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IACOPI DISCENDENZE E STORIA

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Il 20° secolo, il secolo dell'oro nero

Il 20° SECOLO, IL SECOLO DELL’ORO NERO

(Stampato su “SUBASIO” n. 4/2005, Bollettino dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi e su RIVISTA MILITARE dell’ESERCITO n. 1/2006, Roma)

Il petrolio è entrato nella storia dal 1859. Da quel momento ne è progressivamente diventato un indiscusso protagonista. Materia prima indispensabile per l’industria, posta in gioco della grandi potenze o strumento di pressione, il prezioso oro nero ha lasciato il suo imprinting sul 20° secolo.

Il petrolio[1] ed i suoi derivati naturali (bitume, nafta, asfalto)[2] erano conosciuti anche nell’antichità e venivano utilizzati per differenti scopi. Il geografo greco Stradone, vissuto a cavallo dell’era cristiana, racconta  he preso i Babilonesi avevano l’abitudine di bruciare l’asfalto liquido nelle loro lampade a fini di illuminazione. Gli Assiri l’impiegavano per accendere le torce. In Egitto, il bitume era impiegato per la conservazione dei morti. A Roma per contro attribuivano al bitume delle virtù terapeutiche miracolose. In effetti, secondo quanto afferma Plinio il Vecchio nel 1° secolo dopo Cristo, questo prodotto era particolarmente adatto a curare i reumatismi articolari , l’asma e persino … l’epilessia.

Più tardi l’olio di nafta viene utilizzato per la composizione del “fuoco greco”, un arma letale, la cui struttura rimase gelosamente segreta per diversi secoli e che a più riprese ha salvato Bisanzio dagli assalti dei Barbari. 

Ma quello che diverrà più tardi l’oro nero non ha ancora un uso universale. Si ignora soprattutto che esso si trova nelle profondità della terra in enormi giacimenti allo stato liquido o gassoso, anche perché quello che viene utilizzato si trova negli strati superficiali. Solo alla metà del 18° secolo un naturalista constatò che scavando il suolo con un dito si poteva provocare la fuoriuscita di un prodotto infiammabile e che la fiamma era tanto più viva a misura che il foro diventava più profondo.

1859 – 1901 La scoperta di un prodotto miracoloso.

Ma il petrolio entra effettivamente nella storia solo un secolo più tardi, il 27 agosto 1859, quando il prezioso liquido fuoriesce a Titusville, una piccola città del sud della Pennsylvania. Gli autori di questa scoperta furono George Bissel, un giurista di New York, James Towsend, un banchiere di New Haven, Benjamin Sillman, un professore di Yale ed Edwin Drake, chiamato il “colonnello Drake”, un avventuriero originario del Vermont, che fu l’elemento trainante e tuttofare dell’impresa.

Tutti e quattro erano convinti che il misterioso carburante che affiorava in certi settori della valle e che era raccolto in maniera artigianale, avrebbe potuto trovare uno sbocco nel campo dell’illuminazione, a condizione di produrne in quantità significative. Con la prima perforazione effettuata dalla Rock Oil Company tale progetto e quindi l’utilizzazione industriale del petrolio diviene una realtà. A partire da quel momento la lampada a petrolio sostituisce dappertutto la candela di cera, prima di essere poi a sua volta sbaragliata dall’illuminazione elettrica.

Per una trentina d’anni il boom petrolifero si è basato essenzialmente sulla produzione di liquido per illuminazione. Una febbre speculativa, accompagnata da una corsa alla produzione ed al suo trasporto percorre tutti gli Stati Uniti e nel 1870, ad appena undici anni dopo la perforazione del pozzo di Titusville, viene fondata la Standard Oil Company di John D. Rockfeller.

Nel 1882, dopo dure battaglie condotte contro la concorrenza e contro le grandi società ferroviarie, la Standard Oil si organizza in un trust, in un cartello di ditte impegnate nel settore, che domina tutta l’industria petrolifera americana, grazie alle sue compagnie di trasporto ed alle sue 39 società di raffinazione.

Sarà infatti solo nel 1915, dopo un primo giudizio del 1911 che la Corte Suprema stabilirà, applicando la Legge anti trust di Sherman del 1890 sulla libera concorrenza d’impresa, la frammentazione dell’impero di Rockfeller in una trentina di filiali distinte.

Fra la fine del 19° e l’inizio del 20° secolo, la messa a punto del motore a scoppio[3] dà un decisivo colpo di accelerazione allo sviluppo dell’industria petrolifera. L’industria dell’automobile inizia la sua vertiginosa crescita e presto il motore Diesel[4] consente la propulsione dei mezzi pesanti e delle navi. Il mercato degli idrocarburi conosce in tal modo una incredibile espansione non soltanto nell’America del Nord. Infatti in questo momento gli Americani non sono più gli unici in lizza nel grande affare. Certamente gli USA dispongono di vantaggi che altri non hanno: oltre alla vastità del paese, una forte crescita demografica, alimentata anche da una continua emigrazione che apporta forze fresche e docili, la flessibilità ed il dinamismo del capitalismo americano. Inoltre gli Stati Uniti dispongono di enormi riserve petrolifere, facilmente estraibili e ripartite su una buona parte del territorio dell’Unione. Infatti sono già noti giacimenti che vanno dalla Pennsylvania all’Ohio, dall’OKlahoma al Tennessee, dalla Luisiana all’Indiana fino alla California ai quali, solo nel 1961, si aggiungerà il gigantesco giacimento del Texas.

