ferocia, Teodora ha mostrato durante il suo potere una certa propensione alla durezza ed un vivo spirito di vendetta nei confronti dei propri nemici. Essa sapeva perfettamente che il potere si esprime prima di tutto con la fermezza. L’autocrazia di Teodora non conosce limiti, manifestandosi in particolar modo con una attenzione morbosa al rispetto dell’etichetta. Nei suoi spostamenti si fa accompagnare da un numeroso seguito, formato da membri dell’aristocrazia, da una guardia e da uno stuolo di servitori per più di 4 mila persone !!.

Nei momenti difficili Giustiniano può sempre contare sul fermo sostegno di Teodora, specialmente in occasione della Sommossa della Nika nel gennaio 532. “Se anche non ci sono speranze di salvezza al di fuori della fuga, io no fuggirò !” - queste sono le parole che Teodora rivolge al marito, che ipotizzava la possibilità di abbandonare la sua Capitale - “Colui che è stato incoronato con il diadema imperiale non deve temere la sua sconfitta. Se tu vuoi fuggire, parti ! Tu ne hai i mezzi, le navi sono pronte. Ma io rimango, io amo questo vecchio detto: la porpora è il miglior sudario  !!” (3).

Sul piano religioso Teodora era segretamente la protettrice del Monofisismo contro il Patriarcato (4). Giustiniano e Teodora non avranno prole, ma nessuno dei cronisti, molto attenti alle vicende prematrimoniali di Teodora, specialmente Procopio, non potranno citare neanche un esempio di condotta dubbiosa dopo il suo matrimonio. Per contro Teodora manifesta spesso il suo sostegno alle donne colpite dalla disgrazia. Grazie a lei, Bisanzio si mostrerà molto più clemente dell’Occidente nella sua legislazione femminile. Le legge bizantina permette alle donne di ereditare beni, autorizza il divorzio e punisce i seduttori, assimilati a dei criminali. Le case di piacere della Capitale vengono chiuse, i loro tenutari e prosseneti esiliati e per quanto concerne le prostitute viene assicurata la loro protezione e la loro rieducazione in un monastero specificamente concepito per tale esigenza.

L’influenza di Teodora rimane rilevante fino alla sua morte il 28 luglio 584 e Giustiniano rimane profondamente colpito dalla perdita di quella che considerava come “un dono di Dio”, parafrasi del suo nome.

Questa donna eccezionale ha profondamente marcato il regno di Giustiniano. L’esperienza acquisita nei bassi fondi di Costantinopoli le avevano dato il senso della realtà del potere e la facevano riflettere e valutare il destino unico che le era stato riservato. La donna sapeva che la pace dell’Impero dipendeva dalla capacità della coppia imperiale di federare in sé stessa le diversità delle Chiese. Fino a quando Teodora rimane in vita la pace religiosa dell’Impero rimane assicurata. La coppia imperiale riusciva con la sua azione a mantenere unita la Cristianità, allo stesso modo che Giano, per i Romani, impersonava nello stesso individuo la diversità e la contraddizione.

Molto differente da Teodora è il percorso dell’imperatrice Irene, che ha esercitato da sola la pienezza del potere imperiale, poco più di due secoli dopo di lei.

Agli inizi del 769, quando l’Imperatore Costantino 5° è alla ricerca di una fidanzata per suo figlio Leone, egli opera la sua scelta su una bellissima giovane ateniese, di nome Irene. Il 17 dicembre 769 Leone il Kazaro la sposa a Costantinopoli ed il 14 dicembre 771 Irene da alla luce un figlio, il futuro Costantino 6°. Qualche anno più tardi, il 14 settembre 775, alla morte di Costantino 5°, Leone 4° il Kazaro sale al trono e sua moglie Irene diviene imperatrice.

Il regno di Irene è segnato dalla disputa religiosa delle immagini sante, l’iconoclastia. Questo movimento considerava come idolatria la venerazioni delle immagini (icone) del Cristo, della Vergine e dei santi. L’influenza del monofisismo, che minimizzava l’aspetto umano dell’Incarnazione, spinge, specialmente gli imperatori dell’8° secolo a prendere dei provvedimenti contro il culto delle immagini. Ne segue un periodo di violenta persecuzione in nome della quale muoiono numerosi monaci rimasti fedeli alle icone. Questa situazione scatena una reazione che trova sostegno nell’imperatrice Irene, nata in Grecia, regione ostile all’iconoclastia, che, tra l’altro, era passionalmente iconofila, ovvero profondamente attaccata alle immagini sacre.

Nell’estate del 780 Leone 4°, suo marito, scopre nella camera della sua sposa due icone alle quali la donna era particolarmente devota e sulla base di questa scoperta decide di rompere con Irene. Ma neanche un mese e mezzo dopo, l’8 settembre 780, Leone 4° muore, lasciando il potere al suo giovanissimo (10 anni) figlio Costantino 6°, in nome del quale la madre, Irene, esercita la reggenza.

Il palazzo imperiale diviene il centro delle lotte di potere col pretesto dell’iconoclastia e del suo contrario. Viene ordite una congiura da parte di Gregorio, Luogoteta del Dromos (flotta), ma l’imperatrice reagisce con estremo vigore e Gregorio ed i suoi fautori vengono arrestati ed accecati per estrazione degli occhi, mentre i cinque fratelli di Costantino 5° sono invitati a prendere … abiti religiosi.

Irene, dopo una serie di epiche lotte e facendo anche fronte ai pericoli esterni rappresentati dalle incursioni arabe e bulgare, riesce a far condannare l’iconoclastia attraverso le decisioni (canoni) del 7° Concilio di Nicea, nel 787.

Nello stesso momento le dispute religiose bizantine vengono messo a profitto da Carlo Magno, che sarà a breve il restauratore dell’Impero d’Occidente. Nel 794, quello che è ancora il Re dei Franchi, riesce a far rigettare i canoni del 7° Concilio di Nicea da parte del Concilio di Francoforte (5). Questa disputa teologica non era in effetti che un semplice pretesto per preparare l’ascesa di Carlo Magno al trono imperiale.

Nel primavera del 790 Irene decide di allontanare il proprio figlio dal potere, nominandosi “Autocrate dei Romani” ed esigendo dalle forze armate il giuramento

di non appoggiare Costantino 6° fino a quando rimarrà in vita. In risposta a questa decisione Alessio Muzalon, il potente Stratega degli Armeniaci pone l’assedio alla capitale ed esige il ritorno al potere di Costantino. Irene, avendo sopravvalutato le proprie possibilità di successo in una guerra civile, viene abbattuta dalla reazione dell’esercito ed è costretta a cessare la lotta.

Tuttavia Costantino 6°, acclamato dalla truppa come unico imperatore nell’ottobre 790, riesce a deludere rapidamente i propri fautori ed in tale contesto nel gennaio 792, Irene riesce a farsi ristabilire al potere con il titolo di Augusta, coltivando segretamente anche la speranza di imporsi nuovamente in solitario al potere.

Tutti i mezzi a questo punto risultano buoni per conseguire lo scopo: alternando dimostrazioni pubbliche di pietà e di indifferenza, dolcezza e brutalità e sfruttando abilmente uno scisma provocato da proprio figlio, Irene riesce a coronare i suoi sforzi nell’estate del 797. Infatti il 15 agosto 797, all’età di 27 anni, Costantino 6° viene definitivamente detronizzato e accecato, secondo il barbaro costume dell’epoca, nella camera di porpora, la Porphyra, del palazzo imperiale. Irene diviene in tal modo la prima donna imperatore dell’impero Romano d’Oriente, ma il suo regno sarà molto sfortunato.

L’imperatrice, per mantenere e consolidare il suo ancora fragile potere, si lancia in una politica di concessioni fiscali a vantaggio della chiesa e del popolo, rovinando in tal modo le finanze pubbliche e proprio nel momento in cui si sviluppa una rivolta degli Slavi di Grecia, molto difficile da domare e si produce a Roma il 25 dicembre 800 un evento di particolare rilevanza: l’incoronazione di Carlo Magno da parte di Papa Leone 3° e la creazione del Sacro Romano Impero d’Occidente. Irene non riconoscerà il nuovo impero ma non potrà disporre di alcun mezzo per opporvisi.

Nell’autunno 802, il Luogoteta Niceforo, l’uomo più potente della corte, appoggiato da una congiura che riunisce alti funzionari di palazzo ed ufficiali superiori, rovescia la prima donna imperatore, esiliando Irene nell’isola di Lesbos, dove muore il 9 agosto 803. La caduta di Irene non provoca grandi lacrime neanche fra gli stessi monaci e la stessa chiesa, che pure erano stati profondamente gratificati dalla politica della basilissa.

L’ascesa al potere e la caduta di Irene, sottolineano la difficoltà dell’esercizio del potere da parte di una donna. Imperatore donna, la sovrana ha dovuto costantemente negoziare degli appoggi per garantire la continuità del suo potere. La sua perniciosa politica clientelare avrà come effetto la rovina dello stato che non sarà più in condizioni di affrontare le minacce esterne che pesavano sul destino dell’Impero.

Nel corso del 9° secolo, l’iconoclastia fa nuovamente la sua apparizione sotto l’imperatore Leone Bardas e sotto suo figlio Teofilo, ma ancora una volta l’ortodossia viene salvata da una donna la seconda imperatrice Teodora, vedova di Teofilo, divenuta Reggente nell’842. Nell’843 la sovrana fa eleggere Patriarca di Costantinopoli Metodio, partigiano delle immagini e farà persino istituire una festa solenne in onore delle immagini (6).

Nello stesso periodo l’imperatrice dà inizio ad una crudele repressione contro la Setta manichea dei Pauliciani, fiorente in Asia Minore (7) e molti Pauliciani vengono bruciati, affogati o crocifissi. Il ristabilimento dell’ortodossia in tale regione costerà più di 5 mila vittime ed il risultato negativo della ferocia di tali azioni viene attribuita anche al Luogoteta del Dromos, Theoktistos, un personaggio della corte che esercitava un grande ascendente sull’imperatrice vedova, di cui risultava il favorito. Si trattava, in effetti, di un uomo grossolano, violento, arrogante, autoritario ed un capo militare mediocre che era anche riuscito a perdere molte battaglie contro gli Arabi. Il potere di Theoktistos, provocando un grande malcontento in una larga parte dell’aristocrazia, contribuisce a scatenare, agli inizi dell’856, un sommossa orchestrata dal fratello dell’imperatrice, Bardas. Nella rivolta il luogoteta perde la vita, mentre Teodora è più semplicemente costretta a rinunciare alla reggenza.

