Consorteria De' Rossi d'Oltrarno
Questa famiglia, derivante da un ramo della "Consorteria" dei ROSSI (emblema un drappo rosso), è senza dubbio da considerare certamente una delle più illustri e cospicue casate fiorentine del medioevo (1200 - inizi 1300). Di origine longobarda, la casata ebbe - secondo quanto afferma l'Ademollo alla pagina 1749 del suo lavoro: "Marietta de' Ricci o Firenze al tempo dell'assedio" (Chiari - Firenze, 1845) - il dominio di molti castelli nel territorio di Siena e di Volterra. Le prime notizie della famiglia, riferite a Firenze, risalgono al 1100 e, più precisamente, al 1173 quando troviamo fra i membri del Governo comunale con la carica di Console: i fratelli (germani) BERLINGERII et JACOPPI filii GUITTI del RUSSO. Questa dignità fu in seguito ricoperta da GHERARDO nel 1197 e successivamente da BERINGHIERI JACOPPI o GIACOPPI (di Jacopo) nel 1204 e da LOTTERINGO di Jacopo nel 1237. JACOPO e BERLINGERI o BERLENGHERIO furono dunque i primi personaggi storicamente di rilievo della famiglia che, per distinguersi dagli altri rami della Consorteria (dei Rossi; de RUBEIS), si denominò inizialmente ACCOPPI, GIACOPPI o JACOPPI e quindi JACOPI, per corruzione del primitivo nome del loro personaggio più illustre e capostipite: IACOPO. .(In allegato 1A, elenco dei Consoli del Comune di Firenze)
La famiglia, nel corso del 1100, cresce di prestigio ed in un documento del 1176 troviamo un GIUDA (JUDAS) Iacopi de’ Rossi fra i mallevadori fiorentini nell’atto di cessione a Firenze del Castello di Poggio Bonizio da parte del Comune di Siena. Questa casata fu detta anche Iacopi d'Oltrarno in quanto, fin dai tempi più antichi, essa possedette in Firenze case, torri e loggia nel quartiere d'Oltrarno, in prossimità della Chiesa di Santa Felicita. Al sorgere delle fazioni nella città del giglio, gli Jacopi de' Rossi parteggiarono decisamente per i Guelfi dei quali, per un lungo periodo, furono i capi incontrastati. Per questo motivo il loro blasone in una versione porta sul drappo rosso l'emblema del partito guelfo e cioè il Capo d'Angiò ("D'azzurro ad un lambello (rastrello) di rosso di quattro o cinque pendetti inframmezzati da tre o quattro gigli d'oro").
Cattolici fanatici (così li definisce il Davidsohn), convinti ed intransigenti, ebbero da frate Piero da Verona il comando della parte cattolica nelle lotte contro gli eretici patarini a Firenze. Durante queste lotte gli IACOPI si dimostrarono valorosi combattenti ed accorti capi riuscendo a scacciare da Firenze tutti gli eretici. Per la loro intransigenza, in nome e per il trionfo della fede, essi - come afferma l'Ademollo - non mancarono di macchiarsi di massacri ed eccidi fra gli uomini della parte avversa. In ogni caso da questo evento derivò un enorme prestigio alla casata che, per ricordare questi fatti, volle erigere una colonna davanti alla Chiesa di Santa Felicita, sul luogo ove più sanguinosi furono gli scontri (RICHA: volume IX, pagine 322 e seguenti). Imponendosi progressivamente in città, gli IACOPI estesero la loro fama anche al di fuori di Firenze, tanto che molti dei suoi membri furono chiamati più volte a ricoprire in altre città la prestigiosa carica di Podestà. Fra questi, in particolare, ricordiamo:
- BERLINGERIUS o BERINGHIERI JACOPPI, figlio del citato JACOPO de' Rossi, Podestà di Assisi nel 1226;
- ANDREAS JACOPPI, fratello del precedente, Podestà di Assisi nel 1225;
- BERNARDO, Cavaliere, Podestà di Reggio Emilia nel 1289 e successivamente Capitano del Popolo di Città di Castello.
Agli inizi del 1200 la famiglia IACOPI o IACOPPI risulta chiaramente egemone nella città del giglio; a tal proposito il Malespini ricorda, nelle sue "Historiae Fiorentine", i nomi i famiglie di Firenze note intorno al periodo della incoronazione di Federico 2° di Svevia e rileva che: "..cominciarono ad essere Grandi che prima di poco tempo se ne faceva menzione .......... i Mozzi, gli IACOPI o IACOPPI detti de’ Rossi, i Frescobaldi: tutti questi venuti in piccol tempo, perrocchè erano ancora mercatanti e di piccolo cominciamento; poi i Tornaquinci ed i Cavalcanti di piccolo cominciamento ed erano mercatanti ed il simile i Cerchi; ed inoltre cominciarono questi sopradetti a sormontare....... ".
Da quanto precede si evince chiaramente che la casata, oltre al mestiere delle armi, esercitava anche la mercatura, argomento sul quale torneremo più avanti.
Verso il 1250 gli Iacopi appartengono ormai stabilmente ai Maggiorenti della città. Il Davidsohn, a tal proposito (Volume II, pagina 430) ci dice che poco prima del 1250 siedono stabilmente nel Consiglio del Comune di Firenze: "Dominus" STOLDO o ISTOLDO Beringhieri Jacoppi o Giacoppi dei Rossi (figlio di Beringhieri o Berlingeri suddetto e fratello di FORNAJO o FORNAINO o FORNARIUS - Ademollo opera citata) ed altri due "Cavalieri"(1) della stessa casata. Stoldo di Berlingerius Jacoppi porta quindi il titolo di “Dominus”, che lo pone inequivocabilmente fra i maggiorenti della città ed anche il suo matrimonio con una donna dei Canigiani, una delle famiglie più i vista dell’epoca (vds. pag. 50 de “Il Comune di Firenze alla fine del Dugento” dell’Ottokar), contribuisce a provare la sua elevata condizione sociale. La famiglia subisce però un temporaneo tracollo della sua fortuna politica fra il 1260 ed il 1266 - 67 e cioè nel periodo compreso fra le Battaglie di Montaperti e quelle di Benevento e Tagliacozzo. Nella sfortunata giornata dei guelfi a Montaperti (in cui, di memoria dantesca, l'Arbia si colorò di rosso) troviamo nelle file dei guelfi molti JACOPI e tra questi:
- FORNAJO o FORNARIUS di Beringhieri Jacoppi, che era Distringitore e Consigliere;
- STOLDO (già citato), Alfiere dei Fiorentini d'Oltrarno;
- MARZOPPINO di ORMANNO Jacoppi, nel Corpo dei Feditori;
- TONE o FANTONUS di Fornajo o Fornaino, anch'egli nei Feditori.