1901 - 1918. Una nuova scommessa strategica

In effetti, nel corso dei dieci - quindici anni che precedono il primo conflitto mondiale, le potenze europee cominciano ad interessarsi seriamente al prezioso carburante: I Rothschild d’Inghilterra sono in concorrenza con i Nobel svedesi per il controllo dei ricchi giacimenti di Bakù, nell’Azarbaigian in Russia. La Shell britannica di Marcus Samuel e la Royal Dutch dell’olandese Deterding diventano rivali diretti della Standard Oil ed orientano le loro attività verso l’Asia del sud est (Borneo, Sumatra) e dell’Estremo Oriente, prima di giungere alla fusione nel 1907. L’uomo d’affari armeno Caluste Sarkis Gulbenkian (diventato nel 1902 suddito di Sua Maestà britannica)[5] si interessa, da parte sua, allo sfruttamento dei giacimenti della regione di Mossul nel Curdistan iracheno.

La produzione mondiale di idrocarburi, che nel 1861 era rappresentata esclusivamente da quella della Pennsylvania, passa dalle 100 mila tonnellate del 1862 ai 4 milioni del 1880, ai 21 del 1900, ai 44 del 1910 per giungere a più di 50 milioni nel 1913. A quest’epoca la parte degli Stati Uniti è di circa i due terzi del totale; seguono poi la Russia (nel 1900 10 milioni di tonnellate), il Messico, il Venezuela, la Romania e l’Insulindia. L’Argentina il Perù, la Persia seguono molto distanziate, mentre le brame delle potenze si appuntano verso le province orientali dell’Impero Ottomano, dove geologi e speculatori intravedono già l’enorme potenziale energetico nascosto nel sottosuolo.

Ad eccezione degli Stati Uniti, primo produttore e consumatore, le altre nazioni industrializzate sono costrette a ricorrere a fornitori stranieri per far fronte alle loro necessità. Il consumo di carbone, continua evidentemente a mantenere di gran lungo il primo posto, ma gli acquisti di petrolio crescono di pari passo con lo straordinario sviluppo dell’industria automobilistica, dell’aviazione, della navigazione marittima, del riscaldamento domestico ed a partire dal 1920 dall’industria petrolchimica.

Inizia così agli inizi del 20° secolo la lotta delle grandi potenze per l’accesso alle risorse petrolifere. I governi entrano in scena dietro ai gruppi finanziari e le grandi compagnie. Questo è particolarmente il caso del Medio Oriente, dove inglesi, francesi e tedeschi cercano di organizzarsi in vista del futuro sfruttamento delle ricchezze minerarie della Mesopotamia ottomana.

Nel 1903 la concessione ad una compagnia tedesca di un progetto di costruzione di una linea ferroviaria da Costantinopoli a Bagdad (segmento terminale della linea BBB : Berlino Bisanzio Bagdad), viene accompagnato da diritti di sfruttamento per 80 anni del sottosuolo irakeno per una fascia di 20 km intorno alla ferrovia. Nel 1914 i binari raggiungono Mossul mentre gli Inglesi hanno da tempo iniziato le loro contro mosse. Nel 1909 la Anglo Persian Oil Company detiene il controllo del greggio iraniano e tre anni più tardi il governo della Sublime Porta deve accettare, sotto la pressione del Foreign Office, una combinazione finanziaria che assicura ai britannici il controllo del 75% del capitale della Turkish Petroleum Company[6]. In tal modo gli inglesi con questo successo riescono non solo a neutralizzare i tedeschi ma anche gli stessi americani, che per il tramite della Standard Oil, avevano proposto agli Ottomani un prestito ed una partecipazione agli utili, in cambio del diritto esclusivo dello sfruttamento del petrolio nell’impero.

La prima guerra mondiale produce un effetto moltiplicatore sulla crescita della domanda di petrolio. Il motore a benzina ed il diesel hanno ormai dimostrato la loro superiorità sugli altri sistemi di trazione. I nuovi eserciti, le armate navali e le forze aeree diventano dei grandi consumatori di benzina, di gasolio o di kerosene[7] e le esigenze crescono anche con l’aumentare delle perdite. I primi carri Mark 1, utilizzati per la prima volta dagli Inglesi sulla Somme nel 1916, sono il tangibile esempio degli inizi della meccanizzazione e della modernizzazione della guerra, nella quale pagano un alto tributo di perdite. Allo stesso modo sul mare, dove nel 1917 i Tedeschi scatenano la “guerra sottomarina ad oltranza”, i 185 Uboots affondati, le 800 mila tonnellate di navi militari silurato ed i 10 milioni di tonnellate di naviglio mercantile colato a picco in pochi mesi, rappresentano un altrettanto pesante tributo alla modernità.. Dappertutto l’arma del petrolio impone la sua legge, persino nel cielo con uno sviluppo impressionante dell’aviazione militare. Dalle poche decine di apparecchi dell’inizio della guerra, la flotta aerea degli Alleati raggiunge le 7 mila unità nel novembre 1918.

Anche i politici dell’epoca cominciano ad intendere perfettamente l’importanza dell’oro nero tanto che nel dicembre 1917 Clemenceau ebbe a scrivere al presidente Woodrow Wilson che “.. la benzina sarà importante quanto il sangue nella guerra di domani”.