Ad eccezione della prima Teodora, l’esame delle esperienze delle donne imperatrici, nell’esercizio del potere di Basilissa (Basileia), lascia una impressione di fallimento. La ragione è senza dubbio attribuibile all’organizzazione del governo che obbligava le donne-imperatori ad utilizzare, per sopravvivere, intrighi fra l’alta aristocrazia, gli eunuchi e gli alti funzionari al loro servizio.

Un secondo aspetto che emerge dalla loro azione è l’estrema crudeltà di cui queste donne si sono mostrate capaci: l’accecamento del proprio figlio per una e una ferocia senza limite per la seconda. Certamente in quel tempo la violenza rappresentava un tratto costante della società bizantina, tuttavia queste pratiche appaiono una metodologia inusuale presso donne, che evidenziavano un attaccamento del tutto particolare all’ortodossia.

Infine un ulteriore aspetto può essere evidenziato, la scomparsa di qualsiasi sentimento materno nel momento in cui è in gioco il potere.

Queste tradizioni bizantine sono durate nel tempo e si sono trasferite dopo il 1453, dalla seconda (Costantinopoli) alla terza Roma (Mosca), nell’eredità bizantina, di cui i Russi sono i depositari. Il 18° secolo russo è stato il secolo delle imperatrici, delle quali la più conosciuta è la zarina Caterina 2^. Di quest’ultima in particolare, “mutatis mutandis”, si sa per certo che ha complottato con il suo amante, il bel Principe Orlov, per eliminare il marito lo Zar (Cesare, imperatore) Pietro 3°.

Tanto a Bisanzio quanto a Mosca le donne al potere non hanno certamente portato più umanità degli uomini. Nessuna delle grandi riforme liberali condotte in questi grandi imperi è attribuibile all’opera di una donna. Forse tutto questo è dovuto anche al fatto che, presentando il potere delle caratteristiche di brutale virilità, anche le donne, per poter farsi largo in questo difficile ambiente, erano obbligate a dimostrare la disponibilità di adeguati … attributi o qualità maschili.

NOTE

(1) Procopio da Cesarea,  “Storia Segreta” e “Anekdota”;

(2) Dachkov S.B., “Imperatory Visantii”, Krasnaia Plochad, Mosca, 1995, tradotto in francese;

(3) Dachkov S.B., ibidem pag. 7

(4) Monofisismo, eresia cristologia, sviluppata dal monaco Eutichio, Archimandrita a Costantinopoli, avanzava la tesi che il Cristo non avesse che una sola natura, divina ed incorruttibile, da prima della sua incarnazione, perché “una volta il Verbo incarnato in Cristo, non resta più che una sola natura: l’umanità si fonde nella divinità”. Vedi Kaplan M., “La Cristianità bizantina dall’inizio del 7° alla metà dell’11° secolo, immagini, reliquie, monaci e monache, Costantinopoli e Roma”, Sedes, Parigi, 1997, pag. 15-16;

(5) Riché P., I Carolingi, una famiglia che ha costruito l’Europa, Hachette, Parigi, pag. 124-125

(6) Gouillard J., “L’eresia nell’impero bizantino dalle origini al 12° secolo”, De Boccard, Parigi, 1965, pag. 229-324

(7) i Pauliciani, che prendono il nome da San Paolo, hanno una interpretazione spiritualista della Bibbia a tendenza manichea. Per essi ci sono due divinità: un Dio severo dell’Antico Testamento ed un Dio buono del Nuovo Testamento; essi rifiutano il culto della Vergine e considerano che Maria é la Gerusalemme celeste nella quale Gesù è entrato da precursore. Essi ricusano anche il culto della croce, strumento di supplizio ed intendono per “croce” Gesù con le braccia aperte. I pauliciani avevano costituito un piccolo stato in Asia Minore, da dove effettuavano dei raids contro i villaggi bizantini. La loro capitale Thepriké venne conquistata con la forza nell’878 e l’eresia debellata.

Il brigantaggio in Umbria

I L   B R I G A N T A G G I O    I N    U M B R I A

(Pubblicato sulla pagina 16 del CORRIERE dell’UMBRIA del 7 gennaio 1994, con il titolo “Banditismo in Umbria: “Zigo” e “Tiburzi” gli ultimi briganti”)

In merito al servizio militare, la coscrizione obbligatoria nella regione ha una tradizione molto recente e tale condizione si è dovuta confrontare, perlomeno nella sua fase iniziale con il fenomeno della renitenza alla leva, naturalmente associato a quello più antico e diffuso del banditismo (brigantaggio) Questo fenomeno, certamente endemico in Umbria alla fine del 1400, giunge con alterne vicende fino alla fine del 1800, quando il moderno stato unitario riuscirà finalmente a stabilire con l’impiego di tutti i suoi mezzi, un soddisfacente controllo del territorio.

Scopo di questo lavoro è dunque quello di tracciare un profilo storico geografico del brigantaggio in Umbria e di ricordare qualche personaggio di spicco che, specie in epoca ottocentesca, ha vellicato non poco l'immaginario collettivo delle masse economicamente subalterne, individuandone le cause del suo insorgere e del successivo sviluppo, nonché le aree principali di diffusione nel territorio della regione.

Prima di procedere è forse opportuno effettuare una puntualizzazione sul significato dei termini "bandito" e "brigante" che, sebbene semanticamente distinti, sono oggi comunemente assimilati per definire la condizione del "fuori legge". Il Bandito era quel personaggio che, colpito da Avviso Pubblico ("Bando"), veniva allontanato dalla comunità o volontariamente se ne allontanava per motivi giudiziari od a seguito della sconfitta della propria fazione. Dunque il Bandito (fuoriuscito o confinato politico), il più delle volte condannato in contumacia, reietto dalla società, senza alcun diritto politico e civile ed anche ricercato, era costretto a vivere ai margini della comunità e non di rado, per pura sopravvivenza oppure per desiderio di rivincita e per recuperare la propria dignità, diventava "Brigante". Da qui l'assimilazione nel tempo dei due termini.

Temporalmente il fenomeno del banditismo umbro si situa fra la fine del 1400 (termine dell'epopea dei Capitani di ventura e dell'inizio del consolidamento della Stato della Chiesa) e la fine del secolo scorso, allorché l'Amministrazione del giovane Regno d'Italia riesce ad estendere capillarmente il controllo su tutto il territorio della regione.

Caduto a l'Aquila nel 1424 il sogno del consolidamento di uno stato braccesco con centro Perugia, lo Stato della Chiesa inizia sistematicamente una capillare azione per il recupero delle terre storicamente ad esso soggette ed in tale quadro procede al metodico smantellamento delle invero sparute signorie che avevano attecchito in Umbria (i Baglioni a Perugia, i Trinci a Foligno, i Vitelli a Città di Castello, i Bandini a Città della Pieve, gli Alviano nel sud della regione per citare i più significativi) e tale azione, pur tra mille difficoltà, si può considerare completata solo verso la fine del 1500. Concomitantemente prende vigore e si stabilisce in maniera patologica il fenomeno del brigantaggio in Umbria le cui cause primarie possono essere ricondotte sostanzialmente alle seguenti, distinte per periodo storico.

Nel periodo delle autonomie locali e delle Compagnie di Ventura (secolo XV) il brigantaggio viene alimentato da:

- contadini cacciati dalle loro case (saccheggiate e bruciate dai venturieri) che diventano briganti o soldati di ventura per necessità e sopravvivenza;

- ex venturieri, non più abili a servire nelle compagnie, che si riducono ad un brigantaggio "di passo" poco rischioso e  molto redditizio, sostanziato essenzialmente da rapine, grassazioni e furti;

- banditi (confinati politici o fuoriusciti), pieni di odio e di rancore, che effettuano azioni di saccheggio o da predoni sulle poche vie di comunicazione allora esistenti;

- elementi, avidi di ricchezza e di denaro, che si accodavano agli eserciti regolari nei saccheggi (Saccardi), attratti dalla prospettiva di facili guadagni e dalla possibilità di modificare sostanzialmente la loro condizione sociale.

Nel periodo del governo temporale della Chiesa (secoli XVI, XVII e XVIII), mentre tendono a scomparire le prime due categorie sopraelencate, si determinano ulteriori cause che alimentano sostanzialmente il fenomeno del brigantaggio:

- nobili spodestati dalla Chiesa che mal si adattano al controllo   del potere centrale e soprattutto alla perdita dei propri privilegi;

- l'applicazione da parte di Papa Paolo III della Tassa sul Sale (1539), che dà origine ad una serie di violente reazioni ed a conseguenti sanguinose repressioni;

- il malgoverno ed il pesante fiscalismo pontificio che riducono alla fame il ceto legato alla terra.

Va sottolineato il fatto che con Papa Paolo III inizia (1540), con il recupero "manu militari" al potere pontificio della città di Perugia, l'azione sistematica per il controllo del territorio, ma tale iniziativa provoca una generale violentissima reazione. Con Papa Pio V, a partire dal 1570, vengono adottate iniziative più efficaci nella lotta contro il brigantaggio fino alla nomina di un Commissario Straordinario nella persona del nursino Candido Zitelli. La successiva energica azione di Papa Sisto V e specialmente quella di Papa Clemente VIII, sul finire del 1500, ottengono un soddisfacente controllo del territorio ed una drastica riduzione del fenomeno.

Nel periodo post - unitario il banditismo umbro fa un'ulteriore recrudescenza la cui cause di base, oltre ad alcune storicamente intrinseche già elencate, sono basicamente legate a:

- introduzione da parte del governo nazionale - dopo 400 anni circa - della coscrizione obbligatoria che determina l'insorgere di un considerevole fenomeno di renitenza alla leva e che costituisce "humus" favorevole alla ripresa del banditismo endemico; Il fenomeno della renitenza alla leva, che preoccuperà non poco le autorità provinciali di allora, sarà decisamente combattuto con tutti i mezzi e la sua normalizzazione a livelli decisamente accettabili sarà una delle concause del declino definitivo del fenomeno del brigantaggio nella regione;

- eccessiva pressione fiscale sulle classi più deboli;

- reflusso post - unitario rappresentato da elementi ex - garibaldini non integrati (per motivi di indegnità o penale) nell'Esercito regolare ed ex - papalini venutisi a trovare nelle condizioni di disoccupati.

- comparsa di una forma di banditismo dalla labile connotazione "sociale", che ottiene inizialmente un certo successo psicologico nelle masse diseredate.

