LA GLOBALIZZAZIONE
Ovvero come il pianeta è divenuto un villaggio
(Stampato su “SUBASIO” n. 1/14 del marzo 2006, Bollettino trimestrale dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi)
Il termine “globalizzazione” è divenuto di uso comune a partire dagli anni 1980. Ma è un secolo prima che il mondo, con l’esplosione degli scambi coniugata con la colonizzazione, ha ridotto le sue dimensioni temporali, provocando un movimento di unificazione che sembra ormai irreversibile.
Il termine Globalizzazione, quando è apparso negli USA agli inizi degli anni 1980, aveva un significato decisamente più ristretto di quello attuale ed era riferito alla sola mondializzazione dei mercati, nel cui ambito gli attori economici e finanziari nazionali o multinazionali risultavano in concorrenza, sull’insieme del pianeta. Questa parola traduceva in effetti “in terminis” un concetto che era quello della indiscutibile liberazione degli scambi a livello mondiale. Ma nel corso degli anni 1990, esso ha acquisito una molteplicità di significati per abbracciare ed adattarsi ad una situazione in rapidissima ed eccezionale evoluzione.
La novità del termine, la molteplicità dei suoi significati, il suo radicamento in una realtà storica molto contemporanea (a partire dagli anni 1990) non deve peraltro far dimenticare che esso potrebbe descrivere in maniera adeguata anche una situazione storica ben più vecchia nel tempo, quale quella del mondo fra la fine del 18° secolo e la guerra del 1914. Senza peraltro mettere in secondo piano gli sforzi di apertura e di unificazione, sia economica che culturale, che nel corso della storia hanno effettuato a loro vantaggio l’Impero Romano o la Spagna di Carlo 5°.
Il 19° secolo, la prima età dell’oro della globalizzazione
Dalla fine del 17° secolo,. all’alba della rivoluzione industriale, il processo di globalizzazione si accelera partendo dalle basi edificate nell’epoca moderna. Il 19° secolo ne sarà pertanto il periodo d’oro e l’Europa il centro propagatore del nuovo fenomeno. Infatti dopo che l’Europa ha scoperto il mondo, essa non cesserà di volerlo unificare a sua immagine e profitto. Questa globalizzazione è la conseguenza del fatto che ormai tutto si fabbrica, si trasforma e si scambia in un mercato mondiale, dove le distanze, in termini di tempo, si sono ridotte per effetto della rivoluzione dei trasporti materiali ed immateriali che ha luogo negli anni 1900: dalla ferrovia al telefono, dalla nave a vapore al telegrafo, dall’automobile alla stampa. Uniformizzazione, unificazione, omogeneizzazione sono infatti le parole chiavi di quell’epoca dagli orizzonti allargati. Il mondo non ha più segreti per gli Europei e la colonizzazione - detta anche “divisione del mondo” che avviene fra il 1880 ed il 1914 – apre l’insieme dei continenti alla dominazione delle nazioni europee. E’ l’epoca dell’inizio dell’agonia del protezionismo, eredità del vecchio mercantilismo, è il tempo dell’apertura massiccia del mercato, attraverso un progressivo e generalizzato smantellamento dell’apparato doganale (trattati bilaterali fra tutti i paesi d’Europa conclusi sotto la spinta dei britannici fra il 1850 ed il 1870), mentre merci, capitali, cultura, informazioni ed uomini (circa 100 milioni di emigranti alla fine del 19° secolo) circolano fra le nazioni.
L’intensificazione degli scambi, più di ogni altro fenomeno, fornisce l’idea del grado di globalizzazione raggiunto. Una immensa produzione agricola ed industriale si vende e si acquista su scala mondiale, mentre il 90% della popolazione del pianeta vive in un regime di monete convertibili ed a valore fisso rispetto all’oro. E’ il sistema del riferimento oro. In questo mercato mondiale unico, dove la rapidità dei trasporti e l’utilizzazione delle telecomunicazioni consente un gioco quasi in tempo reale della domanda e dell’offerta, ogni mercanzia può essere dotata di un prezzo unico, fissato nelle Borse di Winnipeg, Amburgo o Londra. Da quel momento la crescita del commercio estero delle metropoli europee subisce una vera e propria impennata: dal 13 a 35 miliardi di franchi per l’Inghilterra fra il 1870 al 1914; da 5 a 25 per la Germania, da 2,5 a 15 per la Francia nello stesso periodo. Le parole dell’economista inglese Keynes descrivono perfettamente la situazione: “L’internazionalizzazione della vita economica era allora quasi completa”. Tale espansione viene ancor più accelerata anche dalla libera e massiccia circolazione dei capitali. Sotto forma di investimenti produttivi, di prestiti a corto termine sui mercati finanziari e monetari, di prestiti pubblici sottoscritti dallo stato, l’Europa sostiene questa economia con questi investimenti e ne ricava dei benefici notevoli. L’Europa è la banca del mondo ! Sui 150 miliardi di franchi di capitali così investiti, più del 50% sono inglesi ed il 30% sono francesi. Questa economia a livello mondiale non è ingessata. Le carte si rimescolano senza respiro nell’ambito di una concorrenza competizione accanita fra gli attori già istallati e quelli che aspirano a prendere il loro posto. In Europa, la Germania e la Francia disputano l’egemonia alla Gran Bretagna, in relativo declino in valore assoluto.