La guerra 1915 – 1918 ha dunque evidenziato che il petrolio era ormai rivelato un elemento di importanza strategica e che il controllo delle zone di produzione dell’oro nero diventava altrettanto importante di quello dei grandi giacimenti di carbone, specie per quelle potenze, eccettuate USA e Russia, che non disponevano di risorse proprie. La posta in palio diviene tanto più importante nel momento in cui ci si rende conto che i consumi del dopoguerra non solo non si stabilizzano ma subiscono una nuova robusta impennata per effetto dello sviluppo industriale, specie nel settore più dinamico delle manifatture delle automobili, delle costruzioni aeronautiche e della petrolchimica. In definitiva si scopre un grande assioma dell’economia moderna e cioè che il petrolio condiziona lo sviluppo.

1918 - 1945 Il momento dei Britannici

La 1^ guerra mondiale tra le tante conseguenze ha avuto quella di mettere fuori gioco tre delle principali potenze europee, temporaneamente (la Germania e la Russia) o in maniera definitiva (L’Austria - Ungheria). Nel dopo guerra in Europa la partita a scacchi per il controllo delle ricchezze petrolifere del Medio Oriente si gioca essenzialmente fra la Francia e la Gran Bretagna. Nel marzo 1916 il Trattato Sykes Picot anglo francese, ha concordato una ripartizione di principio di una parte delle spoglie dell’impero ottomano: tutta l’area che va a nord dell’allineamento  dal Sinai - Golfo Persico fino al sud dell’Anatolia. Sulla base di tale accordo, alla Francia tocca la provincia di Mossul, ricca di petrolio e della quale all’epoca non si conoscevano ancora le reali potenzialità. Ma gli Inglesi, che forse meglio conoscevano l’entità delle risorse celate nel sottosuolo, convincono nel 1918 i Francesi a scambiare la provincia di Mossul con il mandato sulla Siria, acquisendo in tal modo il controllo totale dell’odierno Irak e di tutto il suo petrolio. Infatti grazie alle partecipazioni della Anglo Persian e della Royal Dutch Shell nella Turkish Petroleum Company [8], Londra controlla finanziariamente tutta l’area e per consolidare politicamente le sue posizioni arriverà ad offrire un quarto del suo capitale alle compagnie americane e quelle francesi.

Padroni del gioco in Irak ed in Persia, i Britannici sono costretti a lottare altrove con gli Americani. La Standard Oil californiana, La Gulf Oil Corporation (Gruppo Mellon), la Texas Oil ed altre società si lanciano a capofitto nella regione per accrescere il loro mercato, ma forse già da allora per economizzare le riserve nord americane. A partire dagli anni 1920 adottano una politica di caccia alle concessioni petrolifere in Arabia Saudita e negli emirati del Golfo Persico. Il rischio economico è grande e tale preoccupazione è testimoniata dalle parole del Presidente della Standard Oil : “quello che stiamo acquistando è un enorme massa di sabbia, di caldo, di mosche e di .. speranza”, ma la storia dimostrerà che l’impresa verrà coronata da successo.

Alla vigilia della 2^ Guerra Mondiale gli USA restano di gran lunga la prima potenza petrolifera al mondo. Con più di 160 milioni di tonnellate (60 milioni nel 1920) di consumo, essi producono ancora il 60% della produzione mondiale, alla quale si aggiunge il 12% di petrolio prodotto da compagnie americane nel mondo. La più importante, la Standard Oil del New Jersey, la principale erede del disciolto “trust”, produce da sola 41 milioni di tonnellate, vale a dire il 15% del totale mondiale. Essa raffina da sola 150 mila tonnellate di greggio al giorno e possiede 8 mila chilometri di oleodotti ed una flotta di circa 200 petroliere. Davanti a questo gigante, la Royal Dutch Shell (anglo olandese) è quella che porta ancora la bandiera della vecchia Europa ed è la sola rivale della potente compagnia americana con una produzione di 30 milioni di tonnellate ed una flotta di 300 navi. La Gran Bretagna conta in questa multinazionale, diretta dall’olandese Deterding[9] e dal Gulbenkian, una trentina di compagnie al suo interno.

Il petrolio al momento dello scoppio della 2^ Guerra Mondiale è diventato una importante sorgente di energia ed una materia prima essenziale. Circolano ormai nel mondo 45 milioni di vetture, più della metà della flotta mercantile marcia con dei bruciatori ad olio combustibile o con il diesel ed il consumo di combustibile liquido per uso domestico è in rapida crescita, mentre la petrolchimica produce ormai su grande scala coloranti, materie plastiche, caucciù sintetico, tessile ecc.

La guerra di Spagna (1936 - 1939) viene ad evidenziare nuovamente il ruolo dei blindati e dell’aviazione nel combattimento, a condizione chiaramente di possedere delle riserve sufficienti di carburante. Nel nuovo contesto della guerra mondiale che si scatena dal 1939, la Germania, il Giappone e l’Italia saranno le più sfavorite. Per far fronte alle carenze di petrolio il Reich, che ha costituito delle modeste riserve di idrocarburi durante gli ultimi anni di pace, non ha altro sistema che applicare la tecnica delle Blitzkrieg (Guerra lampo), destinata ad ottenere rapidamente o il successo o il controllo delle zone di produzione (vedi Romania e successivamente il fallito tentativo nel Caucaso). In poche parole il petrolio e la sua disponibilità determina la strategia da adottare. In Polonia, in Francia, nei Balcani, la Blitzkrieg permette ai Tedeschi di ottenere dei successi importanti e di impossessarsi degli importanti giacimenti di Ploesti in Romania, per sostenere il conflitto nel tempo (il successivo tentativo di raggiungere il Caucaso, attraverso la Russia non avrà altrettanto successo).

