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IACOPI DISCENDENZE E STORIA

Una vita di ricerche per conoscere chi sono.

  

LEPANTO dall'alba al tramonto

LEPANTO

dall'alba al tramonto

 

(un estratto del presente articolo è stato publicato su “Gli antichi Statuti del Comune di Nettuno” ed. maggio 2005)

 

La mattina del 7 ottobre 1571 la flotta della Lega cristiana avvista i legni turchi. Alle ore 12.00 le galee di Alì Pascià si gettano all'arrembaggio delle navi di don Giovanni d'Austria. Al tramonto, dopo prodigi di valore da ambo le parti, la battaglia è vinta da parte della lega Santa. Per la prima volta l'espansione ottomana nel Mediterraneo viene arrestata.

La Lega Santa

Il 20 maggio 1571 viene finalmente firmata la Lega Santa contro i Turchi. Vi aderiscono il Regno di Spagna, la Repubblica di Venezia, lo Stato Pontificio, le Repubbliche di Genova e di Lucca, i Cavalieri di Malta, i Farnese di Parma, i Gonzaga di Mantova, gli Estensi di Ferrara, i Della Rovere di Urbino, il Duca di Savoia, il Granduca di Toscana. Le spese vengono divise in sei parti: tre a carico della Spagna, due di Venezia e una del papa.  La Lega era stata fermamente voluta da Pio 5°, Michele Ghislieri, nato ad Alessandria nel 1504, povero pastore di pecore, frate domenicano, inquisitore. Divenuto papa nel 1566 egli imposta la sua azione ad una rigorosa riforma della Curia e della città di Roma, combattendo l'eresia protestante in tutta Europa.

Forze in campo

La flotta della Lega Santa risulta costituita da:

- Repubblica di Venezia: 114 galee sottili; 54 con equipaggi provenienti da Venezia, 30 da Creta, 7 dalle Isole Ionie, 8 dalla Dalmazia, 15 da città di terraferma ed altri. Agli ordini dell’Ammiraglio in Capo (Signore del mare, deriva da Amir - alComandante di) Sebastiano Venier imbarcato su una galea bastarda la “Capitana” (più lunga dell’ordinario; per la quale sono occorsi 300 abeti e larici; 300 querce e 60 faggi) e del Provveditore Generale della Flotta (dal latino Providere. Ufficiale pubblico incaricato di un comando di una nave, di una piazzaforte, od anche ufficiale di sanità) Agostino Barbarigo;

- Repubblica di Venezia: 6 galeazze. Le galeazze sono delle vere e proprie fortezze galleggianti munite di 40 o più cannoni, in grado di sparare palle da 13 chilogrammi in coperta e da 23 chilogrammi da sottocoperta. Agli ordini dell’ammiraglio Francesco Duodo, alle dipendenze del Venier;

- Regno di Spagna: 36 galee sotto il comando spagnolo con equipaggi di Napoli (19 galee) e  di Sicilia, Il Comandante in Capo è Don Giovanni d’Austria che alza le sue insegne sulla “Real”.

- Regno di Spagna: 22 galee sotto il comando spagnolo con equipaggi di Genova; si trattava di 10 galee prese a nolo dal finanziere Gian Andrea Doria, nipote di Andrea Doria; 3 galee della Repubblica di Genova, agli ordini di Ettore Spinola con a bordo il Farnese; 6 galee noleggiate ed armate da imprenditori genovesi (Nicolò Doria, Grimaldi, Imperiali, ecc.); 3 galee (Piemontese, Margarita e Duchessa) del Ducato di Savoia, agli ordini di Provana di Leynì.

- Granducato di Toscana: 12 galee mandate da Cosimo 1° dei Medici, armate ed equipaggiate dai Cavalieri dell'ordine pisano di Santo Stefano

- Stato della Chiesa: 12 galee, concesse dai veneziani allo Stato Pontificio ed armate ed equipaggiate a spese del papa, agli ordini dell’ammiraglio pontificio Marcantonio Colonna.

- Malta: 3 galee dei Cavalieri di Malta, agli ordini del Priore Pietro Giustiniani, inquadrate nella flotta spagnola.

In totale 205 tra galee e galeazze, di cui 168 provenienti da stati del territorio italiano, oltre ad una trentina di fregate e navi ausiliarie minori.

La truppa é costituita da circa 30 mila uomini così suddivisi:

- 20.000 soldati a spese della Spagna (Tercio spagnolo, di cui un battaglione piemontese);

- 5.000 militari al soldo di Venezia (Fanteria da Mar);

- 2.000 soldati pagati dallo Stato Pontificio;

  • - 000 volontari provenienti da tutta la Cristianità.

Le galee veneziane sono in buono stato, ma con pochi soldati. Don Giovanni d'Austria vi fece imbarcare 4.000 soldati italiani e spagnoli.

Una nave veneziana aveva di norma un Sopracomito (Cte), un Comito (pilota), un Sottocomito (vice pilota), 3, 4 ufficiali ed circa 30 marinai per le manovre e di norma una quindici di sorveglianti ai remi. Gli equipaggi addetti alla manovra (una moltitudine di specialisti, marinai, cannonieri, intendenti, ecc., funzioni particolari ed importanti, quali il carpentiere o lo specializzato nella realizzazione o  riparazione di remi) sono complessivamente circa 8 - 9.000 uomini ed i vogatori, sebbene decisamente maggioritari sul numero delle persone imbarcate (≈ 43.500 rematori) e costituiti essenzialmente da cristiani volontari, da arruolati e da forzati (appena 16 galee erano composte da ciurme di forzati), sono appena sufficienti alle esigenze. Tale carenza costringe a mettere solo 3 uomini per i remi a scaloccio.

La flotta cristiana imbarca complessivamente 75 mila uomini con

1815 cannoni  (di cui 905 di Venezia; 555 della Spagna, con Napoli e Sicilia) e più di 3500 archibugi, oltre ad un discreto numero di picchieri e balestrieri.

La flotta della Sublime Porta risulta costituita da:

221 galee ; di cui 190 dell’Impero ottomano, agli ordini di Mehemet Alì Sadi Pashà e del suo vice Mehemet Sciaurak Pashà detto Scirocco; 7 del Dey di Algeri e 24 dei Pirati Barbareschi, al comando del Dey Ulug (Ulij) Alì detto Occialli o Occhiali, un rinnegato cristiano di origine calabrese, tale Luca Giovanni Dionigi Galeni (1520 - 95); Tutti i capi sono marinai esperti competenti e valorosi. Fra questi spiccano per la loro professionalità Perteù Pashà, Hassan Pashà (figlio del Barbarossa) e Kara Pashà.

-    38 Galeotte o Galerotte;

-    21 Fuste, per un totale complessivo di 280 navi da battaglia oltre a numerose imbarcazioni minori ausiliarie.