La sconfitta dei guelfi decreta per la famiglia l'esilio da Firenze e la confisca dei beni da parte dei ghibellini. Non è improbabile che, a seguito del rovescio di Montaperti, qualche ramo degli Iacopi si sia trasferito definitivamente lontano dalla città del Giglio in altri luoghi più sicuri ed ospitali o dove aveva preventivamente accantonato delle risorse per l'emergenza. Risulta infatti che altre famiglie fiorentine, come i Cerchi, i Velluti, i Mozzi ed altri, abbiano trasferito gran parte delle loro disponibilità a Perugia per evitare, appunto, le ritorsioni da parte dei ghibellini (i Cerchi, i Velluti ed altri chiesero addirittura la cittadinanza perugina, come risulta dall'Archivio Comunale di Perugia, annali 1266 - 69, Libro delle Sommissioni; Bollettino di Storia Patria per l'Umbria IX, pag. 122). Questo fatto potrebbe spiegare anche perché uno IACOPO Iacopi, podestà di Milano, era ritenuto nativo di Perugia. Dopo la Battaglia di Benevento, però, i guelfi riebbero di nuovo il sopravvento e gli IACOPI poterono rientrare a Firenze, carichi di prestigio per le lotte sostenute e molti dei suoi membri, con la dignità di "Cavaliere o Miles" li vediamo comparire nel documento della pace delle "parti", siglato nel 1280. Personaggio di estremo rilievo nella casata è certamente da considerare STOLDO Beringhieri Giacoppi/Jacoppi de' Rossi, già più volte ricordato. Egli, nel 1258-59, fu eletto Podestà di Arezzo (vds. Malespini) ed al comando delle truppe aretine conquistò la città di Cortona. Dopo Montaperti dovette fuggire in esilio da Firenze e si rifugiò presso la Curia romana da dove diresse la lotta contro i ghibellini. Per il suo valore e l'appoggio della Curia, egli divenne uno dei Capi riconosciuti della Parte Guelfa. Nel 1266 a Benevento egli portò addirittura il Gonfalone della Chiesa contro le forze di Manfredi Hohenstaufen di Svevia e, si narra, che sia stato il primo a salire sulle mura della città ad inalberarvi lo Stendardo vincitore. Rientrato a Firenze, STOLDO, appoggiato alla Chiesa, diviene il Capo della Parte Guelfa (2) e, nei documenti dell'epoca è sempre indicato con il titolo di "Dominus" (Dominus, a quei tempi, stava a significare che egli, per possibilità economiche, poteva pagare almeno un cavallo da "cavallata", unita minima della cavalleria fiorentina).
Che la famiglia IACOPI fosse cospicua ce lo dimostra inoltre il fatto che, il 9 marzo 1297 ad Empoli, il Conte Inghiramo di Biserno, prima di accettare la nomina a Capitano Generale della parte guelfa, pretese che si facessero garanti per il pagamento dello stipendio, personaggi delle casate Buondelmonti, Altoviti, Della Tosa o Tosinghi, IACOPI, Adimari e Bardi (Davidsohn, IV - 1, pagina 409).
STOLDO, comunque, godette di eccezionale prestigio nella sua città ed uno dei segni di questa stima è da vedersi nella mite condanna che fu irrogata ad un suo figlio di nome MANFREDINO. Il Davidsohn, infatti, ci dice che:.. "Nell'aprile 1284 MANFREDINO, bastardo di STOLDO Jacoppi dei Rossi, assalì con una grande spada Neri degli Embriachi e lo avrebbe certo ridotto a mal partito se l'aggredito non fosse stato salvato dall'intervento del fratello. Lo scontro avvenne in Borgo Spidigliosi (attuale Via de' Bardi), di là di Ponte Vecchio. MANFREDINO fu condannato a morte il 20 aprile 1284 ma dovette cavarsela in grazia della grande considerazione in cui era tenuto suo padre; poco dopo egli volle liberare a forza un tale che i parrocchiani del Popolo di S. Pier Gattolino avevano rinchiuso nella corte della vicina Chiesa per portarlo davanti al Podestà, sotto l'accusa di aver derubato una donna sulla pubblica via. Nella sua collezione di ribalderie MANFREDINO si rifiutò di obbedire alla nuova legge inserita nello statuto nel 1281, con la quale tutti i Magnati e tutti coloro che facevano parte delle loro famiglie, erano obbligati a prestare giuramento ed a dare sicurtà (garanzia) di 2.000 libbre che non avrebbero aggredito alcuno, e solo in quel caso (pagamento della cauzione) avevano licenza di vestire corazza, elmo, cosciali, guantoni e scudo, ma senza portare armi d'offesa. (3) Ora MANFREDINO, quando fu citato a presentare mallevadori ed a prestare giuramento, non volle comparire per non umiliarsi, e così si comportò l'anno dopo. Tutte le volte che non volle comparire MANFREDINO fu condannato ma non scontò mai la pena ed, in ultimo, le ammende inflitte gli furono generosamente condonate." .... "Un altro ,membro della famiglia CORSELLINO Jacoppi de' Rossi fece ferire ad uno dei suoi masnadieri un messo dell'Ospedale di Prato, che pare gli recasse una richiesta o una notizia sgradita. Anche a lui, in virtù di STOLDO, gli fu condonata la pena e, come il bastardo MANFREDINO, non volle mai dare sicurtà." D'altronde le pene pecuniarie furono rese inefficaci dall'usanza fiorentina dell'Accatto, che consentiva la contribuzione al pagamento dell'ammenda comminata al Grande o Magnate. Questi, infatti, esigeva con la fora dai suoi colonie dipendenti e, con buone ed energiche parole, dagli iscritti del suo partito e dai mercanti - che volevano vivere tranquilli e fare affari - l'ammontare della sua ammenda. Dopo la pace fra le Parti, siglata dal Cardinale Latino nel 1280, gli IACOPI de' Rossi furono ammessi a far parte del governo della città, ed in particolare, la loro "Consorteria" ottenne il "Priorato" (4) nel 1285 nella persona di Arrigo del Boccaccio. I BOCCACCI erano appunto uno dei tanti rami della popolosa "Consorteria" dei Rossi e dei quali ci occuperemo più avanti. Nel 1285 troviamo ancora nel Consiglio de' Savi di Firenze il nostro STOLDO Giacoppi dei Rossi insieme al FANTONUS del FORNAIO o FORNARIO, sempre della stessa casata: STOLDO in questo periodo, nonostante l'età avanzata, è ancora una persona influente rispettata ed interviene spesso come oratore nel consesso consiliare, dove i suoi pareri sono ascoltati e seguiti:
- il 17 marzo STOLDO perora con successo il provvedimento che conferisce agli ambasciatori fiorentini, guidati dal Magnate Ser Ruggero Soderini, pieno mandato nella stipula, al Convegno di Sarzana, di una alleanza con le città di Genova e Lucca contro Pisa;
- il 17 aprile intervenne di nuovo nel problema della controversia con Genova in merito alla stipula dell'alleanza militare contro Pisa;
- il 14 maggio viene inoltre accolta nella stessa controversia la sua proposta di mandare una ambasceria a Genova per spiegare e giustificare l'atteggiamento ambiguo di Firenze ella questione pisana. Nella arringa STOLDO aveva, inoltre, raccomandato di corresponsabilizzare nella decisione finale anche le Capitudini delle Arti. Il giorno dopo (15 maggio), infatti, viene convocato un nuovo Consiglio dei Savi al quale parteciparono anche le Capitudini delle dodici Arti Maggiori (Majores) di Firenze; il 31 maggio, nonostante la decisione di dichiarare guerra ai pisani, la politica fiorentina, agli inizi del mese di giugno, continua ad essere più che mai ambigua ed i responsabili delle città sembrano voler prendere tempo nell'inizio delle ostilità. Nessuna decisione venne presa nel Consiglio dell'8 giugno, dopo di che il Comune alleato di Genova ed i mercanti fiorentini legati al commercio genovese avevano sollecitato Firenze all'azione. A seguito dell'intervento mediatore e monito del Papa nella controversia pisano - fiorentina, e placate con contribuzioni in denaro l'impazienza e le richieste genovesi, i fiorentini riunirono di nuovo il Consiglio de' Savi il 12 giugno 1285. In tale occasione i Priori, su consiglio di STOLDO, decisero di non inviare, come richiesto, ambasciatori al Papa, ma solo un personaggio influente (Tommaso Spilliato de' Mozzi) che andasse a ROMA a scusarsi per non aver aderito alla mediazione della Curia. In questo caso il consiglio di STOLDO mirava a non far perdere a Firenze sicuri vantaggi in una prossima pace richiesta dai pisani.