In effetti nell’offensiva in Russia, l’assalto delle divisioni corazzate tedesche va incontro ai suoi limiti spazio - temporali, che sono quelli del rifornimento del carburante e soprattutto del clima (a – 30 gradi la benzina congela nei serbatoi).

Il cambiamento di obiettivo strategico tedesco da Mosca verso il Caucaso, per arrivare da nord sugli immensi giacimenti petroliferi del Caspio e quindi del Medio Oriente, sarà una vana speranza, definitivamente frustrata con la capitolazione di Von Paulus a Stalingrado.

Le stesse vicissitudini vivono gli italo - tedeschi in Africa settentrionale, dove Rommel deve arrestare la sua avanzata verso Alessandria, fra gli altri, per la cronica mancanza di carburante. Nella successiva ritirata, a seguito dell’offensiva di Montgomery nell’ottobre 1942, molte unità motorizzate possono inizialmente effettuare ancora delle elementari manovre tattiche, prima di rimanere definitivamente bloccate nel deserto, durante la ritirata.

Gli Alleati non soffrono evidentemente degli stessi problemi. Essi devono comunque far affluire il combustibile a pié d’opera, laddove serve. Sul mare si ripete come nella Grande Guerra, il confronto fra i convogli alleati scortati dalla marina militare ed i branchi di lupi dei sommergibili tedeschi, equipaggiati da motori diesel. Anche in questo settore l’ultima parola sarà quella degli Alleati, al prezzo comunque di perdite considerevoli.

1946 - 1960 Guerra fredda e Medio Oriente

La seconda guerra mondiale non è stata certo, come la prima una guerra per il petrolio, ma è comunque accertato che l’oro nero ha fortemente condizionato l’esito del conflitto. Non è certo una sorpresa quindi che nello scontro del periodo successivo al 1946, gli USA e l’URSS (principali produttori e consumatori di petrolio) abbiano come posta in gioco il controllo delle principali zone di produzione.

Nell’Iran (terzo produttore mondiale alla fine degli anni 1940) i Britannici detengono fin dall’inizio del secolo un quasi totale monopolio dello sfruttamento, ma durante la guerra i Russi, che sono penetrati nelle province del nord, impongono a Teheran nell’aprile 1916 la creazione di una società petrolifera mista nella quale sono maggioritari al 51 %. Con l’appoggio degli USA gli Inglesi fomentano delle rivolte ed ottengono alla fine l’annullamento degli accordi.

Ma nel 1951 il Governo del dottor Mossadek, Capo del Fronte Nazionale, fa votare dal Parlamento, all’unanimità, la nazionalizzazione dei beni della Anglo - Iranian. L’Inghilterra reagisce rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, minacciando con Churchill un intervento militare diretto. Poi la tensione sembra scemare. In realtà una “rivolta popolare”, ben preparata ed condotta dalla CIA nel 1953, fa cadere Mossadek che viene imprigionato ed impiccato. In tal modo gli Occidentali fanno valere i propri diritti, al prezzo in realtà di un compromesso che mette fine, in ogni caso, al monopolio delle compagnie inglesi. La Compagnia Nazionale dei Petroli dell’Iran si vede riconoscere la proprietà dei giacimenti ed affida ad un consorzio internazionale lo sfruttamento per 25 anni e la raffinazione del greggio. Nel consorzio internazionale gli Americani, con la Standard Oil del New Jersey, la Gulf e la Texaco,  detengono il 40 %.

In Arabia Saudita e negli Emirati Arabi (dove le prime prospezioni petrolifere serie risalgono al 1930), l’influenza americana si sviluppa in maniera più sottile, a spesa delle compagnie europee, specie quelle britanniche. In questa zona il cavallo di Troia si chiamerà l’Aramco (Arab Americam Oil Company) e riunisce al suo interno le primizie o il fior fiore della galassia petrolifera statunitense (la Standard Oil del New Jersey, la Standard Oil californiana, la Texaco, la Socony). Queste compagnie compiono un immenso sforzo di prospezione e di sfruttamento dei giacimenti del mondo arabo, costruendo migliaia di chilometri di oleodotti, equipaggiando i porti petroliferi nella prospettiva dell’utilizzazione di petroliere giganti. Il risultato si concretizza in una esplosione della produzione petrolifera del Medio Oriente arabo: 53 milioni di tonnellate nel 1950, 500 milioni nel 1970.

Nel 1956 la crisi di Suez, oltre alle ripercussioni dirette sul mercato petrolifero per gli attentati agli oleodotti dell’Iraqi Petroleum e la chiusura del canale, mette in evidenza l’affievolimento ed il declino dell’influenza europea nel Medio Oriente. La Francia e l’Inghilterra hanno definitivamente cessato di condurre il gioco nella regione a beneficio delle due superpotenze mondiali ed in particolare degli Usa. Inoltre una breve penuria di petrolio in Europa provoca una scelta nel sistema di trasporto, orientando la cantieristica navale specifica alla produzione di super petroliere da oltre 100 mila tonnellate, per dirottare, adeguatamente da un punto di vista economico, il traffico per la via del Capo di Buona Speranza.