Ma il brigantaggio in Umbria, nonostante le cause sopraelencate, non avrebbe avuto alcuna possibilità di attecchire e proliferare se non ci fossero state le condizioni storiche e geografiche per il suo sviluppo. Per dirla con le parole di Mao Tse Dong "il guerrigliero si deve confondere con il mezzo in cui vive e deve essere come il pesce nel suo elemento naturale (l'acqua)"; questo significa che l'uomo che "vive alla macchia" deve essere "omogeneo" con l'ambiente in cui vive (condizione per mimetizzarvisi) e deve sapere utilizzare al meglio le risorse favorevoli che lo stesso mezzo offre.

Ebbene il banditismo trova in Umbria le condizioni storico - ambientali ideali, perché il brigante è un'autoctono e di norma proveniente dal ceto sociale subalterno e le condizioni geografiche sono estremamente favorevoli. Fino in tempi recenti, infatti, la regione era attraversata da poche vie di comunicazione principali e la maggior parte del territorio era rappresentata da zone montuose o di alta collina, fittamente boscose, disabitate e di difficile percorribilità. Per completare il favorevole quadro geografico si aggiunga che sotto lo Stato della Chiesa l'Umbria confinava, nella zona di Gualdo - Gubbio (almeno fino alla metà del 1600) con il Ducato d'Urbino; nella zona di Norcia - Cascia con il Regno di Napoli; nella zona del Tifernate con il Granducato di Toscana ed il Marchesato indipendente dei Bourbon del Monte Santa Maria; nella zona del Perugino - Orvietano con il Granducato di Toscana.

In sostanza il terreno montuoso della regione, impervio e boscoso, favorevole all'occultamento, coniugato con la vicinanza a confini con stati limitrofi verso i quali fuggire in caso di necessità, rappresenta il substrato ideale per lo sviluppo ed il mantenimento di attività "illegali".

In tale contesto le zone storiche umbre legate al banditismo sono sostanzialmente le seguenti:

- l'area montuosa dello spoletino - nursino, verso l'Abruzzo;

- l'area preappenninica della montagna di Assisi ed appenninica del gualdese - eugubino e di Pietralunga, verso le Marche, finitima al Ducato d'Urbino;

- l'area collinare tifernate - perugina, verso la Toscana, finitima allo Stato dei Bourbon del Monte ed al Granducato di Toscana;

- l'area montuosa e boscosa a sud del Trasimeno e dell'orvietano, verso Lazio e Toscana, perché finitima al Granducato di Toscana e quella boscosa dell'Alfina nell'orvietano dopo l'Unità d'Italia, perché vicina allo Stato della Chiesa;

- l'area montuosa del complesso dei Monti Martani (di minore importanza rispetto alle altre).

L'area di gran lungo più importante per il brigantaggio umbro, specie nel XVI e XVII secolo, è quella spoletino - nursina che, isolata dalle principali vie di comunicazione, carente di strade di arroccamento e di penetrazione, montuosa, fittamente boscosa, inaccessibile ed a volte inospitale, ha rappresentato per almeno due secoli una grossa spina nel fianco dell'amministrazione papale. Per ottenere il controllo dell'area il Governo pontificio sarà costretto ad utilizzare a più riprese forze dell'Esercito e ad aprire numerose strade di accesso, di cui l'ultima in ordine di tempo é la via Nursina nel 1855.

Un notevole rilievo vengono ad assumere per l'ampiezza del fenomeno brigantaggio, rispettivamente nel XVII e nel XVIII, l'area orvietana e quella gualdese - eugubina per il concomitante fenomeno della renitenza alla leva.

Vale la pena, per stigmatizzare l'ampiezza di quest'ultimo aspetto, citare i dati desunti dalla Gazzetta dell'Umbria del novembre 1869 dove, a seguito dell'intervento dell'Esercito nella zona di Gubbio, Montone, Pietralunga, per l'arresto dei numerosi renitenti alla leva, viene sgominata la Banda di Sante Granci detto "Zigo" e vengono più o meno assicurati alla giustizia ben 453 renitenti alla leva, secondo questa significativa sequenza: 283 arrestati il 4 novembre 1869, 386 il giorno 8 seguente e 453 il 20 dello stesso mese, alla conclusione delle operazioni.

Ed ora prima di concludere pare opportuno ricordare rapidamente i nomi di alcuni briganti umbri che hanno avuto un tempo una certa notorietà: Francesco Alfani ed Alfonso Piccolomini nell’area perugino – tifernate nel 1500; i Brunamonti, Petrone di Vallo di Nera, Girolamo Brancaleoni detto “Picozzo”, Petrino Leoncilli ed Antonio Martani, attivi fra il 1500 ed il 1600 nell’area spoletino – nursina; Biscarino e Tiburzi nell’area orvietana nel 1800 e Nazareno Guglielmi detto “Cinicchio o Cinicchia” ed il già citato “Zigo” nell’area assisana - gualdese - eugubina, sempre nel 1800. Con la eliminazione della Banda di "Zigo" nell'eugubino e la successiva distruzione di quella di Tiburzi nell'orvietano, ha inizio la fine del banditismo in Umbria e nel marzo 1901 a Coccorano di Valfabbrica viene catturato in una stalla da una pattuglia di 14 carabinieri quello che per la cronaca è l'ultimo dei briganti della regione.

Come è nato l’IRAK

Come è nato l’IRAK

 

(Stampato su “SUBASIO” n. 3/15 del marzo 2007, Bollettino trimestrale dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi).

 

L’Irak moderno è nato all’indomani della 1^ Guerra Mondiale, per volontà inglese, a seguito degli accordi Sikes-Picot con la Francia. Territorio sotto dominazione ottomana, anche se poi indipendente, rimane sotto il controllo inglese fino al 1958. Già allora il petrolio era una base importante del gioco politico internazionale.

N

el 19° secolo, quello che diventerà l’Irak, un territorio che copre l’antica Mesopotamia, fra il Tigri e l’Eufrate, risulta sottomesso all’Impero Ottomano ed è diviso nelle tre Province (Vilayet) di Mossul, Bagdad e Basra (Bassora). Abbandonata dal potere di Istambul, la regione suscita immediatamente l’interesse dei Britannici, nella loro costante preoccupazione di garantirsi la rotta delle Indie, e questo ancor prima che la scoperta del petrolio nella regione non contribuisca a scatenare l’interesse e l’appetito di altre potenze occidentali. La storia dell’Irak moderno comincia dunque sotto gli auspici britannici.

A partire dal 18° secolo l’East India Company, che possiede il monopolio del commercio con l’India e l’oceano indiano, stabilisce una filiale a Bassora ed un’altra a Bagdad. Nei primi decenni del 19° secolo, il Golfo detto “Persico”, diventa un mare controllato dalla flotta britannica, al fine di garantire la sicurezza del commercio. La politica inglese è principalmente di deterrenza e difensiva: con il controllo del Golfo Persico essi fanno chiaramente intendere che non sono assolutamente disposti a consentire uno spazio di influenza per un'altra potenza europea, sia sul Golfo, sia nelle regioni retrostante, quali le valli del Tigri e dell’Eufrate, anche se nel caso specifico la sovranità effettiva appartiene formalmente all’Impero Ottomano. Il dispositivo britannico viene gestito direttamente dall’Impero delle Indie, che vi invia i suoi funzionari o i suoi soldati. Il Golfo e la Mesopotamia vengono pertanto considerati come un dominio riservato ed esclusivo degli “Anglo Indiani”, sotto il lontano controllo del Ministero delle Indie (Indian Office) di Londra.

Nel corso degli anni 1890, questa preponderanza britannica viene bruscamente rimessa in discussione a causa dell’entrata in gioco di un nuovo concorrente: la Germania Imperiale. Quest’ultima lancia l’ambizioso progetto di una ferrovia da Istambul a Bagdad ed al Golfo (questo sarebbe l’ultimo tronco dell’asse ferroviario BBB – Berlino, Bisanzio Bagdad). L’autorizzazione alla concessione e quindi la realizzazione concreta del progetto diventano inevitabilmente l’oggetto di uno dei maggiori conflitti che opporranno le potenze europee all’Impero Ottomano fra la fine del 19° secolo ed il 1914.

Questa moderna via terrestre potrebbe provocare il ribaltamento della situazione di tutto il commercio della Mesopotamia verso il Mediterraneo e consentirebbe, soprattutto agli Ottomani, di inviare delle forze militari nelle regioni costiere del Golfo, senza in tal modo dipendere dagli Inglesi. La Gran Bretagna, davanti ad un pericolo effettivo alla sua egemonia, proclama nel 1899, preventivamente e nell’intento di chiudere l’accesso al Golfo, il suo Protettorato sul Kuweit.

Agli inizi del 20° secolo il mondo prende progressivamente coscienza dell’importanza del petrolio, essenzialmente utilizzato fino a quel momento per l’illuminazione. Nelle province persiane di frontiera con la Mesopotamia, una compagnia inglese, l’Anglo Persian Oil Company scopre immensi giacimenti di petrolio.

A partire da quel momento il consumo di petrolio cresce rapidamente attraverso la diffusione del motore a scoppio (che equipaggia le nuove automobili) ed il passaggio, nel campo marinaro, dal carbone alla nafta per alimentare le loro caldaie. Se la Gran Bretagna possiede carbone in abbondanza, per contro presenta carenze evidenti nelle fonti di approvvigionamento di petrolio, nel cui campo essa risulta dipendente dagli Stati Uniti e dalla Russia, primi produttori mondiali. Si può pertanto supporre che gli Inglesi, in considerazione della prossimità della regione ai campi petroliferi persiani, abbiano immediatamente tenuto in conto l’ipotesi di una Mesopotamia ricca di enormi riserve di idrocarburi, anche se la scoperta effettiva non avverrà prima della fine degli anni 1920.

In un tale contesto, la concessione alla Germania di una ferrovia nella regione, si configura come una grave minaccia, proprio per la consuetudine generale aggiuntiva di concedere, lungo il percorso del tracciato ferroviario, concessioni minerarie ed agricole.