Non si hanno più notizie di STOLDO a partire dal 1286, il che fa pensare ad una repentina morte del prestigioso Capo della Parte Guelfa e protagonista indiscusso della storia della sua città. Membri della Casata, come già visto per STOLDO, continueranno a partecipare in prima persona, sia nel Consiglio dei Quattordici, massimo consesso governativo fiorentino istituito dal Cardinal Latino, sia a tutte le decisioni inerenti ai criteri per l'elezione dello stesso. Ma nel 1293, a seguito del movimento popolare di Giano della Bella, gli IACOPI de' Rossi furono definitivamente dichiarati "Casato Magnatizio o dei Grandi o Baroni" e per questo esclusi definitivamente dal Consiglio, dal Consolato delle Arti e dai Consigli del Capitano del Popolo. Il casato fu riconfermato tra i Grandi nelle disposizioni del 1311 ed, in seguito a ciò, i suoi membri non poterono più ottenere magistrature. (5) Il colpo definitivo alla struttura di potere delle Consorterie viene infatti portato dal movimento di Giano della Bella e dai suoi Ordinamenti di Giustizia. Il Villani ricorda infatti che l’azione di Giano della Bella fu favorita dalle brighe dei Grandi: "...e questa novità e cominciamento di popolo non sarebbe venuta fatta a popolani per la potentia de' Grandi, se non fosse che in que' tempi i grandi di Firenze non furono tra loro in grandi brighe e discordie.... com'erano allora ch'egli avea grande guerra tra gli Adimari e Tosinghi, e tra ROSSI e' TORNAQUINCI, e tra i Bardi e' Mozzi, e tra i Cavalcanti e' i Buoldelmonti, e tra certi Buondelmonti e' Giandonati, e tra i Bostichi e' Foraboschi, e tra Foraboschi e' Malespini, e tra Visdomini e' Falconieri, e tra Frescobaldi insieme e tra la casa di Donati insieme e più altri casati...." Va inoltre aggiunto che in Firenze, dopo il movimento di Giano della Bella e la definitiva affermazione del Partito Guelfo, cominciarono le lotte tra i Guelfi Bianchi ed i Guelfi Neri. Gli IACOPI parteggiarono per la fazione di Neri che ebbero il sopravvento sulla parte avversa, anche per il pesante intervento di Papa Bonifacio 8° Caetani. La vittoria dei Guelfi Neri decretò l'esilio dei Bianchi, tra i quali Dante Alighieri. Alla incoronazione di Papa Caetani, peraltro, fu presente SIMONE Iacopi de' Rossi il quale faceva parte della famosa ambasceria dell'Imperatore d'Oriente, composta di 12 fiorentini. Altro personaggio di rilievo nella casata fu certamente "Messer" PINO di Stoldo che, nel 1300, ricopre la carica di Podestà di Bologna e, nel 1306, Capitano e Governatore della stessa città. Egli nello stesso anno, sempre a Bologna, fece fallire, per conto dei Fiorentini, le trattative di pace tra i Guelfi Neri ed i Bianchi, condotte con la mediazione del Cardinal Legato della Curia: Napoleone Orsini. L'arbitrato, infatti, andò a monte a causa di una sommossa popolare (23 marzo 1306) che costrinse il Cardinal Legato ad abbandonare Bologna. Lo stesso PINO che, secondo gli atti del notaio fiorentino Giovanni Berghi o Benghi, aveva sposato una donna della potente casata "popolare" dei Canigiani, il 3 novembre 1310 fu messo a capo, insieme a Messer Gherardo o Gerardo de' Bostichi, della ambasceria fiorentina presso la Corte papale di Clemente V ad Avignone. Questa ambasceria aveva luogo in concomitanza con quella della Lega Guelfa toscano - lombardo - romagnola. Dell'ambasceria di Firenze, che giunse ad Avignone poco prima del Natale del 1310, facevano inoltre parte due giuristi, un notaio e Messer Fazio o Bonifazio Renaldi da Signa. L'ambasceria durò ben otto mesi ma Messer PINO morì ad Avignone nel 1311 prima della sua conclusione e poco dopo lo seguì nella tomba anche Messer Gherardo. Sembra che Niccolò, Cardinale e Vescovo Titolare di Ostia, facesse tributare speciali onoranze alla salma di PINO poiché, non solo i figli ed i nepoti di PINO inviarono una lettera commossa all'antico avversario dei Guelfi Neri, ma lo stesso Comune volle esternare, con prolisse parole, la riconoscenza al prelato che, sette anni prima, aveva dovuto fuggire da Firenze. (lettera del Comune in data 1° aprile 1311; lettera dei figli in data 7 aprile 1311). A dimostrazione di quanto grande fosse la fama di Messer PINO in Firenze, dopo la sua morte ad Avignone, su proposta di alcuni popolani, i Consigli della città deliberarono di armare Cavaliere del Popolo il figlio ed i due nepoti di PINO, in considerazione dei servizi prestati dalle due generazioni precedenti (STOLDO E PINO). Nel giorno di Pasqua (11 aprile 1311) STOLDO DI COPPO, BANDINO di LISCIO e GIOVANNI di PINO furono solennemente armati "Cavalieri" da Messer Diego (Guido?) De La Ratta, Maresciallo di Re Roberto ed il Comune di Firenze decise di spendere per la corte (festa) dei novelli cavalieri la somma di 1500 fiorini d'oro. Ma la generosità dei fiorentini fu limitata giacché, per onorare nei figli il guelfismo dei padri, fu imposta ai ghibellini ed ai Bianchi, tollerati in città un'imposta speciale col ricavato della quale si pagarono le spese. GIOVANNI di PINO, appena menzionato, fu inviato nel 1313 ambasciatore a Re Roberto di Napoli e morì nel 1345 mentre, come il padre, si trovava ambasciatore ad Avignone. GIOVANNI ebbe per figlio PINO, Cavaliere dello Speron d'Oro, il quale, nel 1337 fu Podestà di Faenza e nel 1357 Capitano del Popolo di Perugia. In ogni caso il Mecatti nel suo elenco dei Priori fiorentini cita la data del 1329 per un Priore degli IACOPI d'Oltrarno (de’ Rossi).