Riguardo ai paesi emergenti, quali la Russia, il Giappone e gli Stati Uniti, questi, coinvolti in una crescita economica senza precedenti, entrano in concorrenza con l’Europa sui loro mercati interni e su quelli esteri. Essi godono di una situazione certamente favorevole, in quanto padroni dei loro costi, in virtù di una mano d’opera abbondante e poco cara e perché in grado di utilizzare adeguatamente il saper fare e le tecnologie importate dall’Europa. Gugliemo 2° il Kaiser di Germania è il primo a denunciare il “pericolo giallo”, i contadini francesi iniziano da allora le periodiche e storiche lamentazioni protezionistiche, cominciando a lamentarsi dell’arrivo del grano russo sui mercati e gli industriali inglesi si cominciano seriamente a preoccupare della vitalità commerciale delle case tedesche ed americane. Nel frattempo nell’insieme della società domina l’ottimismo e l’idea di una età dell’oro o di una “belle epoque” che apra il 20° secolo a tutte le speranze. Anche questa globalizzazione ha dei rilevanti aspetti culturali, ma allora la cultura europea è quella dominante e seduce le élites di tutti di continenti. Senza complessi di sorta l’Europa pretende di incarnare la missione di “civilizzare le razze inferiori”. Sotto questa spinta alla globalizzazione culturale, il processo di colonizzazione subisce una decisiva accelerazione. Allorché un paese non risulta annesso giuridicamente, esso si trova in una situazione di dominio economico e l’Europa impone le sue regole grazie alla politica della porta aperta o alla diplomazia delle “cannoniere”. In tal modo la Cina viene aperta “manu militari” al commercio internazionale ed è costretta a concedere agli Europei, già dal Trattato di Tien Tsin del 1858, delle zone di influenza, che rappresentano altrettanti teste di ponte delle potenze coloniali sul suo territorio. La coppia virtuosa liberalismo economico - democrazia politica sembra già una ricetta miracolosa, applicabile a tappe a tutto l’insieme del mondo.
In conclusione, questa globalizzazione ha i suoi evidenti ispiratori nei paesi dell’Europa occidentale, iperpotenze dell’epoca ed il fenomeno si caratterizza per una accentuata europeizzazione del pianeta.
1914 - 1945. Il grande arretramento
Orbene nel momento in cui la globalizzazione a matrice europea sembra non avere più alcun ostacolo sul suo cammino, la guerra del 1914 – 1918 viene ad aprire un nuovo corso ed un nuovo periodo storico durante il quale il concetto e la sua realtà del fenomeno scompaiono dall’orizzonte politico. La 1^ guerra mondiale, per i suoi costi e la maniera con cui è stata finanziata, contribuisce a minare l’ordine economico mondiale precedente, ovvero la stabilità delle monete e dei prezzi, il sistema monetario internazionale. Il dopo guerra genera il fenomeno dell’inflazione e la diminuzione del potere di acquisto, a volte in maniera brutale e drammatica, come in Germania, dove il valore del marco oro che equivaleva a 45 marchi in biglietti nel gennaio 1922, passa nel giro di un anno a 4 281 marchi di carta per raggiungere nell’ottobre 1926 l’assurdo valore di ben 6 miliardi di marchi in biglietti. La fluttuazione del valore delle monete, le une rispetto alle altre e nei confronti dell’oro, mette fine alla loro libera convertibilità in oro agli inizi degli anni 1930. La 1^ guerra mondiale ha parimenti sconvolto il rapporto fra le forze economiche. L’Europa industriale esce notevolmente indebolita dal conflitto, Per l’Europa centrale ed orientale, in via di industrializzazione, inizia un lungo periodo di crisi e di declino. Le distruzioni della guerra, i conflitti interni, le rivoluzioni, gli smembramenti di imperi e la balcanizzazione determinano, da un lato l’isolamento di certi stati (Russia) e dall’altro la creazione di un mosaico di economie separate (le una dalle altre) e private di quell’aspetto della complementarietà regionale, che rappresentava il substrato primario del sistema economico precedente.