La truppa é costituita da circa 26 mila uomini così suddivisi:

- 15.000 giannizzeri, di cui 10 mila imbarcati da poco tempo;

- 11.000 soldati di altra provenienza.

La situazione degli uomini imbarcati sulle navi turche è sostanzialmente equivalente a quella della Lega Santa per quanto attiene agli equipaggi (13.000) ed ai rematori (40.000), con la sola differenza, peraltro fondamentale che la stragrande maggioranza dei vogatori del campo ottomano è rappresentata da forzati o da schiavi e fra questi circa il 50% è costituito da schiavi cristiani, di cui circa 10 mila frutto delle recenti razzie a Creta (3 mila) e nelle isole dell’arcipelago di Cefalonia (7 mila).

In termini di armamento la flotta turca ha una disponibilità di circa 3000 archibugi, una nutrita schiera di arcieri e solamente 750 cannoni.

In definitiva i Turchi risultano superiori in termini di navi, equivalenti in numero e qualità di capi e di soldati. Essi sono sostanzialmente equivalenti in numero di vogatori, ma inferiori nel numero di archibugi e fortemente carenti in termini di artiglierie. Un altro elemento di vulnerabilità per i Turchi è fornito dalla composizione dalla ciurma ai remi che, costituita solo da forzati e per lo più cristiani, risulta essere infida e persino inaffidabile nei momenti critici. La situazione dei vogatori della Lega Santa è decisamente più omogenea e gli arruolati ed i volontari ai remi, di gran lunga la maggioranza, non di rado partecipano attivamente al combattimento.

Prima della battaglia

Sulla base degli accordi stipulati, la flotta cristiana effettua la sua radunata nel porto di Messina dal 20 luglio 1571 con l’arrivo della componente pontifica di Marcantonio Colonna. Il 23 agosto seguente giunge a Messina Don Juan d’Austria che assume ufficialmente il comando e la radunata si completa il 10 settembre successivo con l’arrivo della seconda parte della flotta veneziana. La flotta così riunita salpa il 16 settembre dirigendosi verso Corfù e dopo uno spostamento verso Igoumenitza sulla costa albanese, il 4 ottobre seguente giunge in prossimità di Itaca nell’arcipelago di Cefalonia. Le navi esploratrici confermano che la flotta turca si trova riunita nei pressi del golfo di Lepanto. Il 5 ottobre la flotta cristiana giunge nel porto di Viscando o Fiscardo, non lontano dal luogo della battaglia di Azio, ma le condizioni meteo, forte vento e nebbia, non permettono di proseguire. Finalmente migliorate le condizioni del mare la flotta della Lega riprende il mare nella notte del 5 ottobre e muove, divisa in tre squadre, alla volta del golfo di Patrasso, per andare incontro ai turchi e costringerli alla lotta, prima che la cattiva stagione impedisca la condotta delle operazioni e le faccia rimandare alla primavera seguente.

I Turchi, che nel frattempo avevano recuperato parte della loro flotta, di ritorno dal Cipro a Creta, dove hanno imbarcato 10 mila giannizzeri e si erano dati ad effettuare scorrerie e razzie nell’Adriatico, decidono, davanti alla minaccia cristiana, di effettuare la radunata nel golfo di Patrasso e più precisamente nella piccola insenatura di Naupaktos (Lepanto), protetta dalle isole Curzolari.

All'alba del 7 ottobre 1571 in una serena giornata di primo autunno i cristiani sono ormai giunti in vista delle Curzolari. Manovrando controvento contro una lieve brezza da o­riente, avanza a forza di remi la più imponente flotta di galee che la cristianità è stata mai in grado di a riunire per dar battaglia ai turchi. E proprio quando il sole comincia a spuntare sullo Ionio le avanguardie della Lega danno il segnale di navi che avanzano in senso opposto. Si tratta infatti proprio della flotta ottomana al comando di Alì Pascià che, lasciata Lepanto, sta avanzando con tutte le forze che la compongono, circa 280 navi, nella speranza di prendere il largo prima che la flotta nemica glielo impedisca. Ma ormai è tardi, la flotta della Lega blocca l’uscita del golfo e ha inizio la grande giornata di Lepanto. Lo scontro assume le tipiche caratteristiche di un combattimento d’incontro nel canale fra le isole Curzolari a sud e la costa greca a nord, al quale i Turchi non possono ormai sottrarsi.

Lo schieramento delle flotte

Assolto il loro compito di av­vistamento, le galee leggere tor­nano ad unirsi al grosso della flot­ta. Ora le decisioni spettano ai capi. Don Giovanni d'Austria, benché impreparato (come d'al­tra parte Alì Pashà) a una così improvvisa presa di contatto col nemico, comprende che non può rifiutare il combattimento, e or­dina che si dia il segnale d'at­tacco: sull'albero di trinchetto della sua galea, la Reale, sa­le quindi uno stendardo verde mentre viene sparato un colpo a salve.

Subito, da parte cristiana o­gnuno cerca di prendere al più presto la propria posizione nel­lo schieramento fissato sul piano di battaglia. Così, le galee cominciano a dispiegarsi in una lunga linea frontale, con distanze fra le navi di 150 metri, secondo i dettami della tattica nautica dell'epoca.

La parte principale della flotta della Lega si schiera con 170 navi, in un dispositivo lineare di fronte articolato a croce, così strutturato:

Ala sx : 53 galee di Venezia agli ordini dell’ammiraglio Agostino Barbarigo coadiuvato dal suo vice, ammiraglio Querini, e dall’ammiraglio Antonio Da Canal, si appoggiano verso la costa etolica;

Centro : 64 galee della Spagna, Venezia ed alleati, agli ordini di Don Juan d’Austria, a bordo della “Real”, con una grande stendardo con la croce, con Vice Comandanti Sebastiano Venier per Venezia e Marcantonio Colonna per gli alleati;

Ala dx : 53 galee di Genova ed alleati agli ordini di Giannadrea Doria, si appoggiano verso le Curzolari;

Avanguardia : 2 galeazze per ogni blocco dello schieramento principale (totale 6). Quelle davanti al centro sono comandate da Francesco Duodo e quelle davanti all’ala sinistra sono comandate da Antonio ed Ambrogio Bragadin, parenti del capitano trucidato a Famagosta e quelli dell’ala destra sono al comando dei capitani Andrea Pesaro e Pietro Pisani ;

Retroguardia o riserva : 29 galee agli ordini del marchese spagnolo di Santa Cruz.