Nel 1340 PINO di GIOVANNI fu uno dei Capi della Sommossa dei Baroni e, nel fallimento della congiura, fu cacciato in esilio con tutti i suoi seguaci. Richiamato in Patria nel 1342 dal Duca d'Atene, Gualtiero di Brienne, ne divenne suo nemico e si rese benemerito della sua città per la cacciata da Firenze del Duca nel 1343. Per questo fatto PINO di GIOVANNI fu reinserito nel numero dei "popolani" ed eletto fra i riformatori dello Stato. Questa situazione, però, durò ben poco in quanto, non accettando la condizione di diminuito potere della sua famiglia, si alleò con i congiurati della famosa rivolta dei Magnati (1350) e, coinvolto nel suo fallimento, si unì ai Bardi ed ai Frescobaldi nella difesa dei loro palazzi. Per quest'ultimo avvenimento furono emessi di nuovo "bandi" di proscrizione contro di lui e la sua casata, in forza dei quali non poté più rientrare nella sua città. Viveva ancora esule nel 1360 quando Giovanni Boccaccio, personaggio al quale PINO era ricorso per tentare attraverso la sua mediazione di rientrare in città, gli inviò la famosa lettera consolatoria.
Fra gli altri personaggi di questa casata ricordiamo ancora:
- AMATO Iacopi, che l'11 marzo 1311, rivestendo la carica di Esecutore degli Ordinamenti di Giustizia del Comune di Firenze, e sedendo in giudizio nella casa di Pietro Benincasa, condannò a morte due popolani che avevano complottato per uccidere il vessillifero di una delle Compagnie del loro Sesto. "E' degno di nota che tale sentenza venisse poi nuovamente pronunziata ed aggravata dalla tortura per alcuni accusati dalle Corti ordinarie del Comune e poi in questa sua nuova dizione confermata dal Podestà" (Davidsohn, V, pag. 581).
L'ordinamento giudiziario fiorentino prevedeva la Corte del Podestà e la Corte del Capitano come "Corti Ordinarie". Esisteva inoltre una terza Corte Giudiziaria che era, dal 1307, quella degli esecutori degli Ordinamenti. Questo Magistrato aveva Balia (giurisdizione) a procedere contro le intese monopolistiche delle Arti, ma la sua funzione principale era quella di vegliare, per mezzo di una severa giustizia, a che gli Ordinamenti venissero osservati e che i popolani fossero protetti dalle prepotenze dei "Grandi": tutto fa pensare che il "tamburo", apposto nella sua residenza, non fosse mai vuoto di denunce che si riferissero a soprusi dei Magnati. Altro suo compito era quello di procedere contro coloro che provocarono tumulti o sedizioni per qualsiasi motivo. Per i compiti appena elencati questa Corte funzionava a latere ed al disopra di quelle ordinarie (Podestà e Capitano). Accanto alla Giustizia secolare esisteva, inoltre, quella ecclesiastica cui faceva capo il clero che, pertanto, non poteva essere perseguito dalla Giustizia Ordinaria (6);
- ANGELO, citato nel 1290 nel Volume 1° dell’inventario dell’Archivio Boncompagni, edito a cura di Gianni Venditti e Beatrice Quaglieri, Archivio Segreto Vaticano, 2008;
- BONACCORSO che nel 1318 esercita il mestiere di mercante ad Avignone e risulta avere degli interessi anche sulla piazza di Barcellona;
- NUTINO, ambasciatore a Perugia nel febbraio 1345;
- BERARDO o BERNARDO, ambasciatore il 27 agosto 1345 in Lombardia;
- BARNA, ambasciatore nel maggio 1345 in Lombardia;
- NOFRI di BARNA, ambasciatore per i Dieci di Balia;
- FRANCESCO, ambasciatore nell’aprile 1347 per i Dieci di Balia ad AREZZO;
- FRANCESCO, ambasciatore nel febbraio 1358 in Lombardia;
- ALBERTO, ambasciatore nel giugno 1368 a PERUGIA;
- GIOVANNI di CECCO o FRANCESCO di IACOPO, ambasciatore nell’aprile 1370 a BOLOGNA e nel 1372 Gonfaloniere di Giustizia;
- MANENTE, Vicario di FIRENZE a PESCIA nel 1370;
- DONATO e BARTOLO di IACOPO, ambasciatori a PISTOIA, rispettivamente nell’ottobre 1373 e nel marzo 1382;
- GUGLIELMO, ambasciatore a BOLOGNA nel settembre 1381;
- IACOPO di ROSSO, Capitano del Popolo di CITTA' di CASTELLO;
- VANNE IACOPI, come tanti altri membri della famiglia che svolgevano attività commerciali, esercitava a FIRENZE, associato ad un catalano, quella di albergatore.
Vi è da notare a riprova delle possibilità economiche della famiglia, più volte evidenziate, che le ambascerie erano a FIRENZE un incarico di grande prestigio e che le stesse, per non più di due volte all'anno, erano effettuate a spese dell'ambasciatore. Abbiamo precedentemente sottolineato, nel passo tratto dal libro del Malespini, che gli IACOPI de' Rossi erano "mercatanti" e dunque per tale motivo certamente iscritti ad una delle Arti. Con ogni probabilità gli Iacopi erano iscritti a diverse Arti ed in particolare a quella di Calimala (commercio di stoffe di importazione), del Cambio, della Seta o della Lana e forse anche a quella dei Giudici. Come è noto nei primi tempi del Comune fiorentino, specie a partire dal 1281, il potere cittadino fu in mano agli iscritti alle Corporazioni delle Arti ed, inizialmente, solo dagli iscritti alle Arti Majores potevano essere tratte le persone destinate alle cariche civiche e, quindi, al governo della città. Solo più tardi anche gli iscritti alle Arti Minores poterono partecipare al potere cittadino. Infatti nella sua organizzazione più completa, l’esercizio degli uffici a Firenze funzionava a livelli differenti: 1) i “Tre Maggiori” (7) (Signoria, composta dai Priori e dal Gonfaloniere di Giustizia e due Collegi consultivi, composti dai Buonuomini e dai Gonfalonieri di compagnia - gli Uffici Esecutivi), 2) gli Uffici Amministrativi (gli Otto di Guardia e Balia, Capitani di Parte Guelfa, ecc., più i Vicari e i Podestà inviati nelle città del dominio fiorentino), e 3) (al più basso livello) i Consoli delle Arti delle 21 Arti Maggiori e Minori. (8).
Una breve storia della nascita della prime corporazioni delle arti a Firenze
Nel Medioevo nella città di Firenze, approfittando delle lotte fra l’imperatore ed il papa o contro i suoi vassalli e dei vassalli fra di loro, il popolo inizia ad usurpare la libertà come i suoi signori avevano a suo tempo usurpato la tirannia, ma si fa attore di un grande fervore di attività che hanno bisogno di libertà di azione e di libertà di commercio. In tale contesto, la città, senza il permesso formale del suo signore immediato, il vescovo, si apre, spezzando, a lungo andare, il cerchio di ferro che la serrava, le vie di terra e di mare per smerciare i suoi prodotti. L’industria della lana, con le sue gualcherie, risulta una già un’attività molto prospera. Se manca la materia prima sul suo suolo male irrigato e mal coltivato, mal protetto, l’individuazione di vie di comunicazioni più facile e di trasporti meno onerosi consentono di surrogare tale carenza e di ricevere ugualmente le lane della Sardegna, della Barbaria, della Spagna, della Francia e dell’Inghilterra, per trasformarle in panni fini. Con il gusto innato, la città toscano fabbrica meglio di quanto fanno i Fiamminghi e quelli del Brabante. Essa riesce, con il suo saper fare, recupera e restaura i panni mal tessuti, dando loro una nuova colorazione. Questi panni acquisiscono una loro intrinseca qualità ed un valore completamente nuovo, risultando particolarmente richiesti, persino in Oriente, dove si scambiano con spezie droghe e colori, impiegati per tingerli. Allo stesso tempo i Fiorentini con il prezzo della vendita, riescono ad acquistare, in Francia ed in Inghilterra, un sempre maggiore numero di panni destinati ad una seconda preparazione.
