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IACOPI DISCENDENZE E STORIA

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URSS, come implode un impero

URSS,
come implode un impero
Pubblicato sul n. 298, giugno 2022, della Rivista Informatica “Storia in Network” ( HYPERLINK "http://www.storiain.net/"www.storiain.net ) con il titolo “IMPLOSIONE DELL’IMPERO SOVIETICO”
L’Unione Sovietica rappresenta un esempio unico di un impero morto nel … proprio letto. Le aspirazioni nazionali e democratiche hanno senza dubbio giocato il loro ruolo. Ma in questo crollo geopolitico di prima grandezza, ci si dimentica spesso di un evento decisivo: la proclamazione del giugno 1990 da parte di Boris Eltsin, della sovranità della Russia.

L
a caduta dell’URSS alla fine del 1991 costituisce il risultato di un processo complesso e conseguenza di plurime cause. In quell’anno crollano simultaneamente un sistema socio-economico (il “Socialismo avanzato”, per riprendere una definizione utilizzata da Leonid Iliic Breznev (1906-1982)) ed uno Stato federale.
La lista delle cause che hanno portato alla “più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”, secondo l’espressione usata dall’attuale presidente russo Vladimir Vladimirovic Putin (1952 -) è decisamente lunga. Mikhail Sergeevic Gorbacev (1931- ), al potere dal 1985, cerca di trasformare l’URSS attraverso una riorganizzazione economica (perestroika) e maggiore trasparenza (glasnost). Ma il sistema economico sovietico non riesce ad uscire dalla crisi e l’autarchia lo isola dai circuiti mondiali. Dalla metà degli anni 1970, i tassi di crescita sono brutalmente scesi, la produttività del lavoro è crollata e la curva dei consumi risulta in diminuzione. A tutto questo viene ad aggiungersi una crisi demografica, caratterizzata specialmente da una diminuzione delle speranze di vita di 4 anni per gli uomini ed una diminuzione significativa della popolazione attiva. Per di più, l’economia sovietica non poteva più ricorrere, come nei decenni precedenti, allo spreco di manodopera, che aveva saputo nascondere, più o meno bene, gli errori nelle scelte economiche staliniane e quindi quelle di Nikita Sergeevic Krushev (1894-1971).
In aggiunta, in un contesto di competizione con l’altra “superpotenza”, gli Stati Uniti (e specialmente l’amministrazione Reagan, che, dal 1980 al 1988 mette l’URSS sotto pressione), il regime sovietico, impigliato nel pantano afghano dal 1979, accresce le sue spese militari, che, alla fine del 1980, rappresentavano fra il 15 ed il 18% del PIL.
L’URSS, viene altresì indebolita dalle fratture del “blocco comunista” dell’Europa dell’Est, con la crisi del regime comunista polacco (l’esplosione del movimento Solidarnosc nel 1980, l’instaurazione della legge marziale del 1981). Sul piano interno, l’URSS affronta una crisi ideologica e morale, caratterizzata da una “menzogna generalizzata” (secondo una diagnosi senza appello emessa da Andrej Sakharov, 1921-1989) e l’incapacità del sistema di indottrinamento, messo in opera dal regime sovietico, di arginare e porre sotto controllo le nuove tecnologie dell’informazione globalizzata. La libertà di parola favorisce l’espressione di numerose rivendicazioni, in particolare, di tipo nazionalista.
In questo contesto, è proprio la frattura dell’impero, questo risveglio dei nazionalismi e delle nazionalità che compongono la “grande e fraterna famiglia delle repubbliche socialiste sovietiche” quello che interessa maggiormente. Sotto questo punto di vista, il crollo dello Stato federale sovietico appare come il risultato di un doppio processo: un movimento centrifugo, che ha messo in subbuglio le periferie occidentali e meridionali dell’URSS (repubbliche baltiche e caucasiche, le maggiormente restie alla sovietizzazione-russificazione), accoppiato con una implosione del centro russo, dovuta, per la gran parte, alla strategia politica di un uomo, Boris Nikolaevich Eltsin (1931-2007). Quest’ultimo, nel suo confronto-scontro con Mikhail Gorbacev, non ha esitato a giocare la carta del nazionalismo russo, proclamando, nel giugno 1990, la “sovranità” della Russia e svuotando, in tal modo, l’Unione del suo contenuto e scatenando, nel contempo, una reazione a catena, in quanto ogni repubblica si è vista incoraggiata a proclamare la propria sovranità, se non la propria indipendenza.
“Il problema nazionale è stato pienamente ed interamente deciso nell’URSS. … … non rimane che qualche punto minore di frizione” aveva dichiarato sconsideratamente Mikhail Gorbacev, agli inizi del 1987. Lungo il corso degli anni seguenti, il segretario generale del Partito Comunista Sovietico (PCUS), continuando a negare l’evidenza, a differenza di Boris Eltsin, rifiuta di prendere sul serio la crescita dei nazionalismi e si adopera a tentare di flemmatizzare la corsa del nazionalismo russo, certo e convinto di poter contare sulla solidità dell’idea federale, che cercherà di difendere fino in fondo.