La rivalità anglo-tedesca in Mesopotamia trova una soluzione diplomatica nel 1913-14: la Gran Bretagna riceverà la concessione ferroviaria da Bassora al Golfo, togliendo in tal modo lo sbocco al Golfo ai Tedeschi; in più la frontiera fra l’Impero Ottomano e la Persia viene modificata in senso favorevole alle concessioni petrolifere britanniche in Persia; da ultimo un consorzio petrolifero, la Turkish Petroleum Company (TPC), che favorisce gli interessi inglesi, ottiene la concessione petrolifera per tutto il complesso dell’Impero Ottomano. L’Anglo Persian Oil Company riceve il 50% del capitale della TPC, la Shell Anglo-olandese il 25% e la Deutsche Bank (tedesca) il 25%; esse, inoltre, si impegnano a retrocedere una parte delle loro azioni ad un privato, Caluste Gulbenkian (1), che dispone già di diritti su un certo numero di concessioni.

Alla vigilia della 1^ Guerra Mondiale, i Britannici sono pertanto riusciti a mantenere la loro posizione di forza nella regione.

Tutto rischia però di cambiare nell’autunno 1914, quando diviene inevitabile l’entrata in guerra dell’Impero Ottomano a fianco delle Potenze Centrali. Londra prende a quel punto la decisione di sbarcare nel sud dell’Irak. La conquista sarà un compito esclusivo dell’Esercito delle Indie e degli Anglo Indiani. Il 22 novembre 1914 Bassora viene conquistata, assicurando, in tal modo, l’obbiettivo immediato di proteggere il Golfo ed i campi petroliferi iraniani.

Ma, nel campo dell’amministrazione dei territori occupati, vengono ad opporsi due diversi progetti degli occupanti. Da un lato quello degli Anglo-Indiani, pienamente convinti dell’idea del “fardello dell’uomo bianco” (2), che valutano che gli indigeni debbono rimanere sotto tutela. Dall’altro quello degli Inglesi d’Egitto o “Anglo-Egiziani”, dipendenti dal Foreign Office (Ministero degli Esteri Inglese), che vogliono stabilire una tutela inglese sull’insieme dell’oriente arabo e che propugnano un sistema di gestione leggero ed indiretto con la rapida messa in opera di governi locali. Fra questi il poi celebre T.E. Lawrence (Lawrence d’Arabia), che nel 1916 presenterà un rapporto incendiario sui ritardi e sulle incompetenze degli Anglo Indiani.

L’equipe del Cairo gode dei favori del Governo di Londra, dove Sykes gestisce tutta la pratica. Il progetto prevede di lanciare una rivolta araba contro gli Ottomani, diretta dallo sceriffo Hussein della Mecca (Capo della famiglia degli Hashemiti). La rivolta scoppia nel 1916 e partita dalla Mecca essa raggiunge la Transgiordania e quindi la Siria. A dar credito alla corrispondenza del 1915, fra Hussein e l’Alto Commissario Britannico in Egitto Mac Mahon, la Gran Bretagna aveva promesso i Vilayet di Mossul e di Bagdad agli Hashemiti, con una riserva circa il Vilayet di Bassora.

Ma contemporaneamente Londra conduce dei negoziati con la Francia, che a sua volta manifesta delle ambizioni sulla regione. Secondo l’Accordo Sykes-Picot (3), concluso nel maggio 1916, il vicino Oriente verrà suddiviso fra le due potenze: il Vilayet di Mossul passerà nella zona d’influenza francese (Siria), quello di Bagdad nella sfera d’influenza inglese e quello di Bassora sotto il diretto controllo dei Britannici.

Sul campo invece, dopo un lungo periodo di attesa e l’insuccesso dell’aprile 1916 di una avanzata verso il nord da Bassora, l’offensiva britannica riprende agli inizi del 1917 e l’11 marzo seguente Bagdad viene conquistata. Il Vilayet di Mossul sarà però completamente occupato solo dopo l’Armistizio di Mudros, del 30 ottobre 1918, che mette fine alle ostilità con l’Impero Ottomano. Alla fine del 1918 i Francesi rinunciano ai loro diritti su Mossul a favore degli Inglesi ed in cambio essi ottengono le parti tedesche nella Turkish Petroleum Company.

Gli Anglo Indiani non hanno però alcuna intenzione di rinunciare alle loro conquiste. Il loro progetto è quello di annettere questo territorio all’Impero delle Indie e tanto meno hanno l’intenzione di consentire la autogestione agli Iracheni. Il paese viene diviso, sul modello inglese, in “distretti” diretti dall’ufficiale “political” britannico. Da Londra, Sykes si preoccupa alquanto di questo atteggiamento, che non tiene conto delle trasformazioni provocate dalla rivoluzione russa e dalla Dottrina del Presidente americano Wilson, che proclama apertamente il diritto dei popoli alla autogoverno.

Nonostante le notevoli pressioni, gli Anglo Indiani rimangono fermi sulle loro posizioni, sebbene incontrino notevoli difficoltà a controllare l’insieme del paese: le regioni di Kerbala, Najaf e Nassirya sono in un permanente stato di rivolta. L’amministrazione militare si gonfia in maniera abnorme (dai 57 ufficiali amministratori nel 1917 ai 1022 nel 1920). Per contro i conquistatori, per mantenere il controllo delle campagne, si appoggiano sui capi tribù: essi consegnano letteralmente loro tutti i contadini, autorizzandoli anche a registrare a loro nome le terre comunitarie (Collettive).

L’opposizione alla presenza inglese proviene anche dai vecchi ufficiali iracheni, già reclutati dal governo ottomano durante la guerra ed anche dalla borghesia araba sunnita. Questi si sono largamente alleati alla rivolta araba e minacciano di organizzare una rivolta anche in Irak. I capi religiosi sciiti rifiutano, da parte loro, l’ordine britannico e richiedono un Irak totalmente indipendente con un regime costituzionale e con un controllo/supervisione da parte dei religiosi.

Nei primi mesi del 1920 vengono assassinati diversi ufficiali inglesi. Durante l’estate tutta la regione, per ragioni diverse, entra in piena ribellione; rivolta sostenuta anche dalla chiamata alla “Guerra Santa” lanciata dalle alte autorità religiose sciite. Occorrono diversi mesi agli Anglo Indiani per riprendere il controllo della regione, al prezzo di una sanguinosa repressione.

T.E. Lawrence, ritiratosi provvisoriamente dalla carriera pubblica, scrive sarcasticamente nel Sunday Times del 22 agosto 1920: “Noi avevamo detto che saremmo andati in Mesopotamia per battere la Turchia. Noi abbiamo detto che vi saremmo restati per liberare gli Arabi dall’oppressione del governo turco e per rendere accessibile al mondo le sue risorse di petrolio e di grano …(  …). La nostra amministrazione sta risultando ben peggiore di quella turca. Essi mantenevano in servizio 14 mila coscritti della regione ed uccidevano una media di 200 Arabi all’anno per mantenere la pace. Noi abbiamo 90 mila uomini, con aerei, autoblindo, cannoniere e treni blindati. Noi abbiamo ucciso circa 10 mila Arabi durante le rivolte di quest’estate. Noi non possiamo pensare di mantenere una tale media: si tratta di un paese povero a bassa densità di popolazione. Ci è stato inoltre detto che lo scopo della sommossa era politico, ma non ci dicono che cosa chiedono le genti di quella regione: non è forse proprio quello che noi gli avevamo promesso ?

L’opinione pubblica britannica considera esorbitanti i costi finanziari dell’occupazione irachena. In tale quadro il vecchio gruppo del Cairo, ritornato nelle leve del potere nel 1921 con Winston Churchill, allora Ministro delle Colonie, propone una soluzione poco onerosa: un governo arabo sotto mandato britannico. Il corpo di occupazione sarebbe stato alleggerito, prevedendo di rimpiazzare le forze terrestri con dell’aviazione (incaricata di bombardare le regioni non sottomesse) e di reclutare delle truppe locali per la difesa delle installazioni inglesi.

Il progetto di stabilire dei mandati nel Vicino Oriente viene ratificato nel 1922 dalla Società delle Nazioni (SDN), che affida alla Francia un mandato sul Libano e la Siria ed alla Gran Bretagna due mandati uno per la Palestina-Transgiordania e l’altro per la Mesopotamia, ormai designata con il termine arabo di Irak.

I figli dello sceriffo Hussein, l’emiro Feysal, cacciato dai Francesi dalla Siria, dove aveva stabilito un governo arabo a Damasco, viene scelto da Londra per diventare il Re dell’Irak ed un plebiscito ben organizzato sanziona con il 96% dei voti la decisione presa (i potenziali avversari del re designato erano stati prudenzialmente esiliati o messi in residenza sorvegliata dagli Inglesi). Intronizzato il 27 agosto 1921,il Re tenta comunque di liberarsi dalla tutela britannica, ma questi gli fanno immediatamente comprendere che non tollereranno alcuna ingratitudine.

A partire dal 1922 gli Inglesi cercano di imporre un trattato per il quale l’Irak dovrà farsi carico della metà dei costi della presenza britannica, accettare dei consiglieri nell’amministrazione ed un controllo sulle decisioni del governo da parte dell’Alto Commissario a Bagdad. I dirigenti religiosi sciiti conducono l’opposizione al trattato e vogliono impedire le elezioni all’Assemblea costituente, incaricata di ratificarlo. Essi vengono allora esiliati in Persia e vengono autorizzati a rientrare in Irak solo all’unica condizione di rinunciare a qualsiasi pretesa politica. In definitiva l’Assemblea eletta, dominata dai capi tribù, arriverà comunque a ratificare il trattato nel 1924.

Una delle questioni in sospeso rimane il Vilayet di Mossul. I Turchi di Mustafà Kemal, giunto al potere nel 1920 mentre l’Impero Ottomano sta per crollare, rifiutano di riconoscere la perdita di questa provincia, con il pretesto che essa è stata occupata dopo la firma dell’Armistizio di Mudros. Il Trattato di Losanna del 1923, Trattato di Pace con la Turchia, non consente di risolvere il problema, che viene rimandato alle decisioni della SDN. Quest’ultima emette successivamente un arbitrato in favore dell’integrazione della provincia curda all’Irak, a condizione della garanzia dei diritti culturali ai Curdi (in tal modo il curdo diviene una delle lingue ufficiali della regione).

La questione di Mossul è strettamente legata a quella del petrolio. I Francesi hanno ottenuto le parti tedesche nelle concessioni della TPC (25%) e gli Americani, che contestano la volontà britannica di accaparrarsi tutte le risorse petrolifere della regione, ottengono una parte equivalente a quella dei Francesi. Alla fine degli anni 1920 la composizione della Irak Petroleum Company (IPC), che succede alla TPC, è pertanto del 23,7% per la Compagnie Française des Petroles (poi Total); del 23,7% per un sotto consorzio americano; del 23,7% per la Shell (anglo olandese), del 23,7% per la Anglo Iranian Oil Company (la vecchia Anglo Persian, oggi meglio conosciuta come BP British Petroleum) ed il 5% per Gulbenkian. Anche in questo caso Feysal ed il suo governo hanno dovuto fare buon viso a cattiva sorte, abbandonando le loro rivendicazioni per una partecipazione dell’ordine del 25% da parte dello stato iracheno.