L’industria della trasformazione dei panni fini, partendo da quelli comuni, che venivano chiamati panni ultramontani o franceschi, forma ben presto una branca dell’arte della lana. Questa branca riceve il nome della via dove essa apriva i suoi negozi ed i suoi laboratori, via che sfociava sul Mercato vecchio e che veniva designata, a volte con il nome di strada francesca e più spesso Calimala (callis malus), perché essa portava verso un luogo malfamato. Parlando dell’Arte di Calimala, si diceva volentieri anche “Arte dei Mercanti”, vale a dire dei mercanti per eccellenza.
Dopo l’arte della lana e la branca di Calimala, seguiva, nella gerarchia, l’Arte della Seta. Importata dall’Oriente da Ruggero di Sicilia, sin dal 1148, essa non ha potuto guadagnare il primo posto: i Fiorentini non erano abbastanza sicuri dei loro sbocchi commerciali per lavorare una grande quantità di questa materia prima, la cui manodopera, peraltro, decuplicava il valore iniziale. Cammini mal manutenzionati ed infestati da briganti, difficoltà di ottenere da Pisa l’accesso al mare, molteplicità, enormità di tasse di transito, di scarico, di deposito, ignoranza della scrittura, che rendeva impossibile una corrispondenza per mezzo di lettere con i paesi stranieri e necessità di continui viaggi per accompagnare direttamente o far accompagnare le sue merci, infine, quando si potevano utilizzare i vascelli di una città vicina, rischi ordinari del mare e della pirateria, l’odiosa consuetudine di confiscare le navi naufragate con il loro contenuto, tutto rappresentava un ostacolo per l’industria e per il traffico commerciale.
Le tre arti, della lana di Calimala e della seta non avrebbero mai avuto il loro sviluppo se i Fiorentini non le avessero favorite con la creazione dell’Arte dei Cambiatori o dei Banchieri, un elemento veramente nuovo specie nella forma che egli gli attribuiranno. Il loro spirito diretto e pratico aveva capito, al contrario della Chiesa e di Dante, che il denaro è una merce; esso può essere dato in affitto come una casa, una vettura o un cavallo; che il prestito di denaro è un servizio reso agli altri ed una privazione per sé stesso; che la trasformazione di un capitale in un pezzo di carta non ne diminuisce il suo valore intrinseco; che si corre il rischio di riavere la somma prestata e che questo rischio, come questo danno ipotizzabile, esige una remunerazione. Per fare ostacolo alla concorrenza commerciale, essi proporzionano i tassi del denaro a beneficio presunto dell’imprenditore; In tale contesto essi presteranno a tassi del 30 – 40 per cento. Per questo motivo, per punirli, Dante ha posto gli usurai nel suo Inferno sotto una pioggia di fuoco.
La devozione dei Fiorentini alla Chiesa contribuisce per una buona parte al progresso dell’Arte del Cambio. A Roma affluivano i tesori del mondo intero, entrate del papa e dei prelati, obolo di S. Pietro, offerte di ogni tipo. Essere incaricati di raccogliere tutti questi denari, di farli pervenire ai destinatari, significava avere il maneggio della maggior parte dei capitali in circolazione. Nelle mani attraverso le quali passava, rimaneva sempre qualche cosa, senza parlare della commissione pagata agli intermediari. In effetti, a partire dal 12° secolo, i mercanti fiorentini portavano già il titolo di cambiatori del papa: campsores papae.
L’impegno giornaliero di cambiatori diviene una necessità. L’estrema complicazione delle monete trasformano la conoscenza del denaro in una scienza. I pesi ed i valori delle monete non erano tutte in un rapporto costante. Essendo scomparso l’oro dalle monete sotto i Carolingi, qualsiasi pagamento diventava una preoccupazione ed un pericolo e la lettera di cambio tenta di rimediarvi. Se gli Ebrei ed i Veneziani l’hanno conosciuta prima dei Fiorentini, questi hanno avuto il merito di generalizzare la sostituzione l’ingombrante moneta ed i pesanti lingotti con un figlio di carta e di ristabilire, da un paese all’altro, l’equilibrio fra il valore reale del denaro ed il suo valore legale, le cause certe di perdite, di fronte ai quali il traffico commerciale regrediva.
L’arte del cambio diventerà, in tal modo, senza a considerare il fondo delle cose, la prima di tutte. Questi “cani lombardi”, il nome con il quale vengono designati a nord delle Alpi, arricchiranno la loro patria oltre a loro stessi. E’ grazie ai tesori che essi faranno affluire, i fiorentini potranno acquistare ai signori i loro castelli, provvedere al mantenimento di una milizia permanente, assoggettare le città vicine, ingrandirsi e costruire al suo interno numerosi e magnifici palazzi.
A queste quattro arti, occorre aggiungerne altre tre, già costituite nel 1193. In primo luogo l’Arte dei Medici e degli Speziali, dai quali dipendevano i cerusici (chirurghi) e le levatrici: Essi traevano la loro importanza non tanto dalle cure che essi dispensavano per la vita dei loro concittadini, ma piuttosto alla vendita delle spezie dell’Oriente, a quel tempo così ricercate e delle quali gli apoticari o speziali ne avevano il deposito e lo smercio. Veniva dopo l’Arte dei Pellicciai, anch’essa molto fiorente, per l’uso molto diffuso delle pelli e delle pellicce, per abbigliarsi o per ornare i propri abiti. Se queste due arti non sono al livello delle prime, ciò è dovuto al fatto che la regola, presso i Fiorentini, è stata sempre quella di cedere il passo a quelli che assicuravano relazioni estese all’estero. Più tardi, il traffico delle spezie conoscerà un enorme sviluppo; ma sarà di grande svantaggio per gli Speziali, elevati alla dignità di mercanti di spezie, di avere fra i loro ranghi medici e chirurghi, empirici ed operatori che non avevano nulla da … vendere.
I Giudici ed i Notai formavano un’ultima arte. Anch’essi non vendevano nulla; ma per il fatto che rendevano giustizia, imperioso bisogno dei deboli in tempi di violenza, essi erano, comunque, tenuti in alta considerazione.; a loro veniva dato, come ai cavalieri, il titolo di Messere nel caso specifico Fiorentino “Ser”. In ogni caso, a lungo andare, quest’arte assumerà un ruolo primario nella gerarchia delle arti. A partire dalla prima metà del 13° secolo, i tribunali di quartiere, per affrancarsi dalle influenze del vicinato, verranno a raggrupparsi nella vecchia chiesa di S. Michele in Orto o nel suo giardino attiguo. Ciascuno di essi vi teneva la sua “sala”, con una insegna sulla porta: in una un cavaliere, in un’altra un leone, altrove una rosa, ecc.. Questi nomi servivano a designarli ufficialmente. Un console, un giudice, due provveditori, due notai, questa era in genere la loro composizione standard.