I Turchi, a loro volta, con 215 galee, con il vento inizialmente a favore accompagnato da un rumore assordante di timpani, tamburi, flauti, iniziano l'avvicinamento. assumendo un dispositivo lineare tendente al semicerchio o mezzaluna, nell’evidente intento, in virtù della loro superiorità numerica, di operare un aggiramento sui fianchi dello schieramento cristiano. Lo schieramento si articola in:

Ala dx (contrapposta alle galee di Venezia) : 56 galee agli ordini dell’ammiraglio Mehemet Sciaurak Pashà detto anche Maometto Scirocco, Governatore di Alessandria e Viceré d’Egitto;

Centro : 96 galee agli ordini del Comandante in Capo, Mehemet Alì Sadi Pashà, a bordo della “Sultana”, sulla quale garrisce un vessillo verde, su cui era stato scritto 28.900 volte a caratteri d'oro il nome di Allah ed uno stendardo bianco venuto dalla Mecca, sui cui lati sempre in caratteri d'oro era scritto: «Ai fedeli divino auspicio e ornamen­to; nelle degne imprese Dio protegge Maometto». Il suo Vice é Perteu Pashà;

Ala sx (contrapposta ai genovesi ed alleati) : 63 galee agli ordini del Dey di Algeri, Ulug Alì dettto Occialli;

Riserva : 6 galee, 15 galeotte e numerose navi minori agli ordini di Amurat Dragut.

L’esame del dispositivo di attacco delle due flotte evidenzia per i Turchi una equivalenza nell’ala destra, una marcata superiorità numerica al centro ed all’ala sinistra.

Naviglio

La nave da combattimento principale delle due flotte era rappresentata dalla galea classica (Spagna e Turchia), da quella “sottile” (Venezia) o dalla galea detta “Bastarda” (un tipo leggermente più lungo della sottile, con 30 remi per fianco, che veniva costruito per la nave capitana della flotta).

Galea Cristiana.

Scafo sottile e leggero lungo da 40 a 50 metri e largo 5, che privilegiava la velocità, a scapito della manovrabilità. La sua propulsione era di tipo misto a due alberi ( alti fino a 35 m.) con vela latina (triangolare, con più di 300 metri quadrati di velatura) o a remi a “sensile” (uno più remi ad altezza diversa – 20/25 per fianco con una lunghezza di 10 metri - con un solo vogatore per remo, con scalmi sfalsati se più di uno) o a “scaloccio” (un solo remo più lungo e più rigido manovrato da 3 - 5 vogatori posti a scala). Sulla prua dispone di uno sperone fuori del pelo dell’acqua per spezzare i remi avversari e per speronare il battello nemico. La galea “sottile” veneziana era lunga sui 45 metri e disponeva di un solo albero con vela latina. La galea senza un ponte coperto, disponeva di un castello di prua ed a volte di poppa, dove trovavano posto le artiglierie e presentava sui fianchi un rembate, o castello ringhiera laterale, a telaio rettangolare, appoggiato sullo scafo, sporgente dal bor­do, sul quale trovavano posto gli archibugieri e gli uomini d’arme. Il castello di prua era di norma protetto con un telone ed ospitava il cannone corsiero con palle da 40 kg ed oltre, affiancato in genere da due altri pezzi più piccoli. Le galee a due alberi possedevano anche un piccolo castello di poppa per ospitare altre artiglierie. Infine le murate laterali del rembate erano predisposte per ricevere le forcelle per l’uso di bombardelle. Le galee veneziane, a differenza delle altre portavano sul castello di prua, ben 5 cannoni, il corsiero con palle da 20 kg e 4 più piccoli affiancati. In definitiva la galea sottile di Lepanto poteva ospitare 80 - 100 soldati, 150 rematori, 15 sorveglianti, più 70 uomini di equipaggio. Armamento, quindi, specifica­mente da attacco frontale, essen­do, tra l'altro, i pezzi fissi. D'al­tra parte, il vero combattimento tra galee avveniva per arrembag­gio e non prevedeva il duello d'artiglierie a distanza.

Galea Turca.

Lunga circa 50 metri, assomigliava alle galee a due alberi del campo cristiano con un rembate per gli armigeri e gli arcieri e tre cannoni sul ponte di prua (a prora). La differenza saliente del tipo ottomano risiede nel fatto che il ponte di prua è più alto delle galee cristiane e tale struttura conferisce alle artiglierie imbarcate una maggiore gittata, anche se a corta distanza tale vantaggio diviene un serio handicap perché i tiri dei pezzi tendono a sorvolare il vascello avversario.

Galeazza veneziana.

Vera e propria fortezza galleggiante, inventata dal senatore Giovanni Badoer, nella prima metà del 16° secolo, rappresenta la novità navale dello scontro e la sorpresa tattica più importante della battaglia. Nave di alto bordo a tre alberi e ponte di coperta, risulta una via di mezzo fra il vascello e la galea, di cui è 1,5 volte più grande. Lunga 70 - 80 metri con 25 remi a scaloccio per fianco, azionati da 7 uomini per remo (totale di 350 rematori), poteva imbarcare circa 400 uomini d’arme, ai quali andavano aggiunti gli uomini di equipaggio e gli ufficiali, per un totale complessivo di oltre 1.000 uomini.

La galeazza, disponendo di un ponte coperto, poteva imbarcare una incredibile potenza di fuoco pari a circa 40 cannoni + bombardelle che potevano essere distribuiti sui castelli di poppa e di prua e soprattutto sui fianchi. In particolare sui fianchi si potevano schierare cannoni di discreta potenza (palle fino ai 15 kg) e di norma un cannone petriero (perero; palle fino a 25 kg.) su ogni fianco al centro della nave, i cui effetti erano evidentemente devastanti sul naviglio avversario. In sostanza si trattava di una corazzata “ante litteram”, dotata di una discreta velocità ma anche di una scarsa manovrabilità Per poter essere impiegate nella battaglia di Lepanto,le galeazze dovettero essere rimorchiate fino alla posizione iniziale del combattimento. Anche la galeazza disponeva sulle murate di uno svariato numero di Bombardelle a braga per spazzare la tolda ed il ponte delle navi avversarie.

Galeotte o Galeotte, Fuste.

Galee più piccole, ad 1 albero, con 15 remi per parte, più leggere, ma decisamente più manovriere, dotate in genere di un solo cannone, prive anche del rembate.

Artiglierie

Per quanto riguarda le artiglierie, a parte la schiacciante superiorità numerica cristiana, il progresso tecnico fra i contendenti era praticamente equivalente.

I pezzi erano per la maggior parte realizzati con fusione in bronzo, anche se esistevano ancora cannoni fucinati di ferro a doghe, rinforzati da cerchioni. Va comunque ricordato che il primo processo di fusione del ferro ghisa avviene intorno al 1550 nel Sussex in Inghilterra e pertanto non è ancora di uso comune. Non esiste ancora una vera e propria artiglieria navale ed in genere i pezzi imbarcati provengono da fortezze o dai parchi campali (Questo in particolare è il caso di Napoli e dello Stato Pontificio che traggono alcune artiglierie dal parco delle fortezze per armare le loro galee. Lo stato pontificio in particolare provvede anche alla fusione di alcune artiglierie (4 Falconetti e due colubrine) attraverso la Fonderia Camerale, con la spesa di ben 7387 ducati ed il recupero, per la bisogna, di diversi cantari (15,1 Kg., poco più di 5 libbre) di materiale vecchio o fuori uso. Poiché il bronzo, per il suo tenore di rame, era molto caro, i pezzi faceva parte del demanio pubblico e veniva punzonati con il loro peso (cantari e rotoli) e quindi con il loro valore commerciale e contabile.