Feysal, straniero nel paese sul quale regna e per di più installatovi dagli Inglesi, che riducono ogni giorno il suo potere, riesce malgrado tutto ad imporsi alla testa dello stato. Ha come forti sostenitori i vecchi ufficiali dell’esercito ottomano, suoi compagni d’arme durante le rivolte arabe degli anni 1916-20. Questi ufficiali, profondamente influenzati dall’esperienza dei Giovani Turchi (4) e dei Kemalisti, sono nazionalisti arabi sunniti e vogliono fare dell’Irak uno stato forte e centralizzato, destinato a diventare lo strumento dell’unificazione del mondo arabo. Disposti temporaneamente ad allearsi con Londra, essi approfittano della crisi politica del 1922-24 per eliminare, con l’approvazione degli Inglesi, gli Sciiti dal potere. Da quel momento essi accetteranno di cooptare degli sciiti nella classe dirigente solo a condizioni che questi ultimi adottino il loro programma di unità araba.

Alla fine degli anni 1920, la monarchia sembra aver trovato una base sociale nel mutuo avvicinamento del gruppo dei vecchi ufficiali, della nascente burocrazia civile e militare e di quello dei grandi latifondisti (sunniti e sciiti), derivante dal mondo dei capi tribù, principali beneficiari della conquista britannica. Questa classe dirigente serve gli Inglesi ma si serve ugualmente di essi per stabilire un potere forte e centralizzato in nome del nazionalismo arabo.

Nel 1930 i Britannici possono ormai considerare soddisfacente l’evoluzione politica dell’Irak e soprattutto considerare garantiti i loro interessi economici e geopolitici. Un nuovo trattato, nel 1932, accorda l’indipendenza al Paese, con l’entrata dell’Irak nella SDN. L’esperienza irachena sembra essere un modello di successo.

Il prezzo da pagare e tuttavia molto pesante. Un terribile malessere sociale pervade tutto il mondo rurale, ancora largamente maggioritario, dove i contadini si trovano in una stato di grave dipendenza. La prevista regolare diminuzione dell’imposta fondiaria non va che a beneficio dei grandi proprietari fondiari. Gli Sciiti vengono esclusi dalle leve di comando ed hanno tendenza a considerare il nuovo stato piuttosto come un nemico. In effetti gli Inglesi, con la loro politica, sono praticamente riusciti ad alienarsi tutte le componenti della società irachena.

La Gran Bretagna, nell’ottica di trovare una soluzione adeguata alle sue esigenze geopolitiche, è certamente all’origine dell’Irak moderno: in effetti è essa che ha costituito lo spazio politico che ne porta il nome, mettendo peraltro insieme tre province fortemente diverse per motivi religiosi o etnici. Tuttavia gli Inglesi hanno poche responsabilità nella messa in opera (scelta) degli attori di questa nuova scena politica. In effetti il centralismo iracheno sunnita deriva direttamente dall’esperienza dei Giovani Turchi e le rivendicazioni dei religiosi sciiti si appoggiano su una tradizione politica che risale al 19° secolo a sua volta legata ai differenti aspetti di riformismo mussulmano, il cui programma politico frammischiava rivendicazioni parlamentari liberali con un controllo della compatibilità delle leggi con l’Islam attraverso le istanze religiose. Riguardo al Curdistan, l’eccessivo frazionamento tribale, così come l’intensità delle relazioni con il mondo anatolico turcofono, sono troppo rilevanti per consentire la nascita, in quel periodo, di un vero e proprio movimento autonomista curdo.

Nel 1941 una coalizione di militari e di uomini politici, essenzialmente sunniti, si impadronisce del potere e si appoggia alla Germania nazista, con lo scopo dichiarato di liberare il paese dalla stretta britannica. I Britannici, che lottano da soli su tutti i fronti contro il Nazismo, fanno ricorso alla forza e rioccupano militarmente il paese.

La Monarchia Hashemita, ritornata al potere grazie a questo intervento, non riuscirà più a scrollarsi di dosso la sua dipendenza dalla Gran Bretagna. L’esplosione delle violenze popolari che accompagneranno la rivoluzione del 14 luglio 1958 (guidata dal generale Abdel Karim Kassem e dal colonnello Abdel Salam Aref), dimostrerà l’ampiezza dei rancori che covavano sotto la cenere e della crisi sociale che hanno marcato l’evoluzione dell’Irak, a partire dalla prima invasione britannica.

Tuttavia, la monarchia hashemita d’Irak, anche se “col senno di poi”, sarà successivamente riconosciuta come un’epoca di sviluppo culturale e di libertà dell’Irak, certamente incomparabile rispetto ai regimi che …. le succederanno !!

NOTE

(1) Caluste Gulbenkian, armeno, nato nell’Impero Ottomano nel 1869, diventato cittadino britannico, è un ingegnere specializzato nel petrolio. Fondatore della TPC egli riesce a conservare il 5% delle parti dell’IPC, da cui deriva il soprannome di “Mister 5%”.

(2) della teoria che attribuisce e quindi spetta all’uomo bianco il compito della civilizzazione del mondo, specie dell’Africa, rimasto arretrato o alla stato barbaro.

(3) Ministro degli Esteri francese.

(4) Oppositori del Sultano ottomano all’inizio del 20° secolo, profondamente patrioti, esercitano un potere autoritario e nazionalista in Turchia, a partire dal 1913.

Cartoline militari.....che passione!

CARTOLINE MILITARI...........CHE PASSIONE!

(pubblicato sul SETTIMANALE dell’UMBRIA di PG, del 22 maggio 1993 con il titolo “Cartoline e Stellette”)

Sono ormai trascorsi cento anni dal giorno in cui sono apparse le prime "autorizzate dal Governo" sui "ricordi militari" e da allora il fenomeno delle "cartoline militari" non ha finito di stupire. La moda delle "10 - 14" o delle "10.5 - 15" militari non solo non ha conosciuto flessioni significative ma il suo impatto fra i collezionisti è andato via via assumendo proporzioni inattese ed imprevedibili e mentre il filone di altri generi di cartoline si è praticamente affievolito per effetto del telefono e della TV, quelle militari sembrano non conoscere declino.

Il mondo militare al sorgere della cartolina illustrata nella società, adotta immediatamente ed entusiasticamente questo nuovo mezzo nel quale intravvede giustamente una forma indiretta di propaganda ed un veicolo di esaltazione e commemorazione delle proprie specifiche tradizioni.

I militari ed il mondo esterno in genere sono dunque conquistati dal mezzo cartolina nella quale vedono uno strumento di comunica­zione, di dimensioni contenute (tascabile), di facile presa sull'immaginario collettivo (uso del colore) e da poter inviare uf­ficialmente in qualsiasi parte del mondo.

Il vero e proprio boom della cartolina militare ha però inizio nel 1898 e nel giro di cinque anni (1903) raggiunge dimensione e diffusione veramente incredibili. Ogni Caserma, Comando, Reggimento in un vortice da mania collettiva viene spinto ad accapar­rarsi le più prestigiose firme grafiche dell'epoca (Beltrame, Boccasile, Cervi, Tafuri, Dudovich, ecc.) per celebrare su car­tolina le glorie e le tradizioni dell'Ente o del Corpo ed i risultati ottenuti, raffinati sotto l'aspetto grafico ed editoriale, rappresentano tutt'oggi un classico nel genere.

L'editoria privata, fiutata la convenienza e l'ampiezza della diffusione del fenomeno, si inserisce di forza nel genere con tutta la sua capacità imprenditoriale invadendo il mercato con eccesso di edizioni che fanno scadere la qualità e determinando una inevitabile fase di stanca.

Da un punto di vista sociologico il collezionismo o semplicemente l'uso della cartolina militare si pone inizialmente come un feno­meno di elite ed è dapprima monopolizzata dalle classi più ab­bienti ed istruite, in particolare la nobiltà e la borghesia e nell'ambiente specificatamente militare i cultori delle cartoline sono essenzialmente fra gli ufficiali di grado elevato. Il resto della popolazione rimane marginalmente interessato alla moda che indirettamente imponeva un po' di istruzione, buon gusto e... denaro da spendere!.

Il 1° conflitto mondiale porta nel mondo della cartolina una spe­cie di "rivoluzione sociale". Centinaia di migliaia di soldati sentono il bisogno di mantenere il contatto e di comunicare con le famiglie, le fidanzate, gli amici ed a fronte di queste esi­genze scoprono un prodotto "usa e getta..(e colleziona) ante litteram", meno impegnativo della lettera, più immediato ed accessi­bile,perchè il più delle volte con il messaggio desiderato già confezionato.

Anche stavolta l'editoria non si lascia sfuggire la ghiotta occasione, commercializzando una cartolina più "proleta­ria", dove messaggi preconfezionati alla bisogna (caricature, fidanzatini, baci, mamme, gestanti, bandiere, soldati al fronte, oltre ad allegorie della pace, della speranza, della forza, del coraggio e dell'eroismo) sono pronti a soddisfare le molteplici esigenze ed i gusti più disparati di una massa eterogenea. A questa azione si affianca quella del Comando Supremo cui non sfugge l'efficace funzione di propaganda e di supporto psico­logico della cartolina nell'ambito del fronte. Sono di questo periodo anche le cartoline con la tematica dei "Prestiti di Guerra" che sfruttano questo semplice ed efficace mezzo per sollecitare la solidarietà nazio­nale della popolazione.

Tra le due guerre la cartolina militare continua la sua inarrestabile marcia; nuovi interessanti filoni e nuovi soggetti si aggiungono alle tematiche esistenti, quali l'Aeronautica, le Truppe Coloniali e le Camicie Nere.

Il Fascismo, che per primo ha utilizzato in modo scientifico i mezzi di comunicazione a fini di propaganda, non trascura la cartolina militare, dove una grafica propagandistica di grande ef­fetto, dallo stile meno classico ma aggressivo e grintoso, ispi­ra­to al tardo futurismo, rinnova e rinfresca negli anni trenta la tradizione delle cartoline reggimentali.