A questo punto, sembra opportuno ricordare gli altri mestieri necessari alla vita: fornai-panettieri, beccai-macellai, tagliatori, calzolai, sarti e tanti altri. Considerati mestieri vili, essi non facevano parte delle arti e non contavano nulla nello Stato, che era costituito da una ristretta minoranza. Negli ultimi anni del 13° secolo, gli abitanti, possessori di diritti civici tenevano ancora le loro assemblee in un palazzo o in una chiesa: essi non superavano all’epoca le 1.500 unità. Alla fine del 15° secolo essi erano ancora 3.200, sebbene la città si fosse ingrandita molto e sebbene ci fossero stare una serie di rivoluzioni e leggi per estendere il diritto di cittadino. I contadini, sempre collegati alla gleba, non avevano né i diritti del cittadino, né quelli dell’uomo libero. Nella città abbondava gente di condizione servile o che, senza essere servo, vi viveva come uno straniero. Il fatto è che essi non pagavano imposte: esse venivano percepite fra i nobili residenti e fra l’aristocrazia mercantile delle sette arti maggiori.
I capi di queste arti i mestieri, ben presto chiamati “consoli” amministravano l’arte, determinando la politica e quasi la legge. Essi non godevano, al di fuori dell’arte, di alcuna autorità ufficiale; ma se si rendeva necessario adottare qualche provvedimento di interesse o di difendere Firenze da qualsiasi pericolo, essi si riunivano normalmente ed, in riunione, potendo affermare, senza esagerazione che essi rappresentavano la comunità; solo essi erano in grado di raccogliere l’eredità del vicario imperiale, che si appannava sempre di più nella sua impotenza ed è in tal modo, senza una istituzione formale, che essi diventeranno i magistrati comunali. Quello che la storia definisce impropriamente la “Rivoluzione di Consoli”, non è altro che il lento processo del progredire del loro potere ed a tal proposito risulta difficile attribuire a questo fenomeno una data precisa inerente alla sua trasformazione. Consoli che hanno attribuzioni diverse da quelle del governo della loro rispettiva arte, se ne trovano a partire dal 1101. La contessa Matilde, che regnava ancora all’epoca, tollerava già una specie di uso comunale, a condizioni del rispetto della sua autorità.
Questi consoli, eletti per un anno, sono per molto tempo dei dei factotum: rendono giustizia a quelli della loro arte ed amministrano la città. Solamente a partire dal 1204 si trova una distinzione fra gli uni e gli altri cioè fra i Consules justitiae ed i Consules civitatis. Col tempo finisce per diventare uso comune quello di fissare il numero dei secondi, dopo quelli dei quartieri o delle porte., attribuendo a ciascuno di questi quartieri, sia uno, sia due consoli o “Priori”. A partire da quel momento, Firenze verrà a disporre di un governo degno di questo nome, governo comunale ed oligarchico, dove un senato di cento buoni uomini, sembra abbia avuto il compito di eleggere e di controllare l’operato dei Consoli. Un cronista ci fornisce la data del 1195: “Prima – ricorda – la città si governava alla maniera dei villaggi, senza ordine, buon uso, né statuto”.
E’ dunque ai suoi mestieri se la città ha potuto avere una costituzione fissa: essa trae dalle corporazioni delle arti la sua organizzazione, allargandola. Ma in mezzo a questi uomini di lavoro viveva una classe di nobili che li disprezzava per la loro nascita e li odiava per le loro ricchezze: Tedeschi acclimatati sui bordi dell’Arno, feudatari di campagna scesi dai loro rispettivi castelli, di forza dopo la loro sconfitta o di buon grado per godere dei piaceri della vita urbana. Per uscire dal loro isolamento rurale si sottomettono al diritto comune, progresso tanto più notevole dell’uguaglianza civile, in quanto proveniente, in parte da una aspirazione dei vecchi padroni, invece che da una conquista su di loro.
Erano state loro imposte delle dure condizioni per prevenire qualsiasi ribellione; ma essi avevano anche dei privilegi. Veniva tollerato che non fossero giudicati dai tribunali consolari, che potessero vivere nell’ozio all’interno del formicaio, circondati da una clientela armata, che usava le sue armi senza scrupolo. Si approvava il fatto che essi cercassero occasioni per mettere in evidenza le loro attitudini militari. In cambio non veniva loro riconosciuto né ricompense né onori, anche se, in definitiva, la popolazione di borghesi e di artigiani spesso sceglieva fra di loro i suoi consoli.
Come detto sopra gli Iacopi de' Rossi furono di certo iscritti all'Arte di Calimala, e nel periodo, seconda metà 1200 - inizi del 1300, vediamo molti dei suoi membri febbrilmente indaffarati nei loro commerci attraverso l'Europa.
Alcuni IACOPI, nel 1273, risultano in Inghilterra in affari con la società dei Riccomanni. Dal "Libro della Tavola" (registro della contabilità) di RICCOMANNO Iacopi (ricordato anche da Ernesto Monaci in Crestomazia nel 1842) leggiamo, infatti, che GIOVANNI di BALDOVINO e DONATO di BALDOVINO Iacopi, suoi nipoti, erano andati in Inghilterra, nel 1273, con poco meno di 3000 libbre (più di 25.000 lire oro moderne). Dopo 12 anni (1285) (Davidsohn, IV - 2, pagine 699 - 700) essi avevano per le mani 33 contratti pendenti di forniture di lana dei raccolti degli anni a venire, di cui 25 con monasteri ed 8 con secolari e tutti contro anticipazioni di denaro in contanti per una somma di gran lunga più alta del loro capitale iniziale. In seguito, però, essi vendettero i loro impegni complessivi alla Compagnia Commerciale dei Mozzi - Spini (a loro volta provenienti dalla Compagnia Della Scala o Scali - Amieri). (Allegato V) Inoltre gli stessi disponevano sicuramente di altri crediti considerevoli e di rimanenze di merci nonché, è ammissibile, che nelle loro operazioni figurassero anche rilevanti depositi in partecipazione di utili. Dal Davidsohn (IV - 2, pagina 728) sappiamo inoltre che altri IACOPI erano in Irlanda dove svolgevano, data l'arretratezza economica della popolazione, un commercio vivacissimo e, quasi certamente, assai lucroso. Essi riscuotevano i dazi sulla lana e le decime ed erano in società con i Simonetti (Compagnia Simonetti - Jacopi). Nel 1308 troviamo fiorente ed attiva a Nimes in Francia la Compagnia intitolata a FILIPPO e NICOLO' Iacopi (Davidsohn, VI, pag. 624; Parigi, 14 - 21 aprile 1308, Les Olim III, pag. 33). Da un breve di Papa Martino 4°, datato 2 agosto 1282, sappiamo, inoltre, che RAINALDO e RIMBERTINO Giacopi sono soci nella ditta Pulci - Rimbertini (Archivio Vaticano, Reg. 42, f. 