Le nazioni industrializzate importatrici di petrolio hanno per lungo tempo basato la loro crescita e quindi la loro ricchezza sulla stabilità e sul basso prezzo del petrolio, imposto dalle grandi compagnie ai paesi produttori: 1,20 dollari per barile di greggio (circa 159 litri) nel 1900; 1,10 nel 1914; fra 1,20 ed 1,70 durante la fase acuta della guerra fredda, meno di 2 dollari all’inizio degli anni 1960.

In questo periodo il mercato petrolifero risulta dominato dalle sette grandi compagnie (“Majors”)[10], le famose “sette sorelle”. Queste, dieci anni più tardi, con un volume d’affari di 67,5 miliardi dollari ed una produzione di circa 1200 milioni di tonnellate di petrolio, controlleranno ancora il 60% del mercato mondiale del prodotto raffinato. Proporzioni più che sufficienti a che le Maiors possano dettare la loro legge ai paesi esportatori, che peraltro non ricevono che una parte modesta della rendita complessiva.

Il mantenimento dei prezzi petroliferi ad un livello abbastanza basso è stato doppiamente favorevole agli interessi delle economie occidentali. Questo ha permesso, specie in Europa, di poter effettuare un prelevamento fiscale considerevole sul crescente consumo di idrocarburi e contemporaneamente di finanziare a basso costo una parte delle spese per la rete di distribuzione risalenti allo stato. Ma soprattutto l’impiego di energia a buon mercato ha facilitato la crescita vertiginosa del Nord del mondo: ha irrobustito il suo tessuto industriale, favorendo il passaggio a nuove tecnologie e nuovi settori di attività. Questa situazione favorevole ha consentito nelle società più sviluppate con una migliore distribuzione del reddito ed il mito dell’automobile, una eccezionale capacità di integrazione ed una minore “politicizzazione” delle masse.

In poche parole si verifica nell’occidente una espansione economica che alla fine degli anni 1960 sembrava illimitata. Ma il fenomeno avverrà al prezzo di un grande sperpero di ricchezze e forse di un vero e proprio “salasso” dei paesi produttori. Così facendo il mondo industriale non ha saputo né voluto capire che, operando in tal modo, cioè investendo tutto sugli idrocarburi (nel 1970 il petrolio rappresentava il 71% dell’energia primaria consumata, contro il 38% di venti anni prima), si legava le mani e soprattutto fondava il suo futuro e la sua prosperità su delle basi fragili. In effetti fino a quando le relazioni fra paesi consumatori e paesi esportatori sono rimaste nel contesto della dominazione del Nord del mondo sul Sud, l’argomento della dipendenza petrolifera non ha effettivamente rappresentato un problema. D’altronde, ed è un assioma politico, non si può dipendere da quello che si controlla e da quello che è controllato dalla potenza egemonica del campo a cui si appartiene.

Indubbiamente l’Inghilterra e la Francia avevano potuto toccare con mano all’epoca della  crisi di Suez che ormai non avevano più i mezzi per continuare a praticare la “politica delle cannoniere”, tuttavia gli interessi vitali dell’Occidente non erano ancora messi in discussione, in quanto era sufficiente che gli USA mostrassero il loro “grosso bastone”, affinché gli eventuali contestatari dell’ordine costituito rientrassero più o meno tranquillamente nei ranghi. L’Iran di Mossadek aveva ave fatto le spese di questa realtà nel 1953. L’Egitto e la Siria, dovevano a loro volta constatare, negli avvenimenti del Libano del 1958, che non si poteva sfidare impunemente la potenza americana.

Dieci mila uomini sbarcati a Beiruth, sotto la protezione di una flotta dotata di armamento nucleare tattico, era più che sufficiente all’’Occidente per continuare a non interrogarsi sul futuro dei rifornimenti di petrolio. La schiacciante superiorità strategica USA nel contesto internazionale e questa indubbia posizione di forza sembrava non offrire seri dubbi sul futuro e per lungo tempo.

Ma è proprio in questo periodo che comincia invece ad organizzarsi la contestazione dell’ordine economico mondiale del petrolio, instaurato dai fornitori ed incarnato dalle sette sorelle concessionarie, favorita in questo anche dalla penetrazione ideologica del mondo arabo da parte del mondo comunista.

A seguito della decisione presa delle sette sorelle di ridurre unilateralmente il prezzo del greggio, che non si era praticamente mosso da mezzo secolo, nasce a Bagdad nel settembre 1960, l’OPEC, l’Organizzazione dei Paesi Esportatori /Produttori di Petrolio, i cui membri sono a tale data: il Venezuela, l’Arabia Saudita, l’Iran, L’Irak ed il Kuweit. A questi si aggiungono più tardi il Qatar, la Libia, l’Algeria, Abu Dhabi, l’Ecuador, l’Indonesia, la Nigeria ed il Gabon. Per un totale di 13 stati che, all’inizio degli anni 1970, controllavano l’85% delle esportazioni mondiali di greggio.

1960 - 1979 la battaglia dell’OPEC

All’inizio si è trattato essenzialmente di coordinare e di unificare le politiche petrolifere dei paesi membri, in modo da assicurare la stabilizzazione dei prezzi e fornire una entrata costante ai paesi produttori. Questi erano in ogni caso gli scopi apparenti dell’organizzazione, il cui trattato è stato registrato all’ONU nel 1962. In realtà l’OPEC ha condotto nei primi dieci anni di vita una vera ed incessante battaglia contro le compagnie, riuscendo, attraverso l’accresciuto controllo sui giacimenti e lo sfruttamento diretto del petrolio da parte dei paesi produttori, non solo a stabilizzare il prezzo del greggio, ma anche a modificare sensibilmente il tasso di rendita e di imposta.