Dopo una breve stasi, peraltro comprensibile, seguita al 2° con­flitto mondiale, la cartolina militare riprende vigore ed i sog­getti primari del dopoguerra rimangono i Reggimenti, affiancati da Adunate d'Arma o di Specialità (Alpini, Bersaglieri, Artiglieri, Carristi, ecc.), da Raduni di Reduci o da Commemorazioni speciali.

Riprende vigore anche il collezionismo, a volte esagerato, e nascono le mostre militaria dove la cartolina ha un suo posto d'onore o più semplicemente i mercatini specializzati, dovemigliaia di collezionisti appassionati comprano, concupiscono o scambiano gelosamente i loro......tesori (e la parola tesoro non appare più fuori luogo se qualche esemplare di rare edizioni supera abbondantemente il centinaio di mila lire).

In conclusione le cartoline ed in particolare quella militare, documenti e testimonianze di innumerevoli fatti ed episodi anche minori sia in pace che in guerra, rappresentano un eccezionale spaccato della società e concorrono con le loro immagini ed i loro ricordi a formare un elemento del substrato della cultura e della storia della nostra società civile.

La conquista Araba dopo Maometto

LA CONQUISTA ARABA DOPO MAOMETTO

 

(Pubblicato con il titolo “Mussulmani in Siria, Egitto, Iran e Maghreb” sul Forum della rivista www.graffiti-on-line.com - del giugno 2008)

In meno di quaranta anni, come un’onda di marea, i mussulmani si impadroniscono della Siria, dell’Egitto, dell’Iran e del Maghreb, distruggendo le più venerabili civilizzazioni. Nel secolo seguente raggiungeranno anche l’India.

Ragioni di un vero e proprio cataclisma

Nel 7° secolo dopo Cristo appena qualche decennio basta ai cavalieri arabi, fanatizzati dalla predicazione di Maometto, per conquistare un immenso spazio, dalle rive atlantiche del Marocco alla valle dell’Indo e dalle steppe dell’Asia Centrale alle “vegas” andaluse.

A mala pena usciti dall’Arabia quelli, che i Persiani chiamavano con sufficienza “i mangiatori di lucertole”, distruggono delle antichissime e ricche civiltà, dopo aver sbaragliato le armate che gli si sono opposte. Spingendo sempre più lontano i limiti delle loro razzie, gli Arabi arrivano ad imporre la legge del Profeta alle popolazioni soggiogate.

La rapidità folgorante di questa espansione è semplicemente impressionante dal momento che essa si realizza in situazioni notevolmente differenti.

Il comune denominatore della conquista va ricercato nella superiorità militare di una cavalleria leggera molto mobile ed operante in maniera largamente autonoma.

Rispetto alla fanteria degli Indiani o ai cavalieri pesantemente corazzati delle armate bizantine e sassanidi, gli invasori, venuti dal deserto, danno un altro ritmo alla guerra, concepita essenzialmente come dei “raids a lungo raggio”. Combinando le tradizione bellicose dei nomadi ed il fanatismo religioso che ormai li anima, l’espansione mussulmana viene così a scombinare l’ordine mondiale ereditato dall’antichità per costruire un mondo che Maometto, morto nel 632, non avrebbe mai potuto immaginare.

La rapidità della conquista si spiega anche attraverso altre importanti ragioni, estranee alla semplice superiorità militare dei vincitori.

La crisi degli Imperi persiano e bizantino, che si sono spossati a vicenda (mutualmente) in una serie di incessanti lotte nel corso degli anni che precedono l’arrivo degli Arabi e le rivalità che dividono profondamente l’aristocrazia dei Visigoti, nella Spagna, avranno un peso fondamentale, nel 711, sulle rive del Rio Guadalete. Inoltre le dispute religiose in atto in numerose altre regioni sono altrettanti buoni motivi che hanno in misura significativa determinato il clima favorevole al successo dell’invasione.

In particolare Nestoriani[1], Monofisiti[2] o aderenti al “Credo di Nicea”[3] si contrastano ferocemente in Oriente e i copti egiziani accolgono inizialmente i mussulmani come dei liberatori, la cui dominazione appare preferibile a quella degli odiati Bizantini. Nella penisola iberica, l’eredità dell’Arianesimo[4] facilita l’accettazione della nuova religione e gli ebrei, perseguitati dalla monarchia visigota nel nome di una unità religiosa del regno, accolgono favorevolmente Tarik e Mussa, i due capi arabi conquistatori della Spagna.

Infine certe altre categorie sociali - come i Paria o gli Intoccabili in India, i seguaci dell’eresia donatista[5] in Africa del Nord – ebbero in effetti la sensazione di aver cambiato solo di padrone con l’arrivo dei nuovi conquistatori arabi.

In particolare all'interno dell'Oriente cristiano bizantino - che era separato da Roma - vi erano appunto i Monofisiti ed i Nestoriani : dei Cristiani semiti che vivevano sotto influenza culturale e linguistica bizantina.

Prima e dopo l'Islam, una serie di continui ed insanabili dissidi di tipo sociale, religioso, politico e razziale, tra Bizantini e Monofisiti da una parte, e tra Persiani e Nestoriani dall'altra, aveva prodotto un profondo scollamento delle comunità cristiane autoctone.

L'indebolimento delle strutture societarie di quelle popolazioni, inoltre, si inscriveva in un drammatico contesto di continue e costanti vessazioni erariali, sottomissione e tirannie varie, esercitate per più di mille anni dai Greci, i Romani, i Persiani ed i Bizantini.

In quella situazione, gli autoctoni cristiani si trovarono psicologicamente pronti ad accogliere come liberatore, un qualsiasi conquistatore che li potesse affrancare da quella millenaria oppressione. A maggior ragione, se l'eventuale conquistatore fosse stato di razza, di lingua e di cultura semita. Era quindi normale che gli autoctoni cristiani accettassero di buon grado i conquistatori arabo - musulmani che, in definitiva, erano molto più affini alle loro tradizioni culturali di quanto lo erano stati fino ad allora i Greci, i Romani, Persiani, o i Bizantini. Non dimentichiamo, inoltre, che quella nuova religione - l'Islam - possedeva delle similitudini con l'Arianesimo, il Monofisismo ed il Nestorianesimo, ed era contemporaneamente e nettamente in contrasto con il Difisismo bizantino[6]. Inoltre Quei Cristiani pensavano, a torto, che l'Islam li avrebbe senz'altro affrancati e redenti dalla tirannia bizantina che - benché cristiana - era da loro esclusivamente percepita come imperialista e straniera.

Conquista della Persia Sassanide

Fondato nel 224 da Ardeshir sui territori dell’antico Iran, l’Impero Sassanide aveva raggiunto il suo apogeo sotto il regno di Cosroe 1° (531 – 579) dopo aver esteso il suo dominio sino al Caucaso a la Bactriana. Ad ovest si confrontava con l’Impero Romano sulla frontiera dell’Eufrate, mentre verso sud era protetto da uno stato cuscinetto, dei Lakmidi di Hira, che sorvegliava le tribù razziatrici del deserto d’Arabia. All’inizio del 7° secolo Cosroe 2° aveva conquistato Antiochia, Gerusalemme e l’Egitto, spingendo le sue armate fin dentro l’Asia minore, dove viene duramente respinto dalla reazione dell’Imperatore Eraclio di Bizanzio.

Pertanto l’impero Sassanide, al momento dell’arrivo dei cavalieri di Profeta, risulta, almeno apparentemente, una potenza considerevole, erede della tradizione dei grandi Re Achemenidi. In realtà bastano agli Arabi appena tre giorni di combattimenti per riportare nel 637 la decisiva vittoria di Al Qadisiya. I successi successivi si concatenano con estrema rapidità fino alla definitiva sconfitta di Nehavend del 643. La caduta di Ctesifonte, la capitale sassanide precede di poco quella di Ninive, che permette agli invasori l’acquisizione del completo controllo della Mesopotamia. Nello spazio di qualche anno la Persia cessa di esistere come stato, segnando anche la scomparsa della sua religione di stato il Mazdeismo[7] o Zoroastrismo. La facilità e la rapidità della conquista può essere spiegata con la crisi militare dell’impero sassanide, il cui esercito, costituito in larga parte da mercenari, viveva essenzialmente sul bottino razziato nelle regioni di frontiera e che quindi non era in condizioni di condurre a lungo una lotta, specie sul proprio territorio. Inoltre la perdità dell’unità religiosa dello stato, dovuta alla forte espansione del manicheismo[8], nonché all’accoglienza favorevole riservata ai numerosi cristiani nestoriani cacciati dall’impero bizantino, è stato certamente un fattore di debolezza nella coesione e nella capacità di resistenza interna.

La conquista mussulmana determina la distruzione della civiltà persiana tradizionale e quella del Mazdeismo (Zoroastrismo), la religione nazionale, di cui la maggior parte delle fonti, tra le quali i tre quarti dell’Avesta, attribuiti a Zoroastro, sono andati perduti. Ma la Persia non doveva tardare molto a prendersi una rivincita sui suoi invasori ed allo stesso modo che la Grecia conquistata arriva a dominare culturalmente i Romani, i Persiani riusciranno a mantenere la loro identità  sotto la nuova dominazione che per certi aspetti ne verrà trasformata. Infatti allorché il centro di gravità del mondo mussulmano si sposta, nel 750, dalla Damasco Omeyyade alla Bagdad degli Abbassidi, il califfato verrà ad ereditare in larga misura quella che era stata la struttura statale sassanide, fattore che contribuirà grandemente alla potenza ed allo splendore della capitale di Harun al Rachid e di Al Mamun. Da quel momento basterà poco tempo affinché la lingua persiana torni a sostituire l’arabo sull’altipiano iraniano ed attraverso l’opera di Avicenna, gli splendori di Isfahan o dei poemi di Omar Khayyan, o delle miniature sefevidi, la Persia produrrà un gran numero di pregevoli realizzazioni, fra le più rimarchevoli della civiltà mussulmana e manterrà nel corso dei secoli una potente identità.   

Conquista della Siria della Mesopotamia e dell’Egitto

Praticamente contemporanea alla vittoria sulla Persia sassanide, la lotta degli Arabi contro l’Impero bizantino non porterà alla scomparsa di quest’ultimo ma ne ridurrà sensibilmente e pericolosamente lo spazio teritoriale che aveva mantenuto ad Oriente. Bisanzio, vincitrice con l’Imperatore Eraclio sui Sassanidi, si è fortemente indebolita nel corso di questa lotta prolungata. Inoltre le divisioni religiose interne hanno contribuito grandemente a minare l’autorità del Basileus, incoraggiando le aspirazioni separatiste della Siria e dell’Egitto.