33). Un RUSTICHELLO Iacopi, detto "Rusticaut" lavorava in Francia ed era rappresentante a Parigi della ditta Beliotti, che trafficava in panni della Champagne (Davidsohn, VI - 2, pag. 645). Numerosi furono i fiorentini che esercitarono la mercatura nella città di Parigi. Essi abitavano in città nelle zone dei mercanti italiani quali: la Rue au Cerf (Parrocchia di Saint Germain l'Auxerrois), Rue des Lombards, Rue Saint Merry, Saint Denis, Rue de la Guanterie, Rue de Calandre (in particolare su questa via avevano la sede le Compagnie Spini, Pulci, Ammannati, Margotti). Il commercio con Firenze riguardava specialmente i panni delle fiere della Champagne, la tela fine di Reims ed i generi di moda. Le fiere cominciavano a Capodanno nella città Lagny sur Marne, poco distante da Parigi. Il Martedì precedente la mezza quaresima aveva luogo la fiera di Bar sur Aube. Il Martedì prima di Pentecoste c'era la fiera di maggio di Provins, città ancor oggi splendida per la sua cinta di bastioni. poi c'era quella di S. Giovanni a Troyes e, dopo una sul colmo dell'estate, fiera di S. Michele o di S. Ayoul di Provins e quindi la fiera invernale di S. Remigio a Troyes. Ogni fiera si divideva in più parti: dei panni, del cuoio, delle pellicce e delle merci a peso (spezie, lana, cotone, cera, allume e materie coloranti). Verso il 1276 risulta particolarmente attiva nell’area tessile della Fiandra una società di mercanti senesi, i cui soci erano Giacomo Sigheri di Sigerio, GIOVANNI Jacoppi, Giacomo Jacobi, Geretase Ildebrandini e Sigerio Grugamonti e fra le sue svariate attività risultavano anche quelle bancarie (prestito di 8 mila lire tornesi - di Tours a Yolanda di Nevers, per spese alla Fiera di Lagny) come risulta alle pagine 230 e 231 di Relations commerciales entre Genes, la Belgique e l’autremont di Renée Doehard del 1941 Archivio di Stato di Genova, 1941. Anche pag. 64 delle Memorie dell’Accademia Reale di Scienze Lettere e Belle Arti del Belgio del 1971). Una citazione a parte, per la sua vita avventurosa, merita RANIERI o RINIERI Iacopi, in altri documenti nominato anche RAINALDUS. Dopo essere stato socio nella Ditta Pulci - Rimbertini, lo troviamo nel 1278 come socio, insieme a Iacopo de Fronte, Cepparello Dietaiuti da Prato, Onofrio (Noffo) Dei, nella Società di Ghino (Guido) Frescobaldi (risulta da un documento del 18 ottobre 1278 in "Exstract relative to Loans" di Bond in archeologia XXVIII, pag. 222). Nel 1289 RANIERI abbandona la Compagnia di Frescobaldi e passa in proprio, fondando una società per raccogliere, fra l’altro, le tasse reali di alcune regioni del Regno di Francia, fra le quali l’Alvernia (dove il suo socio Cepperello Dietaiuti era ricevitore (receveur) delle tasse reali), per conto della ditta Mouche (Musciatto Guidi, fiorentino) e Biche (Biccio o Benedetto Zaccaria, genovese) de' Franzesi di cui era socio (da pagine 308, 311 e 314 di Rivista di Scienze, Arti e Lettere dell’Alta Alvernia del 1889 o 1899). Egli viene nominato "receveurs" delle decime ecclesiastiche dell'Alvernia, per quella parte che Papa Niccolò 4° aveva ceduto al Re di Francia. In questo incarico aveva come soci Cepparello Dietaiuti e Noffo Dei (vedasi “Cepparello da Prato, lo pseudo Ser Cappelletto: secondo la leggenda boccaccesca e secondo i documenti degli archivi pratese e vaticano: studio storico critico” di Giulio Giani, Grafica M. Martini, 1916). Nel febbraio 1295 egli riesce finalmente a costituire una propria Compagnia intitolata a suo nome e si prende per socio in affari un personaggio poco raccomandabile, Noffo Dei, che doveva finire, di lì a poco, sulla forca. La ditta Rinieri Iacopi, che aveva residenza principale a Sens, ed annoverava come azionisti Mouche e Biche de‘ Franzesi, si occupa in questo periodo, oltre che di importazione su larga scala di panni delle fiere della Champagne, via mare, per Firenze, senza dubbio, anche di affari di banca. Purtroppo a causa dell'intrigante Noffo, implicato nel processo del Vescovo Guichard di Troyes, gli affari non andarono molto bene (Davidsohn, pagine 628 - 80 - 681; Paoli: Documenti di ser Ciappeletto, in Giornale Storico della letteratura Italiana V, pagine 337, 345; Giornale Storico degli Archivi Toscani I, pagine 257 e seguenti). La ditta RANIERI Iacopi era inoltre in affari con i Bardi (Davidsohn VI, pagine 682 - 5). RANIERI era, inoltre, rappresentato a Firenze da suo fratello RICO che troviamo in città nel 1302. Fallita la ditta, RANIERI passò molte disavventure e lo ritroviamo di nuovo in commercio a Pont sur Yonne nel 1305, nei pressi della città di Sens (Davidsohn, VI, pag. 647; Rigault: "Le Proces de Guichard Evecque de Troyes", pag. 170, Parigi, 1896). L'autore che lo cita aggiunge espressivamente: "dopo aver vissuto altrove giorni migliori". Le lotte per il predominio nei commerci francesi furono dure e senza esclusione di colpi. Durante questo periodo i mercanti fiorentini, in particolare i Franzesi, spalleggiati dal Re di Francia, cercarono di monopolizzare il commercio facendo imprigionare molti altri mercanti italiani, loro concorrenti. In una di queste dispute un FRANCESCO Iacopi, fratello di un antico socio dei Franzesi (quasi certamente RANIERI) fece incarcerare, nel 1320, secondo i dati di fonte francese, altri italiani. (Davidsohn, VI, pag. 627; Langlois in Ernest Lavisse, Historie de France III, 2, pag. 229, da una memoria della Chambre des Comtes di Parigi).
Dopo la fallita sommossa dei Magnati (1350) e, soprattutto dopo il Tumulto dei Ciompi (24 giugno 1378), la vita per i casati dei Grandi, già di per sé stessa dura, divenne insopportabile. Tutto ciò determinò la crisi della "Consorteria de' Rossi" e la crisi della famiglia IACOPI o JACOPPI ad essa legata. Infatti molti membri della Casata vengono costretti ad emigrare, mentre altri - approfittando della legge dell’11 agosto 1361 con la quale veniva ordinato che ogni Magnate che avesse ottenuto, o che in avvenire ottenesse la "civiltà" popolare, dovesse nel termine di due mesi rinunciare alla "Consorteria" della sua casa, prendendo altro nome di famiglia ed altro stemma - abbandonarono a Firenze l'avito cognome e cercarono scampo in questo rimedio o nell’esilio. E’ possibile inoltre che la famiglia che oggi porta il cognome di JACOPPI, sostanzialmente radicata a nord dell’Appennino settentrionale (Parmense e Novarese, con qualche diramazione negli USA e Brasile) e di ridottissima consistenza numerica, possa derivare da questa famiglia della Consorteria dei ROSSI.