Il  momento della svolta si colloca all’inizio degli anni 1970, con la 21^ Riunione di Caracas, che decide di fissare al 55% il tasso minimo di rendita delle royalties[11] da parte delle compagnie concessionarie. Nonostante feroci resistenze, le compagnie dovranno accettare, con gli accordi di Teheran del febbraio 1971 e quindi di Tripoli dell’aprile dello stesso anno, una sostanziale maggiorazione dei prezzi, così come il principio della loro revisione automatica in funzione dell’inflazione internazionale.

Questa offensiva sui canoni di affitto e sui prezzi del greggio viene accompagnata da una azione che tende alla riaffermazione della piena sovranità  sulle loro risorse petrolifere. Dal febbraio 1971, l’esempio viene dato dall’Algeria, dove Huari Bumedienne decide unilateralmente che il suo paese deve ormai disporre della maggioranza nelle società francesi che operano sul territorio e che gli oleodotti ed i giacimenti entrano a far parte dei beni dello stato. L’anno seguente nel 1972 il governo di Bagdad nazionalizza la potente Iraqi Petroleum e nel settembre 1973, poco prima della guerra del Kippur, il colonnello Gheddafi annuncia che lo stato libico diviene proprietario del 51% delle compagnie petrolifere installate sul suo territorio. Altrove le sette sorelle riescono a conservare il controllo della produzione, del trasporto e della raffinazione del greggio, anche se i contratti con gli stati vengono modificati con degli emendamenti o rimpiazzati da contratti di nuovo tipo. Uno dei più utilizzati è il contratto d’impresa che trasforma la società straniera in un semplice prestatore di servizi, ma esistono ancora contratti di sfruttamento congiunto (joint venture), che affidano lo sfruttamento dei giacimenti scoperti a delle società miste finanziate su una base generalmente paritaria.

Questa ondata di “decolonizzazione petrolifera” assume una dimensione tutta particolare a partire dalla fine del 1973, con la guerra del Kippur. Il conflitto viene accompagnato da una decisione di rilevante portata per l’avvenire economico del mondo.  Il 17 ottobre 1973, quando le sorti della guerra erano ancora incerte, i ministri di sei paesi del Golfo Persico Arabia Saudita, Kuweit, Irak, Iran, Abu Dhabi e Qatar, riuniti a Kuweit City, decidono di aumentare unilateralmente del 70% il prezzo del greggio, primo passo di una corsa al rialzo che nel corso dei due mesi successivi porterà alla quadruplicazione del prezzo del barile, passato dai 3 agli 11,65 dollari.

Il giorno dopo di questa decisione, con eccezione dell’Iran, ma con l’aggiunta di altri paesi arabi, viene deciso di utilizzare l’oro nero come un’arma di guerra, iniziando una riduzione della produzione del 5% per mese, “ .. fino a quando la comunità internazionale non avrà forzato Israele ad abbandonare i territori occupati nel 1967.  ..” e “ .. fino a quando i Palestinesi non saranno reintegrati nei loro diritti”.

Il 28 ottobre, allorché il cessate il fuoco diviene effettivo, viene proclamato l’embargo contro gli USA, protettori degli Ebrei e nel corso dei giorni seguenti tale misura viene estesa all’Olanda al Portogallo alla Rodesia ed all’Africa del Sud.

La guerra del Kippur ha pertanto offerto ai paesi arabi esportatori l’occasione di stressare il dibattito energetico e di ottenere, con un sol colpo, dei risultati considerevoli. Questa decisione ha giocato un ruolo fondamentale nel processo di crescita dei prezzi e nel ribaltamento dei rapporti di forza fra paesi esportatori e le compagnie concessionarie, che erano stati messi in discussione già qualche anno prima. D’altra parte se i segnali di crisi economica erano percettibili dall’inizio del decennio i provvedimenti decisi a Kuweit City vengono a incidere bruscamente sull’ampiezza e la gravità della congiuntura economica, che farà risentire i suoi perniciosi effetti su tutti gli stati del pianeta. Questa crisi segna come corollario il deterioramento delle relazioni internazionali ed il ritorno alla guerra fredda, con uno sviluppo di conflitti periferici in Asia del sud est, in Afghanistan ed in Africa orientale e meridionale, come anche in America centrale.

In linea di massima, anche se direttamente attaccati dall’embargo petrolifero, che sarà tolto nel marzo 1974, gli USA non ne sono stati praticamente toccati. Era in effetti estremamente difficile per un paese esportatore, anche se lo avesse voluto, controllare la destinazione finale del suo prodotto, ma soprattutto gli USA erano, nel mondo occidentale, quelli meno vulnerabili ai colpi dell’arma del petrolio, tenuto anche conto del fatto che, all’epoca, solo il 5 o il 6% del petrolio importato dagli americani proveniva dal Golfo e che nella fase iniziale l’aumento dei prezzi del petrolio portava agli stessi molto più vantaggi che inconvenienti.