Il conflitto mondiale ha quindi consentito agli Stati Uniti di accedere al rango di prima potenza mondiale, giocando un ruolo preminente nell’economia internazionale alla quale sino ad allora avevano preso parte da semplici comprimari. Infine il resto del mondo, in particolare l’America latina e l’Asia, comincia ad emanciparsi dalla dominazione europea. I paesi indipendenti, alcune colonie tagliate fuori dai loro commerci tradizionali con le grandi potenze hanno sviluppato una loro industria e nuovi concorrenti ed attori economici sorgono in Europa (vedi Italia).
La macchina economica rimane praticamente bloccata per quasi vent’anni. Il mondo del dopo guerra si caratterizza in effetti per una riduzione ed una parcellizzazione del mercato mondiale. La Russia inizia la sua strada sul percorso dell’autarchia socialista. Gli stati, indebitati e specialmente le grandi potenze di prima della guerra (Gran Bretagna, Francia e la Germania che vive a credito), riducono sensibilmente il loro tenore di vita e rinunciano alle grandi politiche d’investimento (infrastrutture, ecc.). Le difficoltà spingono al nazionalismo economico e quindi al protezionismo, specie dopo la crisi del 1929 che farà cadere la domanda sul mercato mondiale e contribuirà a segmentare ulteriormente l’economia (“Import Dutie Act” inglese del marzo 1933 che aumenta i dazi doganali dal 15 al 33%, autarchia della Germania nazista e nell’Italia fascista dopo il 1934). Questo fenomeno concerne soprattutto l’Europa, ma il suo generale arretramento tocca specialmente l’Asia e l’Americana latina. Economia di mercato, il capitalismo si sviluppa proprio quando il mercato si sviluppa e si unifica; per contro perde slancio e si asfissia quando il mercato si riduce e si segmenta; esso entra in crisi quando il potere di acquisto a livello mondiale, cioè la domanda, risulta inferiore all’offerta: questa è la principale causa della crisi del 1929 dalla quale il mondo non riesce a riprendersi prima del 1939 per la difficoltà a trovare i mezzi o le risorse per ridare al mercato vigore ed unità.
Questa frammentazione degli spazi e l’implosione dei sistemi di regolazione, che avevano permesso lo sviluppo della prima età dell’oro della globalizzazione, appaiono dunque come la fine di un processo vecchio di diversi secoli e cioè il fatto che il vecchio continente, ovvero l’Europa, non è più al centro del mondo. Gli Stati Uniti, spinti al rango di potenza dominate dalla 1^ guerra mondiale, avrebbero dovuto giocare immediatamente un ruolo centrale al posto dell’Europa ma tale ruolo fu inizialmente rifiutato. Il Senato degli USA, nel 1920, si oppone alla ratificazione del Trattato di Versailles, che metteva fine alla guerra, tornando in tal modo al tradizionale isolazionismo. Certamente questo ritiro politico non appare scevro di ambiguità almeno fino alla crisi del 1929. Già il Presidente democratico Woodrow Wilson proponeva nel 1918, attraverso i “14 punti”, di unificare il mondo, applicando il principio della libertà degli scambi e di assicurare in tal modo la penetrazione economica e finanziaria americana su tutti i mercati del mondo. Questo progetto ritorna in auge sotto l’amministrazione repubblicana con i piani Dawes (1924) e Young (1929)[2]. Questi piani, con la scusa di risolvere la questione delle “Riparazioni” tedesche, organizzano di fatto una “comunità atlantica” a direzione americana. E questa non si limita alla sola sfera economica e finanziaria. Con i prodotti ed i capitali, essi fanno penetrare gli ideali della democrazia americana, la sua cultura (musica, cinema) e la loro visione del mondo (liberalismo). Tale atteggiamento porta ad una reazione da parte di alcuni contemporanei europei a denunciare un fenomeno che viene analizzato come una volontà americana di imporsi sull’Europa.