Gli stati baltici all’avanguardia
Le Repubbliche baltiche (che rappresentano appena l’1% del territorio ed il 3% della popolazione sovietica), dopo una prima indipendenza ottenuta nel 1918, e incorporate, loro malgrado, all’URSS, a seguito del patto germano sovietico dell’agosto 1939, rivestiranno il ruolo di pioniere nel processo di disintegrazione dell’URSS. Con il loro livello di vita, il più elevato del paese, la loro maggiore apertura sul mondo esterno, la loro più antica urbanizzazione, l’elevato livello d’educazione dei loro abitanti, le repubbliche baltiche vedono fiorire, a partire dal 1986-87, numerosi “gruppi informali” che, nel corso degli anni precedenti, si erano mobilitati per cause ecologiche o per la difesa della lingua nazionale. Rapidamente, questi gruppi si riuniscono in “Fronti nazionali”, veri e propri embrioni di partiti politici, la cui prima azione di grido è stata quella di organizzare importanti manifestazioni, in occasione della data anniversario della firma del patto germano sovietico del 1939 (23 agosto).
Il 50° anniversario del Patto, il 23 agosto 1989, ha dato luogo ad una impressionate “catena umana” di 2 milioni di persone, che si sono tenute la mano dalla Lituania all’Estonia. Qualche mese prima, nel marzo 1989, i “Fronti popolari” delle repubbliche baltiche avevano riportato una netta vittoria nelle prime elezioni libere per il Congresso dei Deputati del Popolo dell’URSS, nuova assemblea costituente, inaugurata da Mikhail Gorbacev per votare le riforme costituzionali, politiche, economiche e sociali ed eleggere un “presidente dell’URSS”, dotato di ampi poteri.
Dei tre paesi baltici, è la Lituania che fornisce il ritmo al movimento di emancipazione nei confronti di Mosca. La Lituania è molto più omogenea etnicamente e linguisticamente (i Russi rappresentano appena il 10% della popolazione) rispetto alla Lettonia ed all’Estonia (che vedono al loro interno, rispettivamente, una presenza russofona del 45% e del 35%). Sotto l’egida del Sajudis (Movimento di Rinascita della Lettonia), presieduto dall’universitario, musicologo Vytautas Landsbergis (1932 -), il paese proclama, alla fine della primavera del 1989, la sovranità della Lituania e l’abolizione dell’articolo 6 della Costituzione dell’URSS sul “ruolo dirigente” del Partito comunista. Nel marzo 1990, dopo la schiacciante vittoria dei suoi candidati locali, Vytautas Landbergis viene eletto alla testa del Soviet Supremo della Lituania, che proclama immediatamente il ristabilimento dell’indipendenza del paese, dichiarando illegale l’annessione sovietica del 1940. Questa decisione apre una notevole crisi fra Vilnius e Mosca, che decide il blocco economico della Lituania.
L’Estonia e la Lettonia seguono le orme della Lituania, ma ad un ritmo più prudente. Dopo aver successivamente ristabilito la bandiera estone della prima indipendenza del 1918, il Soviet Supremo estone conferisce alla lingua estone lo statuto di lingua ufficiale, successivamente allinea il suo fuso orario con quello della Finlandia ed, alla fine del 1989, proclama la sovranità della nazione. Inoltre, nel marzo 1990, annuncia l’apertura di un “periodo di transizione verso l’indipendenza”. In Lettonia, dove la rilevante presenza della comunità russofona si raggruppa intorno ad un Interfront, ostile a qualsiasi secessione, la marcia verso la proclamazione dell’indipendenza risulterà un po’ più lenta.. Nel maggio 1990, il Soviet Supremo della Lettonia, proclama, a sua volta, l’apertura di un “periodo di transizione verso l’indipendenza”.