Gli Arabi, eliminando lo stato cuscinetto dei Ghassanidi, penetrano nel 634 nel territorio dell’Impero d’Oriente ed il 20 agosto 636 Khalib ibn Walid batte le forza bizantine in Siria, sulle rive dello Yarmuk. A seguito della sconfitta Gerusalemme e Damasco cadono nel 638 nelle mani degli Arabi e nel 640 vengono occupate la Mesopotamia e l’Armenia bizantina (Alessandretta l’odierna Iskenderun). L’anno seguente, la morte di Eraclio e la crisi per la successione affievoliscono ulteriormente Bisanzio, proprio mentre gli Arabi stanno realizzando la conquista dell’Egitto. Infatti a partire dal 640 hanno stabilito all’inizio del delta del Nilo il campo di Al Fustat, che darà poi vita al Cairo. Nel 642 occupano per la prima volta Alessandria d’Egitto nella quale si installano definitivamente a partire dal 646. In direzione dell’Asia Minore gli invasori avanzano sino ad Amorium nel 647 e cercano di occupare Cipro. Nel periodo successivo Rodi, Cos e Creta vengono saccheggiate e la giovane flotta araba riporta, nel 655, persino una vittoria navale importante sui Bizantini sulla costa della Licia.

L’assassinio del 3° Califfo Othman e la lotta per la successione al Califfato fra Alì, il cugino di Maometto e Muawiya, figlio di Abu Sufyan della Mecca, impongono fra il 656 ed il 661 un forte rallentamento all’espansione mussulmana, il cui ritmo, specie in Asia Minore, riprende rapidamente dopo la vittoria degli Omeyyadi, tanto che la stessa Bisanzio viene assediata a più riprese. Le sue solide mura e l’uso del famoso fuoco greco salvano la capitale bizantina e il 678 segna la momentanea fine dei successi mussulmani in tale direzione.

L’impero di Bisanzio, minacciato tra l’altro anche dagli Slavi nei Balcani, dopo la tempesta ha potuto conservare la maggior parte dell’Asia Minore ma ha irrimediabilmente perduto la Siria, la Mesopotamia e l’Egitto.

I mussulmani assaltano nuovamente Costantinopoli, senza successo, nel 711 e 718 e solo a partire dal 740 la minaccia araba sulla città verrà definitivamente scongiurata. Occorrerà almeno un secolo a Bisanzio per poter riprendere l’iniziativa. Di fatto la ripresa di Bisanzio, coincidente con l’apogeo del regno della dinastia macedone, apre un nuovo capitolo dello scontro con i mussulmani, stavolta marcato dalla metodica riconquista del terreno perduto in Oriente. Il Basileus Niceforo Focas, riprendendo nel 961 l’isola di Creta, rimasta sotto il potere arabo per un secolo e mezzo, distrugge un pericoloso nido di corsari. A fronte dei combattenti della Jihad, il sovrano bizantino ha ottenuto che i suoi soldati, morti combattendo contro i mussulmani, possano essere considerati come dei martiri, aprendo così la via all’ideologia delle crociate.

Cipro e la Cilicia vengono riconquistate e Niceforo Focas riesce a riprendere nel 969 anche Antiochia ed Aleppo, dopo tre secoli di occupazione araba. Qualche anno più tardi, fra il 974 ed il 975, Giovanni Tzimisces condurrà l’esercito bizantino fino a Damasco, S. Giovanni d’Acri, Sidone e Beirut, ma tali riconquiste non saranno definitive, in quanto un nuovo soggetto mussulmano, i Turchi Selgiucidi, verrà a rilevare il testimonio lasciato dagli Arabi, rinnovando con vigore la spinta espansiva.

Questi infatti intervengono in Asia minore nell’anno 1000 e la sconfitta subita da Bizanzio il 19 agosto 1071 a Mantzikert, nel Curdistan, apre una nuova pagina della storia dell’Oriente nel quale un nuovo popolo, alfiere dello stendardo del Profeta, metterà fine quattro secoli più tardi all’Impero Romano d’Oriente e dal quale lo stato ottomano, installandosi sulle rive del Bosforo, recupererà molte delle tradizioni.

Conquista dell’Africa del Nord

Riconquistata dai Bizantini all’epoca di Giustiniano, l’antica Africa del Nord romana, costituiva una terra di conquista per gli invasori arabi, giunti fino a Tripoli già dal 643. La fine della civiltà romana aveva determinato l’invasione di Vandali, il ritorno delle tradizioni berbere nelle campagne ed inoltre l’assenza di autorità dei governatori di Bisanzio, il più delle volte in rivolta contro il potere centrale, lasciava l’area senza una vera coesione politica, facilitando così la conquista araba. Dopo una prima razzia nel 647 ed il periodo di stasi susseguito all’assassinio del Califfo Othman, l’Africa de Nord viene nuovamente attaccata dagli Arabi nel 655. Nel 660 Okba ibn Nafi fonda in Tunisia la piazzaforte di Kairouan e nel 681 lo stesso comandante raggiunge fugacemente anche le coste dell’Atlantico e la valle dello Chelif in Marocco.

La conquista dell’Africa da parte degli Arabi però non presenta le stese caratteristiche di rapidità osservate in Mesopotamia, in Persia, in Siria ed in Egitto. I Berberi del Maghreb resistono gagliardamente ed arrivano persino a conquistare per breve tempo anche Kairouan.  Ma alla fine sono battuti e nel 698 la Cartagine bizantina viene occupata. Questa sarà rimpiazzata da Tunisi per la sua posizione meno vulnerabile ad un attacco navale nemico. Ma la rivolta berbera non demorde, Un nuovo capo locale si impone, il celebre Kahina, che dopo lunghe lotte verrà inesorabilmente battuto. Solo nel 705 Mussa ibn Noçair, Governatore dell’Ifrikia, praticamente indipendente dall’Egitto, riesce a sottomettere tutto l’ovest del Maghreb, il Marocco, da Tangeri a Sidjilmassa.

Sebbene rapidamente islamizzato, il Maghreb oppone nondimeno una ulteriore resistenza originale. Infatti diviene in grande maggioranza seguace del Karigismo (“uscire”), una ala scissionista dell’Islam, vicina agli Sciiti, uscita dai partigiani di Alì, 4° Califfo, cugino e genero del Profeta. I Karigitiescono” appunto dalle file degli Alidi (seguaci di Alì), perché rimproverano al Califfo Alì di aver accettato un compromesso con il suo avversario Omeyyade Muawiya. Professanti un puritanesimo ugualitario, i Karigiti affermano che ogni mussulmano può diventare Califfo e che non c’è bisogno a tal fine di essere un discendente del sangue del Profeta. Essi diventano gli alfieri dei nuovi convertiti scontenti della pressione fiscale che viene loro imposta dalle famiglie dei “vecchi credenti” arabi discendenti dei conquistatori e detentori del potere reale.

In una nuova rivolta nel 740 un armata araba viene distrutta dai Berberi marocchini che, due anni più tardi, si ripetono contro un nuovo esercito inviato contro loro dalla Siria. Il Governatore dell’Egitto riesce a salvare Kairouan e la rivolta vincente dà origine ai regni di Tiaret e Tlemcen. La reazione non si fa però attendere e nel 772 le forze egiziane battono finalmente i ribelli in Tripolitania, ma non ottengono alcun risultato nel Maghreb, che da questo momento sfuggirà a qualsiasi controllo del califfo abbasside di Bagdad.

La volontà di indipendenza del Maghreb persiste anche nel periodo successivo e si esprime all’inizio del 10° secolo con la fondazione da parte di Obeid o Ubaid Allah del califfato sciita fatimide, che si appoggia sulle tribù sciite della Piccola Cabilia. Questi peraltro deve far fronte ad un ultimo sussulto del Karigismo con la rivolta di Abu Yazid “uomo dell’Asino”, vinto infine nel 947.

In conclusione, sebbene la massa dei Berberi sia stata rapidamente guadagnata all’Islam, del quale adotta una lettura rigorosa con il Karigismo ed il Malekismo sunnita, nondimeno la popolazione del Maghreb, etnicamente diversa dagli Arabi conquistatori, ha voluto mantenere una propria identità ed una forte volontà di indipendenza rispetto ai conquistatori orientali.

La Spagna: “Conquista” e “Reconquista”

Decisamente più rapida di quella dell’Africa del Nord, la conquista della Spagna da parte degli Arabi è stata facilitata dalla crisi profonda che attraversava allora il regno dei Visigoti. Nel breve spazio di qualche anno Tarik e Mussa si impadronisco di quasi tutta la penisola iberica ad eccezione dei ridotti montani dei Baschi e delle regioni della Cantabrica e delle Asturie, considerati dagli stessi invasori di difficile accesso e soprattutto di scarso interesse economico. Superando i Pirenei gli invasori raggiungono Tolosa, dove vengono fermati, saccheggiano Bordeaux, si spingono in Borgogna e nel 725 giungono a Sens, poco distante da Parigi. Nel 732 vengono infine fermati a Poitiers dalla cavalleria pesante austrasiana di Carlo Martello. Poco più di vent’anni saranno sufficienti ai Carolingi per ricacciare gli Arabi al di là dei Pirenei e nel 9° secolo viene quindi costituita la Marca di Spagna che darà origine alla Catalogna e che costituirà una delle basi di partenza della futura “Reconquista”. Di fatto la riconquista della Spagna non muoverà i suoi passi significativi prima dell’11° secolo. In ogni caso la maggior parte della penisola iberica, dall’inizio dell’8° secolo, si trova sotto la dominazione arabo - mussulmana. Fino al 10° secolo i cristiani “Mozarabi” - che parlano vivono e si vestono alla maniera degli Arabi - rimangono maggioritari nell’insieme di Al Andalus e la minoranza dominante, derivata dai conquistatori, accorda loro - come agli Ebrei, l’altro popolo del Libro - lo statuto del Dhimmi, di “protetti”, tollerati e sottomessi ad una serie di discriminazioni e ad una tassa speciale, ma liberi di continuare a praticare la loro religione entro certi limiti.

Questa relativa tolleranza d’altronde, non dura oltre l’11° secolo quando un nuovo Islam da combattimento, diverso dalle raffinatezza della civiltà andalusa, viene imposto dai nuovi invasori Almoravidi o Almohadi, venuti dal deserto mauritano e dalle montagne dell’Atlante.