La bocca da fuoco, di norma ad avancarica, aveva già inglobato gli orecchioni per consentire un più agevole brandeggio in elevazione ed un foro focone nella culatta in corrispondenza della camera a polvere, consentiva la messa a fuoco (inchiodare un pezzo).

Nelle classificazioni del tempo, ripartite di norma per forma o per impiego, anche assai fantasiose, prevaleva la logica del peso della palla lanciata o del calibro. Ma per dare un’idea del “mare magnum” di confusione che regnava a quel tempo, vale la pena riportare a titolo puramente informativo tre classificazioni dei pezzi: una italiana del periodo precedente a Lepanto, una francese quasi coeva ed un’altra italiana più tarda.

Quella italiana di Francesco di Giorgio Martini del 1480 è la seguente:

BOMBARDE                    lunghe 6 - 7 m.  palle di pietra da 40 kg.

BOMBARDE MEZZANE                     4 m.     palle di pietra da 20 kg.

BOMBARDE CORTANE O CORTALDE > 4 m.         “        “       > 34 Kg.

PASSAVOLANTE                  da 6 metri ;  palla metallica da 5 Kg.

BASILISCO                         da 7 metri ;  palla metallica da 1 Kg.

BOMBARDELLA *            da 2 - 3 metri ;  palla di pietra da 4 a 6 Kg.

SPINGARDA *                  2,7 metri      ;  palla di pietra da 3 - 5 Kg.

ARCHIBUGI                 da 1,01 a 1,3 metri ; palla di Pb da 150 gr. (cal. 0,03)

SCOPPIETTI **            da 0,6 a 1,01 metri ; palla di Pb da  20 gr.

*: anello di giunzione fra le artiglierie e le armi portatili

** Bombardas minores quas cerbottanas vocant ac spingardas et schioppettos

Quella francese del La Fontaine del 1580 e quella del Sardi del 1624 si assomigliano e ripartiscono le artiglierie in tre categorie:

TIPO

LA FONTAINE 1580

Dati

SARDI 1624

       
 

COLUBRINA

Palla > 15 lb.

MEZZA COLUBRINA

 

SAGRO o ASPIDO

  12 lb.

FALCONE o 1/2 SAGRO

 

BOMBARDELLA

   9 lb.

FALCONETTO

COLUBRINE

FALCONE

   6 lb.

SMERIGLIO

+ lunghe

FALCONETTO

   3 lb.

MOSCHETTONE

> portata

MOSCHETTO

   1 lb.

MOSCHETTO

     

ARCHIBUSO

       
 

CANNONE

50 - 60 lb.

CANNONE BASTARDO

CANNONI da

CANNONE DOPPIO

100 - 120 lb.

CANNONE DOPPIO

Btr, assedio

MEZZO CANNONE

25 - 30 lb.

MEZZO CANNONE

- lunghi e

QUARTO

   15 lb.

QUARTO

- spessore

   

BASILISCO

       

PETRIERI e

PETRIERE

23 lb.

PETRIERE

MORTAI

MORTAIO

25 lb.

MORTAIO

Qualche studioso più recente quale il Promis, del 1800, riporta una serie di nomi di artiglierie ed altre classificazioni che vale la pena ricordare per semplice curiosità: GIRIFALCHI, SALTAMARTINI, BRONZINE, SERPENTINE.

Per Venezia che aveva una sua Scuola di Bombardieri da terra e da mar esisteva una sua classificazione basata sul peso della palla

COLLOMBRINA o CANONE                    > 15 lb.  (2,962 Kg.)

SACRI o ASPEDI (+ corto del sagro)          8 lb.

BOMBARDELLE                                        9 lb.

PERERE (Pietrere)

FALCONI                                                 4 lb.

FALCONETTI                                            2 lb.

ZIRIFALCHI                                             2 lb.

MOSCHETTI de BREGATA

In definitiva le artiglierie navali del tempo erano sostanzialmente rappresentate dalla Colubrine, dai Cannoni “corsieri”, Petrieri e dalle Bombardelle.

Il cannone “corsiero” (di corsia) era di norma l’armamento principale con palle che potevano arrivare a pesare fino a 80 kg. (> 23 lb.) posto appunto in corsia a prua. Il corsiero è normalmente affiancato da colubrine o falconetti. Secondo il Sardi i “Corsieri” erano posti su un letto (affusto) di tre tipi: senza ruote; con un asse  e coda; con due assi e cordame di ritegno.

Nel primo caso il rinculo avviene in corsia su un affusto senza ruote, con l’orecchione del pezzo fissato al “letto” (affusto) con bandone di ferro;

Il secondo caso è quello delle colubrine da 25 lb.  Affusto con un solo asse a ruote e coda, con ruote di legno cerchiate rinforzate di ferro. Artiglierie per galeoni e galeazze o sulle prua delle galee “bastarde”;

Il terzo caso è quello di artiglierie fino a 10 – 20 lb. con affusto a ruote a due assi, da impiegare su vascelli di alto bordo.

Ma la vera novità è la Bombardella a Braga, a retrocarica, incavalcata su delle forcelle poste sulle murate del castello o del rembate della galea o della galeazza. (poteva però essere da barca o da merli, ecc.) Si compone di due parti principali: di un cannone vero e proprio ed una  tromba a braga dotata di una coda lunga per il suo maneggio. La braga si rende solidale al cannone e può lanciare palle di pietra o pezzi di ferro o scatole di rotami o catenelle per spazzare la tolda della nave nemica. A questi elementi si aggiungono una serie di mascoli o mortaletti (di norma tre) - una specie di camera a polvere - che vengono inseriti sulla culatta del cannone e bloccati da un cuneo (cugno) di bloccaggio che serve a rendere solidale il sistema una volta caricato. La coda serve per il brandeggio e per facilitare il caricamento del pezzo. (vedi figura del Sardi). Il sistema  consentiva un caricamento a retrocarica abbastanza agevole ed una certa celerità di tiro.

Tecnica di combattimento navale: sequenza delle azioni

Avvicinamento a vela fino a poco prima del contatto balistico. Il Problema basilare era quello di mantenere lo schieramento compatto in modo di produrre sulla fronte il massimo volume di fuoco possibile. La cosa era peraltro resa difficile per l’interferenza del vento e soprattutto dalla diversa velocità e capacità di manovra dei differenti tipi di nave in linea.