La crisi del 1929 non permetterà a questo nuovo embrione di globalizzazione a direzione americana di concretizzarsi. Essa provoca per contro un ripiegamento su sé stessa della nuova potenza dominante. In definitiva questo progetto di globalizzazione USA, che si esaurisce fra il 1929 ed il 1932, aveva comunque poche possibilità di riuscire. L’Unione Sovietica rimaneva ai margini del mondo, la sua ideologia messianica costituiva un modello credibile ed attraente per opporsi alla globalizzazione capitalista. Il sogno di una rivoluzione mondiale trovava una eco altrove nei partiti comunisti occidentali, come nei movimenti di contestazione coloniale. In definitiva, se le nazioni europee non possedevano più il vigore di una volta, esse rimanevano comunque dei poli di potenza, dotati di grandi imperi coloniali organizzati a loro profitto e dove il principio della libera circolazione delle mercanzie (prodotti) e dei capitali, sognata dagli americani, non poteva essere applicata. Bisognerà attendere pertanto il secondo conflitto mondiale affinché rinasca la volontà di unificazione del globo di cui gli Americani diventeranno gli araldi ed i propugnatori.
Guerra Fredda. La Globalizzazione conosce dei limiti.
Gli USA, entrati nel conflitto nell’estate 1941, cominciano a pensare a ciò che potrebbe essere l’organizzazione del mondo dopo la guerra. Il sogno del loro Presidente, Franklin Delano Roosevelt, è quello di Wilson del 1917: democrazia e libero scambio per tutti e forum delle nazioni per mantenere la pace. Ma le circostanze sono differenti poiché la potenza americana è incomparabilmente più significativa ed i dirigenti americani, al pari del loro popolo, più inclini ad accettare un ruolo che nel 1920 aveva rifiutato. Le sole incognite di queste equazioni sono rappresentate in primo luogo dall’URSS, ma Roosevelt non la ritiene ostile ad una sua inserzione in un mercato mondiale e ad una partecipazione alla sicurezza collettiva. In secondo luogo l’Europa dalla quale gli USA sperano una politica di emancipazione delle loro colonie.
Questo è dunque il motivo ispiratore del Presidente americano e quello del suo successore, Harry Truman, nell’impiantare l’Organizzazione delle Nazioni Unite in occasione della Conferenza di S. Francisco del giugno 1945. Truman dichiara in questa occasione che, grazie alla Carta delle Nazioni Unite; “il mondo intero può cominciare a intravedere il momento in cui tutti gli esseri umani potranno vivere una vita decente di uomini liberi”. In effetti l’ONU non è solamente la sicurezza collettiva ed il mantenimento della pace, ma anche, come preannunciato dal preambolo e dell’articolo 1 della Carta, la nascita di una cooperazione internazionale con l’obiettivo di assicurare le libertà politiche ed economiche sull’insieme del pianeta.
Per conseguite tale risultato appare opportuno di mettere in opera degli organismi di regolazione che permettano di creare nuovamente un mercato mondiale unico. A seguito della Conferenza di Bretton Wood del luglio 1944, nascono pertanto nel marzo 1947 l’FMI (Fondo Monetario Internazionale con sede a Washington) e soprattutto nell’ottobre seguente il GATT (Accordo Generale sulle tariffe doganali ed il commercio)
Il primo organismo rinnova con la pratica del Gold Exchange Standard, già sperimentato negli ani 1920; viene restaurata la libera convertibilità di tutte le monete fra di loro ed il dollaro, sulla base di riferimento di 35 dollari l’oncia. Il FMI prevede delle parità fisse fra le monete in un intervallo di variabilità di + o – 1%. Il parere dell’FMI diviene necessario nel caso di una svalutazione. Un fondo comune, alimentato dai versamenti degli stati membri, deve servire ad aiutare quei paesi che dovessero avere bisogno di fondi per riequilibrare la bilancia dei pagamenti. Su questa base si possono così sviluppare gli scambi commerciali secondo le modalità previste dal GATT: riduzione dei diritti di dogana e degli ostacoli non tariffari: I principi che regolano il sistema sono la reciprocità, l’applicazione generalizzata delle clausole di nazione più favorita (le concessioni doganali concesse da un membro del GATT ad un altro vengono gradualmente estese a tutti i paesi firmatari) e l’interdizione delle pratiche scorrette come il dumping (la vendita di prodotti ad un prezzo inferiore al loro prezzo di realizzo).