Nella realtà l’evento ha in effetti contribuito a rafforzare la posizione USA nel mondo capitalista, diminuendo la competitività dei loro concorrenti europei e giapponesi ed allo stesso tempo ha portato gli alleati degli americani a confrontarsi con l’esiguità dei loro margini di manovra residui. Allo stesso tempo la nuova situazione ha persino contribuito a consolidare l’influenza USA nella regione, proprio perché i principali beneficiari dell’operazioni erano i “paesi moderati”, strettamente legati alle Majors e quindi alla politica USA (Arabia ed Iran).

Dal punto di vista economico l’aumento dei prezzi ha ridato vigore alla produzione interna USA, fino ad allora frenata dai costi di estrazione (vedi Alaska), da dieci a venti volte più cari di quelli del Medio Oriente ed ha reso nuovamente convenienti la ricerca e lo sfruttamento delle risorse energetiche di sostituzione: carbone, energia nucleare, sabbie e scisti bituminosi, ecc.

A livello mondiale, il primo scossone petrolifero, poi il secondo avvenuto nel 1979 - 1980, a seguito della rivoluzione iraniana e dell’inizio della guerra Irak - Iran[12] avranno per effetto quello di spingere le compagnie ed i governi alla ricerca di soluzioni tendenti a stabilizzare i prezzi e frenare l’esaurimento delle risorse petrolifere mondiali. Dal 1972 il Club di Roma ha cercato di sensibilizzare, senza grandi risultati apparenti, l’opinione pubblica mondiale ed i responsabili dei governi sul rischio di veder crollare, per una carenza di energia, tutto il dispositivo economico dei paesi più sviluppati, fonte della loro prosperità.

Occorreranno le due crisi del 1974 - 75 e quelle del 1979 - 80, specie la prima, perché le nazioni consumatrici adottino delle misure economiche e soprattutto comincino a sviluppare delle energie alternative[13]. Lo sfruttamento di nuove risorse (Mare del Nord, Messico, Angola, Alaska, ecc.), lo sfaldamento dell’OPEC e la politica di “ciascuno per conto suo”, adottata da molti stati produttori a partire dal 1985, ha fatto il resto.

1980 - 2003 il trionfo americano

Le turbolenze dell’ultimo quarto di secolo hanno contribuito a mettere l’accento sul ruolo assolutamente centrale assunto del petrolio nella vita del mondo e nell’evoluzione delle relazioni internazionali. Nel 1975 l’intervento dei Sovietici nel Mozambico, nel Corno d’Africa (Etiopia e Somalia), nello Yemen del Sud ed in Afghanistan ha lo scopo di esercitare una pressione sulle rotte navali del petrolio e quindi sulle principali arterie di rifornimento dell’Occidente. Questa situazione, se coronata da successo, avrebbe potuto assicurare loro, con l’appoggio di una marina da guerra in forte sviluppo, una importante carta vincente nel caso di deflagrazione di conflitti regionali, ma anche nell’eventualità di un confronto diretto con l’Occidente.

L’URSS non ha avuto il piacere di godere dei benefici di una sua possibile presenza alle porte del Golfo Persico e lungo l’arco di crisi mondiale, così ben descritto dai testi di geopolitica: una zona che andava dall’Indocina al Capo di Buona Speranza, attraverso il Corno d’Africa ed il cui controllo permetteva di avviluppare da sud le riserve energetiche del mondo occidentale.

Il periodo della guerra fredda scompare praticamente insieme alla potenza comunista. La Russia, uno dei primi paesi produttori agli inizi degli anno 1980, con la dissoluzione dell’Impero sovietico, ha visto cadere la sua produzione di quasi il 50% (da 600  a 350 milioni di tonnellate), fatto che non è senza un legame con il comportamento tenuto dalla Russia nel recente conflitto irakeno e spiega in parte anche il suo accanimento a mantenersi in Cecenia (ci sono in effetti delle ragioni politiche superiori connesse, alla coesione ed alla successiva sopravvivenza della struttura di ciò che rimane dell’ex URSS).

Vittoriosi, senza aver dovuto condurre una battaglia decisiva sul campo, gli Americani si trovano dopo il 1990 - 1991 in posizione egemonica, senza neanche il contrappeso che potrebbe giocare a breve termine una Russia riorganizzata nelle sue prerogative di grande potenza o una Cina, forse appena uscita da una condizione di sotto sviluppo economico. Non parliamo poi dell’Europa, gigante economico dai piedi d’argilla, ovvero un nano in termini militari, incapace per di più di assumere un atteggiamento comune anche di fronte ai grandi eventi di politica internazionale che la riguardano da vicino.

Conclusioni

Non bisogna quindi sorprendersi se in queste condizioni l’iperpotenza USA possa essere tentata di imporre al resto del mondo, in nome di un pericolo reale per tutto il mondo occidentale, quale il terrorismo internazionale, la sua visione di un ordine internazionale che potrebbe peraltro coincidere con i suoi interessi diretti.

In occasione dell’aggressione irakena al Kuweit nell’agosto 1980 gli USA hanno riunito una coalizione con la benedizione dell’ONU che, in soli due mesi, ha costretto l’Irak ad abbandonare l’emirato ed a chiedere il cessate il fuoco. Dodici anni più tardi Bush junior ha rilanciato l’operazione, questa volta senza il consenso dell’ONU, ma con il conclamato scopo di disarmare l’Irak e di cacciare Saddam Hussein dal potere, che peraltro suo padre, nel 1991 per motivi di equilibri politici locali, aveva deciso di mantenere in piedi.