Peraltro nello stesso periodo la crescita di potenza dei regni cristiani del nord, appoggiati da un Occidente in piena ripresa, consente di respingere metodicamente la presenza mussulmana. Alla fine della Grande Reconquista del 13° secolo, il piccolo Regno di Granada non è altro che l’ultima vestigia di Al Andalus dei grandi Califfi Omeyyadi di Cordova, che sarà definitivamente sradicato dalla Spagna alla fine del 15° secolo, nel 1492, quando Boabdil, ultimo Califfo, consegnerà ai Re Cattolici l’ultimo avamposto di Granada.

La confrontazione nella penisola iberica conoscerà un ultimo strascico nell’episodio nel 17° secolo che vede l’espulsione dalla Spagna di una minoranza moresca, rimasta attaccata alla tradizione mussulmana e pertanto considerata non assimilabile.

Espansione verso l’India

Al di là dell’altipiano iranico i conquistatori arabi - che hanno superato l’Amu Daria, presso Samarcanda e affrontato nel 751 una armata cinese dell’imperatore Tang sul fiume Talas - sono penetrati nello spazio indiano a partire dell’inizio dell’8° secolo. Il Sind, che corrisponde al bacino inferiore dell’Indo, viene conquistato nel 710, ma i nuovi arrivati, sebbene arrivati a Multan nel Punjab, non sono in condizione di dominare completamente l’area (tanto da accordare straordinariamente lo statuto di Dhimmi agli Indù, pur non facenti parte dei popoli del Libro), né, ancor peggio, di proseguire. La ridotta consistenza dei loro effettivi non consente per il momento di affrontare il deserto del Thar, che si estende all’est dell’Indo e soprattutto gli agguerriti eserciti dai Rajah locali, appoggiati da elefanti di guerra. Bisogna infatti attendere il 10° secolo quando un governatore turco del Khorassan (una regione ad est della Persia) si dichiara indipendente ed installa la sua capitale a Ghazni nell’Afghanistan. E’ da questa regione che un discendente dei Ghaznevidi, tale Mahmud (998 – 1030), attirato dalle favolose ricchezze del Punjab, decide di intraprendere la conquista della regione.

A partire dal 1002 Mahmud, lancia dalla base di Peshawar, nel Pachistan, dei raids annuali devastatori. Nel 1008 batte a nord di Srinagar, nel Kashmir, una coalizione di principi indù e convinto delle sue forze, dieci anni più tardi supera lo Yamuna per raggiungere Mathura, celebre per il suo santuario indù dedicato al dio Khrisna, che rade al suolo senza esitazione.

Nel 1019 cancella dalle carte dell’epoca il regno gupta di Harsha, a sud est di Delhi, massacrando tutta la popolazione della capitale Kanauj e distruggendo tutti i suoi templi. Alla fine della campagna riporta a Ghazni un enorme bottino, attribuendosi il titolo di “Pilastro dell’Islam”. Fondata nel 1022 la città di Lahore (Punjab pachistano), continua nella sua opera distruttrice e nel 1025 lancia un raid che lo porta oltre il Rahjastan, dove, come al solito, semina morte e distruzione. Guerriero e saccardo, predatore più che missionario, Mahmud considera l’India come una terra di razzia e le sue spedizioni non hanno determinato la conversione degli indigeni. Suo figlio Masud, lanciato sulle tracce del padre, verrà però disastrosamente fermato davanti alle mura di Lahore nel 1043, segnando così il limite estremo della potenza ghaznevide.

Nel periodo successivo saranno gli Afghani di Ghor (Ghoridi), guidati da Mohammed Ghur, che continueranno l’azione contro l’India e arriveranno ad avere ragione, nel 1192, della resistenza dei guerrieri del Rajahstan e del Gudjerat, saccheggiando nel 1194 la città santa di Benares e sterminando tutti i monaci buddisti. Anche il Bengala viene invaso nel 1204 ed i conquistatori che hanno praticamente annientato una eredità culturale bimillenaria, possono a questo punto imporre la loro legge dall’Hindukush fino al delta del Gange.

Questo Impero, fondato unicamente sul saccheggio ed il terrore non può durare ed è un turco, Iltumish, che fonda il Sultanato di Delhi, riconosciuto dal Califfo di Bagdad, che, poco dopo, comincia a sua volta ad essere minacciato dai Mongoli di Gengis Khan.

Quando nel 13° secolo l’afghano Ala Ud Din scaccia la dinastia del “Sultani schiavi”, regnante (1210 - 1290) a Delhi, ha nuovamente inizio un regime di terrore. Massacri e saccheggi diventano la regola nel nome della religione. Tutta l’India del Nord viene sottomessa ed i conquistatori avanzano nel sud nel Deccan e fino a Madurai, nel paese dei Tamil, ma nel 14° secolo l’ascesa del regno Indù di Vijayanagar (durato fino al 1500) oppone una solida diga all’espansione mussulmana, che, nello stesso tempo, viene seriamente scossa dall’irruzione in India delle orde di Timur Lang, ovvero Tamerlano.

Quando le sue truppe conquisteranno Delhi, avverrà il massacro di oltre cento mila abitanti ed il sultanato mussulmano non riuscirà più a sollevarsi completamente da questa bufera. A partire dal 16° secolo l’espansione della potenza mongola favorirà la nascita in India, con Babur (1483 - 1530), di un nuovo impero mussulmano destinato a durare nel tempo. Babur, che discende per parte dei genitori dal mongolo Gengis Khan e dal turco Tamerlano, è erede del Principato del Ferghana (Ubzekistan) e fra il 1504, presa di Kabul ed il 1522, presa di Kandahar, diviene padrone dell’Afghanistan e nel 1524 inizia la campagna per la conquista dell’India, eliminando e sostituendosi, nel 1526, alla dinastia afghana dei Lodi. Ha così origine la Dinastia indiana dei Gran Moghul, i cui grandi sovrani, come Akbar di Humayun dal 1556, Jahangir (1605 - 1627), Jahan Shah (1628 - 1658) ed Aurengzeb (1658 - 1707), saranno piuttosto dei sovrani indiani che dei principi mussulmani. Questi potranno infatti stabilire sulla piana indo - gangetica una dominazione strutturata e durevole, adottando primariamente una attitudine tollerante nei confronti dei loro soggetti indù, Ciò nondimeno in India rimarrà indelebile la tradizione ed il ricordo di una secolare dominazione mussulmana predatrice e terrorista, cosa che aiuta a spiegare la persistenza al giorno d’oggi di una ostilità religiosa accanita, mantenuta dall’antagonismo Indo - Pachistano e dal risorgere del fondamentalismo islamico ed indù.

Nota conclusiva

Dalla morte del Profeta al 715 circa, il Califfato islamico, sotto la spinta di un espansionismo militare dilagante e sorretto da un vigoroso fanatismo religioso, raggiunge la sua massima dimensione territoriale, estendendosi dai Pirenei, all’ovest, fino all’Indo ed all’Asia Centrale, ad est. Si tratta del più grande impero della storia del mondo, prima della iniziale reazione di contenimento ad opera dei Franchi e di Bisanzio.

L’espansione mussulmana nel mondo, essenzialmente guerriera, ha in effetti sconvolto vaste regioni, annientando diverse antiche civiltà. La sua azione violenta ha però inevitabilmente suscitato alle frontiere di Dar al Islam (casa dei Credenti o il territorio dei Mussulmani) delle vivaci reazioni che hanno permesso, nel corso dei secoli successivi, inizialmente il contenimento e quindi le azioni di riconquista temporanee o definitive. Fondato essenzialmente sul controllo del commercio fra l’Asia e l’Europa, l’impero mussulmano subirà un colpo mortale alla sua potenza nel 16° secolo da parte degli Occidentali, attraverso l’effettivo ed efficace aggiramento da Sud, attraverso le vie marittime, delle sue rotte commerciali, determinando così la fine del suo espansionismo e l’inizio del suo secolare inarrestabile declino.

Ma é anche e soprattutto all’interno del mondo mussulmano che la religione trionfante del Profeta ha dovuto confrontarsi con la pervicace persistenza di realtà etniche differenti e con delle tradizioni ed eredità culturali millenarie estremamente radicate. Questo spiega infatti le diverse forme assunte dall’Islam al giorno d’oggi nei diversi ambienti geografici o nelle diverse società nelle quali si è imposto.

 

[1] I seguaci di Nestorius, Patriarca di Costantinopoli dal 428 al 431 d.C., condannato come eretico dal Concilio di Efeso, nel 431 d.C. i quali sostenevano che " in Cristo c’erano due nature e due persone". Divenuta Chiesa Nazionale persiana nel 2° secolo, oggi conta ancora aderenti in Iran, Iraq e Siria.

[2] Originati dal monaco Eutiche, i Monofisiti, dal greco, monos, unique, et physis, natura - in opposizione alla tesi del Concilio di Calcedonia (Kadikoy) del 451 d.C. - sostenevano e sostengono che "in Cristo le due nature (Divina e Umana) erano unite fin da fare una sola natura. Sopravvivono oggi nei Copti, nei Siriaci Giacobiti e negli Armeni.

[3] 1° Concilio ecumenico tenutosi nel 325 nel quale fu condannato Ario e fu formulato il Credo dei Cristiani.

[4] Arianesimo, da Ario, prete africano, era la setta che credeva che il Cristo era il solo vero Dio, con semplice sembianza Umana"; Condannato dal Concilio di Nicea (Iznik) (325), riabilitato da Costantino e definitivamente condannato  da Teodosio (380).

[5] movimento ereticale sorto nel 4° secolo ad opera del vescovo Donato che sosteneva che la Chiesa è formata solo dai santi. Combattuto da S. Agostino scompare con la conquista mussulmana.

[6]  La dottrina cristiana ( cattolica) che sosteneva e sostiene che nel Cristo sono insite due nature: quella di "vero Dio" e quella di "vero Uomo".

[7] Religione dell’Iran pre islamico derivata da Ahura Mazdah che ne è il Dio Supremo. E chiama anche Zoroastrismo da Zoroastro (o Zarathushtra) suo profeta iranico e innovatore. Il male nel mondo è origine del Dio Angra Mainyu (Arimane) che alla fine del mondo perderà tutti i suoi poteri. L’uomo partecipa alla lotta contro il male.

[8] Religione fondata nel 3° secolo da Mani con il nome di “Chiesa della Giustizia o Religione della Luce”. Fondata sul dualismo Luce -  Materia (bene male), il primo dei quali è destinato a prevalere. Sopravvissuta sino al 1100 in Oriente.

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