Per completare l’opera, l’ONU, attraverso il suo consiglio economico e sociale, i suoi organismi specializzati come il BIRD (Banca Internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo per finanziare grandi progetti di investimento) o la FAO (Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura con lo scopo di stabilizzare i mercati agricoli), assicura la coerenza del sistema. In definitiva si lavora alla ricostruzione e l’unificazione del mondo su delle basi liberali sotto la tutela degli USA. Questi ultimi sono allo stesso tempo gli iniziatori ed i beneficiari del sistema, come è stato il caso della Gran Bretagna nel 19° secolo allorché questa lancia, fra il 1850 e 1870, il movimento di liberalizzazione degli scambi mondiali.
Tuttavia questa nuova globalizzazione non è stata pertanto una età dell’oro comparabile a quella del 19° secolo ed i suoi propugnatori americani non hanno potuto approfittarne nella misura in cui la loro supremazia mondiale poteva far supporre.
Inizialmente perché, contrariamente alle illusioni di Roosevelt ed ai tentativi di Truman, non solo l’URSS non aderisce né al FMI né al GATT, rifiutando pertanto di integrarsi al mercato mondiale e di adottarne le regole, ma soprattutto porta dietro di sé i paesi satelliti europei e quindi la Cina, diventata comunista nel 1949.
Gli USA e l’URSS entrano nel periodo della guerra fredda, competizione mondiale che nuoce indubbiamente alla globalizzazione liberale, anche da un punto di vista ideologico.
In seguito, anche se gli araldi del liberalismo di oltre Atlantico assistono allo sfaldamento degli imperi coloniali europei, non tutti i paesi del sud del mondo entrano nel mercato mondiale ed aderiscono all’ideologia liberale. Molti di essi adottano al contrario una posizione marxista o nazionalista. Infine l’Europa dell’ovest che si integra indubbiamente nella globalizzazione ma con una certa prudenza. Gli USA, nel proporre il Piano Marshall per aiutare la ricostruzione (offerta inizialmente diretta a tutti i paesi dell’Europa ma rifiutata dall’URSS e dal suo blocco), mette in piedi un nuovo organismo atlantico, euro americano, applicando i loro principi e naturalmente anche la loro egemonia. Nonostante ciò la CEE (Comunità Economica Europea), nata dal Trattato di Roma del marzo 1957, stabilisce alle sue frontiere una tariffa estera comune abbastanza protezionistica per i generi agricoli e quindi meno liberista di quanto auspicato dagli USA per i prodotti industriali ed i servizi.
Indubbiamente la costruzione di un nuovo ordine ha consentito uno sviluppo senza precedenti nel commercio internazionale. Così, dopo la fase di ricostruzione degli anni 1950, gli scambi mondiali triplicano fra il 1960 ed il 1973 ed i tre grandi poli del commercio (USA, Europa e Giappone) costituiscono il 66% degli scambi. Inoltre, a partire dagli anni 1970, lo sviluppo delle relazioni commerciali fra la sfera capitalista e la sfera comunista, il decollo economico dei paesi del sud del mondo (America latina ed Asia), l’inserimento nel mercato delle nazioni in via di sviluppo, produttrici d’energia o di materie prime, consentono un sviluppo negli scambi senza precedenti. E questo avviene anche dopo gli shock petroliferi del 1973 e del 1979: gli scambi crescono di sei volte in valore dal 1973 al 1989, passando dai 574 ai 3.400 miliardi di dollari. Questo risultato è peraltro da collegare anche ai cicli di negoziazioni commerciale condotti nel quadro del GATT (il “Kennedy Round” e l’”Uruguay Round”), che contribuiscono allo smantellamento di numerosi diritti doganali diretti o indiretti.
Ma non si può ancora parlare di predominio dell’ideologia liberale, né di globalizzazione dell’informazione e della cultura, né di preminenza assoluta degli USA. Il capitalismo non é riuscito a colonizzare tutti gli spazi economici disponibili e laddove predomina, gli USA non sono padroni (concorrenza e resistenza del Giappone e della CEE e di certi paesi latino americani). Gli USA, shoccati dal loro fallimento nel Vietnam, contestati dalle democrazie europee, denunciati dal sud del mondo, contestati persino all’ONU, ingaggiati in un braccio di ferro terrestre e spaziale con l’URSS ed attaccati da concorrenti economici efficaci (Giappone ed Europa), sono per di più traditi dalla loro moneta, che non ha potuto sopportare il rilevante costo degli impegni esterni e della guerra fredda e quindi non sono stati in condizione di mantenere gli impegni del 1945.
Washington abbandona così nel 1971 la libera convertibilità del dollaro in oro. Le parità fisse cedono il posto ad un sistema di cambi variabili. Gli Americani, a tutti gli effetti, sono ben lontani dall’essere i demiurghi trionfanti di una globalizzazione riuscita.