Tendere sempre all’aggiramento dello schieramento nemico per cadere sulla parte più vulnerabile del naviglio nemico. La riserva ha in genere il compito di opporsi ad azioni di tale genere o ad imprevisti.

Scontro di artiglierie, lancio di palle o bombe incendiarie.

Nella battaglia di Lepanto l’azione preliminare della galeazze ha la funzione di infliggere danni e primariamente di scompaginare lo schieramento nemico con il fuoco di prora ma soprattutto con la devastante potenza di fuoco dei fianchi. La galeazze saranno uno degli elementi decisivi per il successo della giornata.

Imbroglio delle vele ed in qualche caso ripiegamento degli alberi.

Chiusura della distanza relativa fra gli schieramenti, con manovra a remi, per speronare ed immobilizzare la nave avversaria.

Il combattimento si frammenta in una miriade di combattimenti locali. Le murate laterali vengono arpionate in modo da accostare stabilmente la nave per l’arrembaggio.

Fuoco delle bombardelle e degli archibugieri che spazzano il ponte ed il castello nemico, accompagnato a breve distanza dal lancio di pignatte incendiarie, calce viva in polvere, granate a mano e completato dall’azione delle balestre o degli arcieri per i Turchi.

Arrembaggio e combattimento a corpo a corpo con pistole ed armi bianche (spade, picche, alabarde, lance, mazze ferrate) fino alla conquista della nave nemica, che viene occupata o rimorchiata. Il ponte ed il rembate vengono, per motivi di difesa, abbondantemente cosparsi di grasso per rendere più difficoltoso l’assalto nemico.

In definitiva tutto meno che la tradizionale oleografia delle bordate di artiglieria dei film sulle battaglie navali dei secoli successivi. La chiave dello scontro, piuttosto che nel duello di artiglierie, risiede nell’incendiare la nave avversaria, nell’affondarla con lo sperone o nel conquistarla con l’arrembaggio.

La battaglia

L'ala sinistra della Le­ga, al comando del veneziano A­gostino Barbarigo, poggia verso la vicina costa etolica in mo­do da chiudere il mare alle ga­lee nemiche che volessero compiere un tentativo di aggiramen­to da quella parte; l'ala destra, al comando del genovese Giannandrea Doria, si allunga verso sud per lasciare modo al cen­tro di disporsi anch'esso su una linea.

La manovra, un po' perché seguita con vento contrario, un po' per il nervosismo dei capi­tani di galea troppo desiderosi di raggiungere rapidamente il pro­prio posto, si effettua nel più assoluto silenzio  ma con alcuni sbandamenti, tanto che Don Gio­vanni si lascia andare a qualche «santa imprecazione», come ri­ferisce un cronista.

Intanto, anche i turchi proce­devano a formare il loro schie­ramento.

La grande giornata di Lepanto è iniziata.

Mentre la squadra della Lega si sta assestando, Don Giovanni sembra colto da un dubbio; sale su un'imbarcazione veloce, si fa portare sotto la galea di Seba­stiano Venier e chiede al vecchio ammiraglio: «Che si combat­ta?». Venier risponde: «È ne­cessità et non si può far di man­co». Don Giovanni, allora, in armatura e con un Crocifisso in mano passa in rassegna l'armata, ritto a prua dell'imbarcazione, esortandola al combattimento e promettendo la libertà ai rema­tori condannati al remo per de­litti civili se faranno bene il lo­ro dovere. Poi, torna alla galea Reale, mentre Francesco Duodo, capitano delle sei galeazze, fa ri­morchiare le proprie navi al po­sto loro assegnato, e cioè davan­ti alle tre squadre, due per cia­scuna squadra.

Quando le flotte giungono a tiro di cannone é or­mai mezzogiorno ed i Cristiani ammainano come previsto tutte le loro bandiere mentre Giovanni d’Austria innalza lo stendardo con l'immagine del Redentore crocifisso. Una croce venne levata su ogni galea e i combattenti ricevettero l'assoluzione secondo l'indulgenza concessa da Pio V per la crociata. si approntano le armi per i soldati e i marinai, si distribuiscono co­razzette ed elmi anche ai voga­tori e si pongono a portata del­le loro mani spade, spadoni, maz­ze ferrate, accette, picche, ala­barde: quelle braccia rese d'ac­ciaio dall'esercizio del remo sa­pranno far buon uso di tali ar­mi nel momento cruciale della lotta, quando si arriverà al cor­po a corpo.

Il sole è ormai alto, quando Don Giovanni fa innalzare sulla Reale lo stendardo della Lega su cui, in campo cremisi, spicca ri­camato il Cristo in croce. Pro­prio in quei minuti che precedono il combattimento il vento, che fino ad allora aveva spirato in favore degli ottomani, cade, e sul mare si stende una calma per­fetta. Il vento improvvisamente cambia direzione. Le vele dei Turchi si afflosciano e quelle dei cristiani si gonfiano. Il nemico è privato di un elemento a proprio favore.

Inginocchiati sul ponte, sol­dati, marinai e ufficiali, da Don Giovanni d'Austria al più umile mozzo, recitano una preghiera e sono benedetti dal frate cappuc­cino che è su ogni galea. E’ or­mai mezzogiorno e le flotte so­no quasi a tiro di cannone. Don Giovanni ordina ai pifferi di suo­nare e sul ponte di prua balla insieme a due gentiluomini del suo seguito la «gagliarda», dan­za di corte e di guerra.

Alì Pascià, intanto, ha fatto ammainare le vele alle galee del suo schieramento e, dato ordine di non sopravanzare la sua am­miraglia, fa vogare di lena con­tro i cristiani. Sibilano le fru­ste degli aguzzini sulle schiene dei galeotti. E ognuno, madido di sudore, attende con terrore il momento in cui cominceranno a tuonare le artiglierie, e quello, fatale, del cozzo contro la nave avversaria.

A un tratto, tuona il cannone di prua della ammiraglia otto­mana. Ai due lati dello schiera­mento turco rispondono i can­noni delle galee capitane di Sci­rocco e di Ulug Alì. È il segna­le dell'assalto. Dalla Reale cri­stiana si spara un colpo col pez­zo di prua verso la capitana di Ali Pascià. Ala destra e centro turchi sono perfettamente a fron­te, con forze pressoché pari, al­l'ala sinistra e al centro cristiani.