Il provvedimento del 1361 determinò praticamente la fine della famiglia IACOPI De' ROSSI a FIRENZE già a partire dall'inizio del 1400 mentre, peraltro, dall'antica "Consorteria" si originarono altri cognomi (Allegato A1).
Prima però di trattare questa parte è bene parlare di un altro ramo dei Rossi, coevo degli IACOPI, e che ebbe anch'esso notevole rinomanza a Firenze. Si tratta infatti della casata dei BOCCACCI di cui abbiamo già accennato in precedenza. Personaggio più famoso fu certamente ARRIGO del BOCCACCIO che, nel 1280, faceva parte del Consiglio dei 14. Nello stesso anno egli ricoprì la carica di Console dell'Arte del Cambio. Nel 1278 era stato Sindaco della Parte Guelfa per la sistemazione degli affari finanziari della stessa. Nel 1277 risultava ancora tra gli Ufficiali "ad registrandum jura et privilegia Communis Florentiae". Nel 1280 fu uno tra i fideiussori di Parte Guelfa alla firma della pace del Cardinal Latino. Fu priore di Firenze nel 1285, nonostante appartenesse ad una Consorteria Magnatizia, e fu anche uno dei più attivi oratori nei Consigli dei Savi fiorentini fino al 1287. ARRIGO forse coincide con quel Dominus ARRIGUS del BOCCACCIO che, ancora oratore nel Consiglio de' Savi negli anni seguenti, lo troviamo nel 1295 Podestà di Borgo San Sepolcro e Capitano di Colle nel 1299. Se, come è probabile, si tratta della stessa persona tutto questo starebbe a dimostrare che ARRIGO, fra il 1287 ed il 1290, era stato creato "Cavaliere". Fra gli altri personaggi della famiglia del Boccaccio o Boccacci de' Rossi possiamo annoverare "Dominus LAPUS del Boccaccio de Rubeis" che troviamo - negli atti del notaio fiorentino Giovanni Berghi - come "Dominus LAPUS quondam RENALDI de Boccacciis". Negli atti dello stesso notaro troviamo ancora un "GHERARDUS del Boccaccio" ed un "RENALDUS ALDOBRANDINI de Boccacciis" che fu, con ogni probabilità, il padre di LAPO suddetto che, a sua volta, ebbe per figlio GUALZO. Nei documenti sino al 1283 è inoltre nominato anche un "GUCCIUS del Boccaccio" che faceva parte, come i precedenti, della casata de' BOCCACCI, "ramo" della popolosa "consorteria" dei ROSSI, abitanti del Sesto d'Oltrarno.
A seguito, dunque, della legge comunale del 1361 pochi membri della famiglia conservarono l'antico cognome di IACOPI o quello comune di ROSSI. Da essi si originarono altre famiglie, delle quali però ben poche, passata la bufera, riassunsero l'antico cognome della "consorteria". Fra le nuove famiglie derivate da consorterie c'è da annoverare quella dei
Nel 1378, infatti, ALBIZZO di BARNA de' Rossi assunse la condizione popolare prendendo il cognome diROSOLESI. Di questa famiglia nel 1845 era ancora vivente un certo ISIDORO> di ANDREA. Un'altra diramazione de' Rossi, che aveva mantenuto l'antico cognome (o forse ripreso), ottenne il privilegio della dignità popolare per intercessione dei Medici e, per questo motivo, LIONETTO di BENEDETTO di ANTONIO ottenne il Priorato nel 1496 e, creato Cavaliere da Re Luigi XII di Francia, ne divenne anche Consigliere di Stato. Egli ebbe per moglie MARIA, sorella naturale di Lorenzo il Magnifico de' Medici ed il loro figlio LUIGImorto nel 1519 fu creato, dal cugino Papa Leone X, Cardinale nel 1517. Fra gli altri Rossi ricordiamo:
GIOVANNI, nel 1413 tra i dieci di Balia; NOFERI di PIETRO di BARTOLOMEO che ebbe il Priorato nel 1513; PIERMARIA di BELTRAMO Rossi che fu fatto decapitare nel 1519 dal Cardinale Giulio de' Medici per cospirazione; GIULIO di BERNARDINO Rossi che fu anch'egli decapitato nel 1542 per ordine di Cosimo 1° de' Medici per delitto di lesa Maestà. Un GUERRUCCIO de' Rossi, inoltre, fu nel 1283 nel Collegio fiorentino del 14, nello stesso anno Priore, carica che ricoprì anche nel 1288. Egli aveva sposato una figlia di Messer Mico dei Velluti.
Dell'antica Consorteria dei Rossi che, tra l'altro, era imparentata con le maggiori famiglie di Firenze (Del Giudice, Alberti, Buondelmonti, Frescobaldi) non rimangono oggi che pochissime famiglie fra le quali quella dei
che, abitavano nel Rione di Santa Croce sotto le insegne del Gonfalone del Lion Nero ed ancora oggi ne conserva l'Arma e che possiede una genealogia documentata a partire dal 1400. L'attuale denominazione della famiglia è stata autorizzata con Regio Decreto 5 novembre 1911 e 8 dicembre 1912, ai fratelli PIERFILIPPO ed UGO di GUIDO de' ROSSI Del LION NERO di Firenze. Come abbiamo già visto l'Arma originaria della Consorteria de' Rossi era: "Di rosso pieno" così come quella dei Soldanieri, altra famiglia di Firenze. Alla primitiva arma come noto si aggiunse successivamente il "Capo d'Angiò", simbolo riconosciuto del guelfismo italiano ("D'azzurro ad un lambello di rosso di quattro pendenti, fra i quali tre gigli d'Angiò d'oro"). Il ramo derivante da ALBIZZO di BARNA, che assunse il cognome di ROSOLESI, aggiunse all'Arma della Consorteria d'origine una "Rosa d'oro di quattro foglie". Il ramo dei Rossi del Lion Nero, che abitava nel quartiere di Santa Croce sotto il gonfalone del Lion Nero, ha invece per Arma uno scudo partito, nel quale nella prima parte innalza lo stemma dei ROSOLESI mentre nella seconda il simbolo che dà il nome alla casata: "Troncato d'argento e di rosso al leone rampante tenente nella branca destra anteriore un giglio fiorentino, il tutto dell'uno nell'altro". Il Libro d'Oro della Nobiltà riporta per questa famiglia i seguenti titoli: Nobili di Fiesole per Sovrano Rescritto 17 luglio 1840. Tale titolo fu riconosciuto dallo Stato Italiano per Regio Decreto "motu proprio" del 7 luglio 1907 e Regie Patenti del 10 novembre 1907. Infine i Regi Decreti 5 novembre e 8 dicembre 1912 autorizzano la casata a riassumere l'antico cognome De' Rossi del Lion Nero.
In Allegato B una genealogia approssimata dei principali personaggi degli IACOPI de' ROSSI fino al 1350 ed in Allegato C una genealogia recente dei Conti de’ Rossi del Lion Nero
E' praticamente accertato che a partire dalla seconda metà del 1300, la famiglia degli Iacopi de' Rossi risulta scomparsa dalla città del Giglio mentre quasi nello stesso periodo nasce la famiglia degli Iacopi de' Tornaquinci.