La rottura degli anni 1990
E’ proprio l’inizio degli anni 1990 che segna una rottura nella storia della globalizzazione ed apre la strada a quella che potrebbe essere la seconda età dell’oro dopo quella del 19° secolo. Da allora il fenomeno chiamato globalizzazione non è stato altro da un lato che l’unità ritrovata di un mercato mondiale globale e del quale la guerra 1914 - 1918 aveva segnato un termine provvisorio e dall’altro il trionfo planetario dell’economia capitalista che si impone a tutti, proprio come prima del 1914. Anche la stessa Cina o il Vietnam si aprono al mercato, pur restando comuniste. La globalizzazione di oggi ha le stesse caratteristiche di quelle della fine del 19° secolo: crescita della domanda legata all’incremento della popolazione e del tenore di vita, alla quale si aggiungono quelle dei vecchi paesi comunisti; rivoluzione dei trasporti e dei mezzi di comunicazione che accelerano vieppiù la circolazione dei prodotti, dei capitali, delle informazioni; sviluppo delle società transnazionali o multinazionali; regno del libero scambio sotto l’egida del GATT, poi del nuovo organismo l’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio), creato al suo posto nel 1994.
Il commercio mondiale cresce in volume d’affari del 4,7% nel 1990, del 4% nel 1991, del 5% del 1992, del 4,1% nel 1993 e del 10,3% nel 1994. Nel 1995 gli scambi di prodotti e di servizi raggiungono un nuovo record i 6 mila miliardi dollari, record regolarmente battuto a partire dal 1966, mentre il peso dei servizi, dell’invisibile, del virtuale non cessa di aumentare in percentuale e la crescita del commercio supera quella della produzione. Così nel campo economico e finanziario, la globalizzazione diviene una realtà. Il polmone di questa globalizzazione è rappresentato dalle società multinazionali, mentre il ruolo dello stato, come attore economico, diviene progressivamente più marginale, dal momento che il suo ruolo diretto nella produzione (società pubbliche), di regolatore economico o di attore monetario non cessa di affievolirsi a vantaggio delle società e delle istituzioni internazionali e delle norme commerciali, monetarie e giuridiche che queste emettono.
Le società multizionali, molte delle quali sono conosciute, perché divenute marchi internazionali attraverso campagne di pubblicità e di marketing, si dotano ormai di una strategia planetaria. Esse localizzano le loro attività in funzione dei vantaggi comparativi di ciascun paese, organizzano le loro fabbriche e le loro filiali in una rete integrata a livello mondiale e realizzano fra di loro delle alleanze e delle megafusioni per controllare meglio i loro mercati commerciali e fornire ai mercati finanziari, dai quali dipendono per il loro valore in borsa, per il loro finanziamento esterno e per i prestiti, i rendimenti finanziari che essi si attendono.
Attraverso il mondo, qualche società transnazionale (150 sulle 50 mila recensite dall’ONU, delle quali l’80% originarie del nord del mondo) costituiscono da sole più di un terzo delle esportazioni mondiali, circa il 50% delle esportazioni americane, l’80% delle esportazioni inglesi o il 90% di quelle di Singapore. Il loro campo preferito sono i prodotti di base (alimentari, energia, minerali) ed i servizi (telefoni, informatica, comunicazione, consumazione).
A breve termine sembra che nulla sia in condizione di condizionare questa nuova era dell’oro della globalizzazione: Questa può appoggiarsi sulle tecnologie dell’informazione, sulle istituzioni internazionali destinate alla sua propagazione, sulle ideologie liberali che dominano l’universo del pensiero politico e sui comportamenti dei consumatori ghiotti di marche mondiali e dei loro prodotti, compresi quelli culturali.
Certamente questa globalizzazione è a vantaggio degli USA per la semplice ragione che essi sono di gran lunga la potenza dominante in tutti i campi. E pur vero che il loro governo fa quanto è necessario per promuovere l’ideologia liberale e gli strumenti che la sostengono. (non senza d’altronde suscitare resistenze e proteste sia al Congresso, sia fra i sindacalisti dei lavoratori, sia fra le organizzazioni degli agricoltori).
In questo modo L’OMC ha seguito le sollecitazioni americane: eliminare i più rapidamente possibile i diritti di dogana e gli ostacoli tariffari sugli scambi; continuare il movimento di liberalizzazione dell’agricoltura e dei servizi; aprire nuovi campi di negoziazione come gli investimenti diretti e di monopoli pubblici. Essa ha anche accolto la Cina nel corso del 2001, evento che ha marcato una tappa cruciale sulla via di una globalizzazione economica assoluta del mondo.