Sulla sinistra ottomana, invece, Ulug Alì sta ancora manovran­do al largo, e come lui mano­vra, per sorvegliarlo, la squadra di Giannandrea Doria. Questi, infatti, attende le mosse del ne­mico prima di affrontarlo poi­ché ha un numero eccessivamen­te inferiore di galee da opporgli

La voga dei turchi al centro e all'ala destra si fa frenetica. Le grida si moltiplicano. Le ga­lee della Lega attendono immo­bili. Ma prima di giungere sulla flotta cristiana occorre superare le galeazze in posizione avanza­ta rispetto alla linea di batta­glia. E le galeazze non manca­no al loro compito che è quello di scompaginare lo schieramen­to turco. Appena il nemico è a tiro, i cannoni di prua sparano una prima scarica. Vi è un at­timo di esitazione da parte otto­mana. Ma Alì Pascià ordina al­la sua ammiraglia di procedere. Ecco, le galeazze sono vicinissi­me. Si spara contro di loro con gli archibugi e con l'artiglieria pesante. Nembi di frecce sono lanciate dagli abilissimi arcieri turchi contro quegli strani castelli marini. Le galee turche stanno ormai defilando tra i var­chi tra galeazza e galeazza quan­do tuonano le petriere dalla fian­cata e decine di proiettili cado­no sui ponti turchi, infrangono tolde, squarciano, affondano. La scarica del tutto inaspettata (le galee, ricordiamo, non avevano artiglierie laterali) scompagina lo schieramento. Alcuni vascelli tur­chi si inabissano, trascinando con sé i miseri rematori incatenati al remo, e riempiendo lo specchio d'acqua circostante di naufraghi fatti subito segno a tiri di ar­chibugio.

Nel corso della battaglia di Lepanto i Turchi cercano di effettuare due aggiramenti, uno a destra ed uno a sinistra. Inizialmente con Scirocco sull’ala sinistra cristiana, parzialmente riuscito, poi con Ulug Alì sull’ala destra della Lega verso le isole Curzolari, sventato dal Doria.

Combattimento del centro dello schieramento

 

Le galee turche, però, sia pure in disordine continuano ad avan­zare e, finalmente, le galeazze sono superate. Subita un'ultima scarica dei pezzi di poppa del nemico, le forze ottomane si di­rigono a gruppi contro l'ancora ordinatissimo schieramento cri­stiano. Ali Pascià ha individua­to nel centro la Reale di Don Giovanni d'Austria ai cui fian­chi sono le altre due capitane la pontificia di Marco Antonio Colonna e la galea bastarda veneziana di Sebastiano Venier. Deciso ad attac­care l'ammiraglia cristiana, Ali Pascià incarica la vicina galea di Perteu Pascià di lanciarsi su quella del Colonna.

Don Giovanni, intanto, osser­va le mosse del nemico. Fin da quando è stata presa la decisio­ne di combattere, ha fatto toglie­re lo sperone della sua galea per facilitare l'arrembaggio. Dal pon­te di poppa egli vede sotto di sé i suoi uomini ben schierati e pronti alla grande prova. A prua i cannonieri attendono l'ordine della scarica a distanza ravvici­nata. Lungo i fianchi, a prora e a poppa si affollano i quattro­cento archibugieri del « Tercio » di Sardegna: italiani che combat­tono sotto bandiera spagnola. Gli occhi al nemico, essi soffiano sul­le micce degli archibugi perché la bragia sia ben viva quando arriverà 'il comando di fuoco. Arrampicati sulle sartie e aggrap­pati agli alberi, marinai e altri soldati sono pronti a gettare sul­la nave avversaria pignatte in­cendiarie, calce viva in polvere, granate a mano. Tra i banchi di voga molti sono i galeotti cri­stiani condannati al remo che sono stati liberati dalle catene perché possano riguadagnarsi la libertà combattendo. Infine qua e là per tutta la nave vi sono ceste di viveri e barili d'acqua e di vino « per ristorar et invigo­rir le forze del corpo».

Ormai le galee cristiane del centro e dell'ala sinistra hanno stabilito i contatti col nemico e fra grida, fragore d'armi, sibili di frecce si combatte in più pun­ti accanitamente. Don Giovanni d'Austria individuata l'ammiraglia ottomana punta diritto contro la Sultana.

A distanza ravvicinata, le arti­glierie turche e cristiane spara­no quasi contemporaneamente. Poi il cozzo e, mentre i marinai e i mozzi lanciano i grappini d'arrembaggio per tener unite le due navi, si ha il primo assalto della milizia scelta di Ali Pa­scià: quattrocento giannizzeri che si riversano sulla prora della Reale di Spagna.

Ma l'assalto è contenuto dal «Tercio» dei sardi che, scarica­ti gli archibugi, danno di piglio alla spada e alle picche affron­tando il nemico in corpo a cor­po furibondi.

Marco Antonio Colonna, in­tanto, intuendo che la galea di Perteu Pascià tenta di tagliargli la strada per impedirgli di por­gere aiuto alla sua capitana, fa affrettare la vogata e riesce a investire sul fianco destro, verso prua, la Reale ottomana. Subi­to, però, la sua galea è a sua volta arrembata da quella di Perteu, che le piomba addosso nel centro sfondando parte del­la rembata. Costretto a difender­si da Perteu, Colonna non può quindi inviare uomini in aiuto a Don Giovanni.

Sebastiano Venier, allora, che è sulla destra della Reale di Spa­gna dirige verso di quella. Ma ecco che si attua lo stratagemma di Alì Pascià. Da un gruppo di galee ottomane davanti alle qua­li la capitana veneta sta passan­do a tutta voga, si stacca una piccola galeotta disarmata che velocissima si pone sulla rotta della galea cristiana e si incu­nea di striscio sotto i banchi dei rematori impedendo la vogata ai remi. La galea di Venier, sia pure momentaneamente, è im­mobilizzata.

Frattanto, sulla Reale di Don Giovanni il “ Tercio » di Sarde­gna al comando di Lopez de Fi­gueroa è riuscito a contenere l'as­salto dei giannizzeri e passa al contrattacco. Il reggimento da l'arrembaggio alla nave turca che diviene il campo di battaglia e il nemico è spinto fino all'albero maestro. Ma Alì riceve continui rinforzi da galee e galeotte. Si rinnova quindi l'assalto turco e il «Ter­cio» è respinto sulla Reale di Spagna. Attacchi e contrattacchi si succedono, mentre Don Gio­vanni comincia a ricevere aiuti da altre galee cristiane Gli arcieri turchi, abilissimi nell'uso  del loro corto arco a doppia curva­, lanciano frecce su frecce. Dalla Reale si risponde a colpi di archibugio e, quando è possibile usare i pezzi, con la mitraglia delle bombardelle (i cannoni erano caricati con pezzi di piombo, rottami di ferro, catene) che apre vuoti paurosi tra le file avversarie.

Intanto Venier è riuscito a liberarsi della galeotta, e investe la Reale ottomana all'altezza dell'albero maestro. Ora l'ammiraglia veneziana potrebbe lanciare un attacco decisivo contro il vascello del comandante turco, ma non può perché è a sua volta attaccata da altre galee e poi da quella di Pertew Pascià, che si è distaccata da quella del Colonna proprio con l'intento di ­bloccare la capitana veneta. Sebastiano Venier, da esperto uomo d'arme, divide i compiti sulla sua galea: mentre parte degli uomini si oppone all'attacco turco, un nutrito numero di archibugieri comincia a battere con un  tiro fitto e preciso il ponte della Reale ottomana impeden­do l'afflusso di nuovi combatten­ti verso la prua congiunta alla galea di Don Giovanni.