Questo episodio dice apertamente sulle capacità americane, quando giudicano in pericolo la loro sicurezza, di fare da soli anche senza l’appoggio dell’ONU, condizionato in questo frangente dal veto anacronistico di grandi potenze che più non lo sono e motivato da ripicche politiche e giochi di cassetta di alcuni paesi europei. Non c’è dubbio che una Europa unita e più coerente con i propri interessi generali, avrebbe potuto aiutare gli USA a trovare una strada meno traumatica, posto che alla fine chi si è opposto alla guerra, per puro principio, ha finito comunque per prendere le parti e le difese di un feroce dittatore, come Saddam Hussein, responsabile dell’eccidio di circa un milione di suoi connazionali. Nel caso specifico il tempo della ragione sembra riaffiorare e la recentissima deliberazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sul futuro dell’Irak,  contribuirà certamente a semplificare la tormentata fase di transizione dell’Irak ad una sua forma di governo autonomo.

Ma tornando al problema centrale del lavoro ed all’indubbio ruolo del petrolio negli avvenimenti mondiali, quale può essere la parte del petrolio nelle ultime azioni dell’America ? Non c’è dubbio che le riserve energetiche dell’Irak e la necessità di ricondurle ad una prospettiva più rassicurante del suo controllo, possono essere state una delle ragioni non conclamate del conflitto, specie nel momento in cui l’Arabia Saudita, da oltre 50 anni fedele alleato americano, sembra sul punto di vacillare sotto i colpi concomitanti del fondamentalismo e del terrorismo e nello stesso tempo in cui le riserve americane cominciano a diminuire. Non c’è dubbio che la eventuale defezione dell’Arabia Saudita potrebbe essere adeguatamente compensata dalla presenza di un Irak meno pericoloso e lunatico di quello di Saddam. Ma forse una delle ragioni dell’attacco all’Irak può essere individuato anche in ragioni di geopolitica e cioè anche nella sua posizione geografia nel quadro della lotta al terrorismo internazionale. La caduta di Saddam, finanziatore neanche tanto occulto dei terroristi palestinesi di Hamas e di altri movimenti pan nazionalisti arabi, ha permesso agli USA di incunearsi in un area da sempre cara alle basi del terrorismo. Il controllo dell’Irak ha interrotto un grosso rivolo di finanziamenti al terrorismo internazionale, ha messo sull’avviso la Siria (che da decenni ha invaso il Libano, calpestando il diritto internazionale) perché assuma un’attitudine più cauta, distante e responsabile nei confronti del terrorismo[14]. Ma soprattutto, con la concomitante presenza occidentale in Afghanistan, gli USA hanno posto il regime teocratico fondamentalista di Teheran in una morsa, invitandolo ad una riflessione, peraltro già in atto e forse costringendolo indirettamente a rivedere molti dei suoi atteggiamenti nei riguardi del terrorismo internazionale.

B I B L I O G R A F I A

Ayache G.             Dictionnaire du petrole                   Sycomore Parigi, 1981

Sedillot R.             Histoire du petrole                          Fayard,   Parigi, 1974

 

[1] Presente normalmente nella roccia scistosa e porosa, che mantiene al suo interno un olio minerale naturale combustibile, formato principalmente da idrocarburi

[2] Gasolio, Nafta: dal greco Naptha, liquido giallo chiaro prodotto della distillazione del petrolio utilizzato come carburante e combustibile; Bitume: materia organica naturale o proveniente dalla distillazione del petrolio, utilizzato nei lavori pubblici o nelle costruzioni; Asfalto: miscuglio nerastro di calcare e bitume usato per la pavimentazione delle strade

[3] motore a benzina nel quale i gas di combustione forniscono la forza motrice

[4] Il tedesco Rudolf Diesel inventa nel 1893 il motore che porta il suo nome. Motore a combustione interna che funziona per autoaccensione del carburante (Gasolio) iniettato in una camera di aria compressa a 800° gradi.

[5] Fondatore nel 1911 della Turkish Petroleum Company, chiamato anche Mister 5%.

[6] Il 50% del capitale andava alla Anglo Iranian Petroleum Company, futura Anglo Iranian Company, futura British Petroleum.

[7] Liquido derivato dal petrolio ottenuto per distillazione del greggio ed utilizzato come carburante d’aviazione

[8] che nel 1929 diventerà la Iraqi Petroleum Company

[9] uomo d’affari olandese patrono della Shell, divenuto più tardi ammiratore della Germania nazista

[10] Le sette sorelle: la Standard Oil del New Jersey, americana; La Royal Dutch Shell, anglo olandese; la Mobil Oil, americana; la Texaco, americana; la Gulf Oil, americana; la British Petroleum, inglese; la Standard Oil di California, americana.

[11] Canone pagato da una compagnia petrolifera al paese di cui sfrutta la produzione o al paese attraversato dall’oleodotto

[12] Le truppe irakene attaccano l’Iran nel settembre 1980 ed il conflitto durerà fino al 1988.

[13] mentre la Francia, nostra vicina, punta decisamente sul nucleare, l’Italia decide sotto la spinta di fattori emotivi e politici, estranei alla razionalità ed agli interessi nazionali, di rinunciare all’unica via di uscita che il presente offre a chi non dispone di petrolio

[14] Il recente voto favorevole della Siria alla deliberazione dell’ONU sull’Irak la dice lunga sull’attuale pensiero di Bashar Assad

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