Globalizzazione o americanizzazione ?
A questo punto come ci si può stupire sulla confusione che esiste oggi fra la globalizzazione, nei suoi molteplici significati e l’americanizzazione del mondo ?
E’ pur vero che l’originalità dell’attuale supremazia americana risiede nel fatto che la potenza dominante esporta allo stesso tempo i suoi prodotti, i suoi capitali, i suoi servizi, le sue tecnologie ma anche la sua cultura, i suoi modi di vita, la sua visione liberale del mondo, per mezzo del suo apparato statale e forse soprattutto attraverso le sue società transnazionali come Microsoft, Coca Cola, Nike, Mac Donald e Time Warner, di cui sono i simboli più conosciuti. Mai la Gran Bretagna, la Francia o la Germania all’inizio del 20° secolo hanno potuto nel passato, come invece lo possono fare oggi gli USA, orchestrare e dominare la globalizzazione. Tuttavia tale fenomeno da quel momento è stato percepito come una americanizzazione, che inevitabilmente generato delle profonde resistenze. Il fallimento della Conferenza dell’OMC di Seattle nel novembre 1999 e lo scontro che ne è seguito fra le istituzioni economiche internazionali ed i movimenti anti globalizzazione ostili al liberalismo ed agli USA - ostilità che incontra un’eco reale nell’opinione pubblica - mostrano che la società mondiale produce degli anticorpi contro il processo mondiale in atto.
La situazione così deteriorata impone, in occasione delle riunioni, l’isolamento degli attori ufficiali dalla strada e dalla folla. Questo è stato il caso della Conferenza delle Americhe a Quebec dell’aprile 2001, di quello del G8 di Genova del giugno 2002. Ma successivamente vengono scelte delle sedi isolate e lontane da tutto (Conferenza dell’OMC a Doha nel novembre 2001 e quella del G8 nelle Montagne Rocciose nella primavera del 2002) e quando il forum economico mondiale di Davos si disloca a New York (febbraio 2002), il forum alternativo di Porto Alegre prende a questo punto cerca di prendere una posizione di concorrente nel tentativo di rivalizzare o di mettere in ombra la riunione ufficiale. A Porto Alegre si sono date appuntamento tutte le contestazioni, dalla più moderata alla più radicale, dalla più strutturata alla più disorganizzata fra le quali anche organizzazione non governative e dell’ONU. Questi movimenti propugnano la tassazione dei flussi di capitali, per la rifondazione di un FMI, per la lotta alla povertà, per uno sviluppo durevole, ecc. L’evidente successo dei contestatori è testimoniato dall’ampiezza e dall’eco assunto dalla antiglobalizzazione. Ciascuno vorrebbe rimettere in causa le basi della globalizzazione di questi ultimi venti anni (privatizzazioni, liberalizzazione, deregolamentazioni) e contesta per principio il suo grande manovratore, gli USA, così come le grandi istituzioni internazionali che essi hanno creato e dominato. (FMI, OMC, Banca Mondiale). Allo stesso modo l”American way of life”, veicolata dalla globalizzazione, viene attaccata nei suoi simboli principali: McDonald, Nike, Coca Cola ecc. Molti per denunciare questo imperialismo culturale si appoggiano su dei fatti concreti: la macchina Hollywoodiana, la CNN, le serie televisive (da X File a Friends), le catene di produzione di fiction ed i divertimenti da satellite, le musiche americane (jazz, rock, rap, techno, ecc.). Vengono evocate anche le intenzioni USA in materia di “Soft power”, concetto secondo il quale la conoscenza e la cultura sono effettivamente un potere (sotto questo aspetto gli USA non sembrano poi essere così originali rispetto agli Europei, in quanto tale politica, sovente accoppiata ad una ideologia, era stata praticata nel passato, con estrema determinazione e senza pudore, anche da quelli che oggi sembrano contestare tale fenomeno, come ad esempio i Francesi nel periodo degli Imperi e precedente). Certamente la cultura é un potere di seduzione dei cuori e degli spiriti a volte altrettanto efficace, se non di più, di quello delle armi.