Con accanto il giovane nipote Lorenzo Venier, Sebastiano per­corre in «corazza all'antica e in pianelle» (calzature leggere) la corsia centrale della galea rin­cuorando i combattenti, incitan­doli, dirigendo l'azione dove più si rende necessario. E, poiché la tarda età gli impedisce di usare la spada, non di meno partecipa anch'egli direttamente al combattimento lanciando palle di ferro con una balestra pallotto­liera che un servente gli ricari­ca prestamente dopo ogni tiro. Neppure quando riceve una fe­rita a una gamba, Sebastiano Ve­nier si ritira.

Ma ormai la Reale turca è ormai stret­ta in una morsa. Battuta dai tiri di archibugio e d'artiglieria de­gli uomini di Sebastiano Venier, assalita anche dagli uomini del Colonna liberatisi dai nemici che li avevano arrembati, ha or­mai la sorte segnata. Al terzo assalto I soldati sardi giungono fino al castello di poppa dove, dietro a una bar­ricata di materassi, i giannizzeri fanno una disperata resistenza. Cade lo stendardo turco, ma gli ottomani non cessano dal com­battere. Filippo Venier, allora, dalla capitana veneta, fa spara­re un colpo di petriera caricata con pezzi di ferro e catene: la micidiale mitraglia spazza letteralmente via la barricata e gli uomini che vi sono dietro. Un ultimo assalto dei cristiani pone fine alla lotta: lo stesso Alì Pa­scià è ucciso, si dice, da due col­pi di archibugio. La sua testa ta­gliata è issata su una picca, fe­roce segno di vittoria esposto al­la vista di turchi e cristiani.

Poco prima, anche la galea di Perteu Pascià era stata conqui­stata, ma il capitano turco era riuscito a salvarsi su una bar­chetta insieme a un rinnegato bo­lognese che passando tra le navi della Lega gridava in italiano: «Non tirate che anco noi siamo cristiani) ».

Alle due del pomeriggio Giovanni può riprendere il controllo della flotta.

   Lo sconto dell’ala sinistra cristiana

Mentre al centro la battaglia è accanita intorno alle due ammiraglie, anche all'ala sinistra, comandata da Agostino Barbarigo, la lotta divampa. Il turco Scirocco ha anzi tentato da quel­la parte di aggirare l'ala cristia­na formata in massima parte da galee veneziane. Spintosi verso riva, egli è riuscito a trovare un passaggio tra i bassifondi del fiu­me Acheloo, e vi è penetrato  con le sue galee per cogliere di  fianco i cristiani. Il Barbarigo riesce però a evitare l'aggiramento intervenendo prontamente. Ma la lotta è impari. Otto sono le galee abbarbicate a quella del  Barbarigo.  Sette assalgono, inve­ce, quella di Marino Contarini,  nipote del Barbarigo, che primo è giunto nel, punto in cui le for­ze ottomane stanno uscendo dal passaggio tra le secche. E in at­tesa di soccorsi è giocoforza  difendersi ferocemente. Sui due vascelli, soldati, ma­rinai e rematori compiono prodigi di coraggio. La galea di Vin­cenzo Querini giunge in soccorso del Contarini. Le sorti della battaglia in quel punto si fanno meno pericolose, anche se tra i  caduti vi sono i due capitani delle galee venete. Per due ore la lotta procede feroce; poi i turchi decidono di separare le due galee per poterle meglio assali­re. A questo punto accade l'im­previsto. Gli schiavi cristiani in­catenati al remo sui vascelli tur­chi riescono a liberarsi. Centinaia di uomini attaccano alle spalle gli ottomani chi con ar­mi tolte ai caduti, chi roteando catene, chi addirittura a mani nude. Saranno loro a decidere le sorti dello scontro in questo set­tore.

In breve, cinque galee turche sono in mano dei cristiani. I ga­leotti passano a fil di spada ogni turco caduto nelle loro mani. Poi si mettono al remo perché si possa correre in aiuto al Barba­rigo, la cui galea, insieme ad altre sette ottomane, è pressata an­che da quella dello stesso Sci­rocco.

 Nel frattempo, Barbarigo ha avuto aiuto dal provveditore e si è aggiunto alla ca­pitana con la sua galea dopo aver semidistrutto un vascello nemico. Canale si batte in pri­ma linea con i suoi uomini. Per meglio usare la spada, ha lascia­to l'armatura e indossato una ve­ste imbottita e calzato scarpe di corda per non scivolare sui pon­ti nemici cosparsi di sego. La sua galea ha speronato quella di Scirocco aprendo nella sua fian­cata una falla. Quando il vascel­lo veneziano è a sua volta inve­stito da un nemico, l'urto fa sì che si scosti dalla galea di Sciroc­co, che comincia ad affondare. La partita per il capitano turco è ormai perduta, anche perché so­praggiungono altre galee vene­ziane in soccorso. Scirocco si lancia in acqua e nuota verso la riva. Per sua sfortuna è scorto dagli schiavi liberati che affol­lano una galea cristiana soprav­veniente e, pescato letteralmen­te dall'acqua, viene subito de­capitato. 

Quasi nello stesso tempo, Ago­stino Barbarigo riceve una frec­ciata in un occhio, e deve essere ricoverato al coperto. Vivrà an­cora due giorni soltanto. Sulla sua galea il comando è assunto da Federico Nani. E si continua a combattere..

   Avvenimenti sull’ala destra

All'ala destra Ulug Alì e Gian Andrea Doria manovrano per trovarsi in posizione di vantaggio. Sia il Doria che Ulug Alì, prima della battaglia, avevano tentato di dissuadere i loro comandanti dal dare battaglia. Nessuno dei due voleva mettere a rischio le proprie navi.

Giannandrea Doria portatosi troppo al largo per sorvegliare le mosse di Ulug­ Alì, finisce col lasciar aperto un pericoloso varco fra l’ala destra ed il centro dello schieramento cristiano. Giovanni d’Austria ordina immediatamente al Doria di ricompattare lo schieramento, ma Ulug Alì è estremamente veloce ad infilarsi nel varco con buona parte delle sue galee corsare e riesce ad arrembare una quindicina di ga­lee cristiane che si trovano sul­la sua rotta. Favorito ora dal vento in poppa, Ulug Alì, che verrà ferito sette volte nel corso della giornata, attacca alle spalle con sette galee la nave ammiraglia delle galee di Malta e in una lotta tanto rapida quanto feroce, la conqui­stano, catturando il vessillo dei Cavalieri di Malta e uccidendo quanti trovano a bordo. Solo tre soli uomini sopravvivono perché creduti morti. Tra questi il Giústiniani, benché trapassato da cinque frecce.