Lo scontro si anima pertanto anche nel campo culturale dopo il battibecco occorso nell’Uruguay Round (1994 - 94) sulle eccezioni culturali ed il fallimento del tentativo di liberalizzare il settore della cultura durante le negoziazioni nella Conferenza sull’Accordo Multilaterale sull’Investimento, tenutasi fra il 1995 ed il 1998 nel quadro dell’Organizzazione di Cooperazione e per lo Sviluppo Economico (OCDE). Da quel momento la prospettiva di un mercato internazionale della cultura, trattata allo stesso modo del mercato economico, ha suscitato numerose obiezioni azioni e reazioni: rifiuto di discutere la liberalizzazione dei servizi audiovisivi in occasione della Conferenza dell’OMC di Seattle del 1999; inclusione dei beni culturali nell’accordo di libero scambio nord americano[3]; dispositivo europeo con la direttiva “televisione senza frontiere” ed il programma Media (dispositivo di sostegno finanziario alle produzioni europee); dichiarazione dell’UNESCO nel novembre 2001 sulla diversità culturale, ecc. Questo movimento si alimenta di un paradosso: la certezza della potenza indiscutibile degli USA e la percezione delle loro fragilità: Il dramma dell’11 settembre 2001 ha tragicamente sottolineato che anche lo stesso santuario territoriale americano non è più inviolabile, nonostante l’immensità della disponibilità di mezzi di difesa e di informazioni di cui dispone. Quello che sembrava impensabile e che non era mai successo dal 1812[4] - che il cuore simbolico della loro potenza potesse essere distrutto in qualche minuto - ha lasciato credere che gli USA potessero volgere le spalle ai procedimenti unilaterali della superpotenza e rivedere i loro atteggiamenti, tenendo conto dell’ostilità che provoca la globalizzazione sotto la loro tutela.
Di fatto nulla è cambiato. Dopo un momento di dubbio, gli USA hanno proseguito nella loro marcia, contrattaccando su tutti fronti con audacia e vivacità, tanto da potersi domandare dove potrà portare la globalizzazione americana figlia degli anni 1990. Nel breve termine quasi certamente nulla cambierà, tanto è enorme il differenziale di potenza fra gli USA ed il resto del mondo. Tale situazione trova conforto anche nella debolezza degli altri, in particolare dell’Europa, incapace di proporre una alternativa politica, economica, sociale e diplomatica credibile.
Paradossalmente, mai come oggi l’universalismo occidentale ed il suo modello di libertà e di progresso, che incarnava l’Europa del 19° secolo e che incarna oggi il sogno americano, hanno attirato le popolazioni del pianeta dopo la caduta delle altre utopie laiche (comunismo, nazionalismo, terzomondismo). A tal punto che questa globalizzazione culturale - che non è certo una americanizzazione ma una occidentalizzazione del mondo, che sotto questo punto di vista si perpetua sin dal 1492 - non trova altri concorrenti al di fuori dell’Islam terrorista. Questo in effetti sembra in condizioni di ferire il suo nemico, di seminare, a volte ed in varie parti del globo, la morte e la desolazione, ma non appare in alcun modo capace di offrire un modello concorrenziale per la società del pianeta, né sembra altresì in grado di scalzare in alcun modo le fondamenta della globalizzazione liberale.
In realtà, al di là di una frangia di opposizione radicale e di vetero marxisti, il fenomeno della antiglobalizzazione sembra essersi appannato nei suoi aspetti di netta contrapposizione e quelli che oggi contestano seriamente il fenomeno attuale chiedono il più delle volte di correggerne le derive di tipo egoistico, le deviazioni imperialistiche e di riequilibrare i rapporti di forza fra gli USA ed il resto del mondo. Questo appare effettivamente l’obbiettivo perseguibile negli anni a venire. Una sfida che concerne in primo luogo l’Unione Europea e tutti i suoi principali paesi aderenti.
[1] Il sociologo canadese Herbert Marshall MCLUHAN (1911 - 1980) ha lanciato l’idea di “Villaggio planetario”, conseguenza del progresso dei mass media.
[2] Per facilitare i pagamenti delle “riparazioni” che la Germania deve ai vincitori, il Piano Dawes fissa un rimborso delle riparazioni per rate annuali progressive, mentre il piano Young prevede un alleggerimento delle somme.
[3] Concluso nel 1992 questo Trattato apre la strada ad un mercato globale di 365 milioni di consumatori (Messico, USA e Canadà).
[4] Dalla guerra contro la Gran Bretagna (1812 - 15) dove gli Americani hanno dovuto combattere sul proprio suolo e nella quale gli Inglesi erano riusciti a conquistare anche la capitale, Washington.