Nel corso degli sporadici combattimenti che avvengono nell’ala destra cristiana, Alessandro Farnese con i suoi 200 uomini conquista una galea turca. In una queste azioni episodiche Il comandante della Marquesa, ordina a Miguel Cervantes, comandante di 12 armigeri, di aggirare una galea turca con una scialuppa. Cervantes, nel corso dell’azione viene ferito due volte da colpi di archibugio, al petto e alla mano (che gli rimarrà storpiata) ed al ritorno in Spagna otterrà una pensione di due ducati per 7 mesi !.

Alla pericolosa iniziativa di Ulug Alì, che contava di dare man forte da tergo all’azione del centro turco, reagiscono prontamente Giannandrea Doria e soprattutto le navi in riserva agli ordini del Marchese di S. Cruz, il cui decisivo intervento riesce a ristabilire la situazione.

A questo punto Ulug Alì, accortosi della situazione critica del centro turco e soprattutto della contromanovra cristiana nei suoi riguardi, riesce a disimpegnarsi ed a guadagnare il mare aperto con una trentina di galee nascondendosi nelle isole dei dintorni. Nei giorni seguenti egli si impadronisce di una lenta galea veneziana, la Bua, dirigendosi poi verso Costantinopoli. In uno degli ultimo sconti su tale fronte il capitano Ojeda, al comando della galea Guzmana, raggiunge la Capitana di Malta, l'abborda e la riconquista, costringendo Ulug Alì ad abbandonare la preda.

È ormai il tramonto.  Il Centro della Lega ha il sopravvento sull’omologo turco ed al grido di vittoria del centro risponde quello dell'ala sinistra cristiana che, benché provatissima, è riuscita anch'essa ad aver ragione del nemico. La più grande battaglia di galee che la storia ricordi è finita ed i Turchi sono stati completamente sconfitti. I pochi superstiti si ritirano verso l'interno del golfo di Corinto.

La flotta vittoriosa invece, per sfuggire ad una imminente tempesta, si rifugia nel porto di Petala; il consiglio di guerra della Lega, constatato che non é possibile tentare altre imprese per la stagione inoltrata e per le condizioni delle navi, stabilisce, quindi, di far vela verso ponente e il 10 ottobre 1571 la flotta entra nel porto di Santa Maura, e quindi si porta a Messina. Qui viene fatta la divisione delle spoglie e a Venezia toccano ventisette galee ed altre navi minori, sessantadue cannoni tra grossi e piccoli e milleduecento schiavi.

Perdite

TURCHI

60 - 80   galee affondate

24          galeotte affondate

117        galee  catturate

13          galeotte  catturate

~ 35     mila morti e dispersi (Alì Pashà, Hassan Pashà, Mehemet Scirocco, il comandante dei giannizzeri, ed altri 10 pashà morti)

> 5         mila prigionieri e feriti

> 10       mila schiavi cristiani liberati.

CRISTIANI

15          galee affondate

1            galea catturata da Ulug Alì

~ 7.500  morti e dispersi, di cui ~ 2.300 veneziani (Barbarigo, Orsini, Carafa, Cardona, Cornaro, ecc. morti)

~ 7.700  feriti.

Conclusione

L'annuncio della sconfitta produsse grande esultanza nel mondo cristiano ed ovviamente grandissima costernazione a Costantinopoli. Si dice che il Sultano Selim rimanesse tre giorni senza prender cibo; però il Gran Visir Mehemet Sokolli non rimase scosso dalla disfatta e al Legato veneto Barbaro disse: «Lepanto ci ha solamente tagliata la barba; essa crescerà più folta di prima; Venezia con Cipro ha perso un braccio e questo non cresce più ». L’unico a gioire davvero della “grande vittoria cristiana” e a darsi diplomaticamente da fare affinché gli europei insieme assalissero Istanbul fu l’avversario storico del sultano, lo shah di Persia Tahmasp, musulmano come il suo nemico (ma sciita). La battaglia di Lepanto fu certamente una straordinaria vittoria tattica, ma non ci fu quello che normalmente avviene dopo una grande evento militare, l’immediato sfruttamento del successo. Da un punto di vista merceologico la stagione era ormai avanzata ed ogni operazione doveva essere rimandata alla primavera seguente. Ma la Lega Santa non aveva al suo interno forze residue e soprattutto motivazioni per rimanere unita. I due principali alleati della Lega, la Spagna e Venezia avevano due politiche ed interessi nettamente divergenti. Alla prima interessava il completo controllo del Mediterraneo occidentale, mentre per la seconda era vitale continuare a mantenere i possedimenti nel Mediterraneo orientale e le relative rotte. Di fatto morto papa Pio 5° la Lega Santa si scioglie come neve al sole ed i Veneziani che tanto avevano sperato da questa vittoria decidono di venire a pat­ti coi Turchi, così come farà anche Filippo 2°.

Questa vittoria mutilata per lungo tempo fu oggetto di discussioni ed anche di malevoli critiche, alimentate nel campo cristiano specialmente dalla Francia, ma in realtà Lepanto segna il tramonto dei sogni ottomani del controllo del Mediterraneo orientale e la perdita di quell’alone di invincibilità sui mari che aveva acquisito con oltre un secolo di vittorie. Certo rimane il rammarico di Venezia e dello stesso Don Juan per uno sfruttamento pieno di promesse non compiuto. Conviene chiudere la conclusione con le parole di Fernand Braudel, che nel suo capolavoro, “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo 2°” scrive: «Se, anziché badare soltanto a ciò che seguì Lepanto, si pensasse alla situazione precedente, la vittoria apparirebbe come la fine di una miseria, la fine di un reale complesso d’inferiorità della Cristianità. La fine di un’altrettanto reale supremazia turca. La vittoria cristiana sbarrò la strada a un avvenire che si annunciava molto oscuro. Se la flotta di don Giovanni fosse stata distrutta, chissà? Napoli, la Sicilia sarebbero forse state attaccate, gli Algerini avrebbero cercato di riaccendere l’incendio di Granata o di estenderlo a Valenza. Prima di fare dell’ironia su Lepanto, seguendo le orme di Voltaire, è forse ragionevole considerare il significato immediato della vittoria. Esso fu enorme».

Se non si ebbero altre conseguenze immediate, oltre al fatto che «l’incanto della potenza turca fu infranto» e  che era stata sfatata la fama che i turchi erano invincibili sul mare, ciò fu dovuto anche al fatto che gli inglesi, gli olandesi ed i francesi ripresero le loro manovre antispagnole. E Filippo 2° fu costretto, con il consueto realismo, a negare quegli uomini e quei mezzi che don Giovanni d’Austria reclamava a gran voce per portare l’attacco al cuore della mezzaluna.

 

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