Tensioni nel Caucaso
Nelle repubbliche sovietiche del Caucaso (Armenia, Georgia ed Azerbaigian), il verificarsi di aspirazioni nazionali risulta altrettanto precoce che nei paesi baltici, ma si rileva decisamente molto più doloroso e caotico, a causa della presenza di forti tensioni intercomunitarie. Queste esplodono in Armenia, quando, nel febbraio 1988, le autorità dell’Alto Karabak votano l’annessione di questa regione autonoma all’Armenia. Di fatto, quest’area risulta abitata per l’80% da Armeni che Stalin aveva assegnato all’Azerbaigian. Questo voto viene immediatamente sostenuto da immense manifestazioni a Erevan la capitale armena. Una settimana più tardi, il 27 ed il 28 febbraio 1988, la città di Sumgait, non lontana da Baku, capitale dell’Azerbaigian, dove risiede una importante comunità armena, si trasforma nel teatro di un terribile pogrom anti armeno, con centinaia di vittime.
Questi drammatici eventi, coniugati con l’inazione di Mosca, spingono gli Armeni ad organizzarsi per mezzo di “collettivi”, come il “Comitato Karabak”. Presieduto da Levon Ter Petrossian (1945 -), questo comitato riesce a cristallizzare le aspirazioni alla democrazia ed all’indipendenza. Alla stessa stregua dei paesi baltici, il Fronte popolare armeno, che raggruppa una miriade di comitati e gruppi politici, vince, nel marzo 1989, le elezioni al Congresso dei Deputati del Popolo dell’URSS, quindi, un anno più tardi, vince anche le elezioni locali. Il nuovo Soviet Supremo d’Armenia adotta immediatamente i simboli della prima (effimera) indipendenza del 1918-20: bandiera, inno nazionale e ritorno ai toponimi pre sovietici. Esso proclama il primato delle leggi armene su quelle federali, decisione che equivale ad una dichiarazione di sovranità.
In Georgia, considerata da tempo come la repubblica del Caucaso più “frondista” nei confronti di Mosca, le tensioni intercomunitarie fra Georgiani ed Abkhazi, duramente represse dalle truppe speciali sovietiche degli Interni nell’aprile 1989, stimolano in questo caso la crescita del movimento nazionalista georgiano. Quest’ultimo viene rapidamente controllato da un discusso dissidente, Zviad Gamsakhourdia (1939-1993), criticato per le sue precedenti compromissioni con il KGB. Questo personaggio, con tendenze populiste, riesce a federare intorno a sé un blocco nazionalista (Tavola Rotonda Georgia libera), stigmatizzando le minoranze abkhaze ed ossete, accusate di “minacciare l’equilibrio etno-demografico” della Georgia. Il blocco vince le elezioni locali del 1990 e proclama la “sovranità” della Georgia, “prima tappa verso l’indipendenza”.
Di fronte alle frizioni con l’Armenia, il Partito Comunista Azero riesce, durante il periodo della Perestroika, a mantenere il controllo della situazione e ad emarginare movimenti nazionalisti d’opposizione, presentandosi come il miglior bastione contro la “minaccia armena”. Tuttavia, sarà proprio a Baku che avrà luogo l’intervento più sanguinoso delle truppe federali sovietiche di questi anni: dopo nuovi progroms anti armeni (13-14 gennaio 1990), l’esercito federale interviene nella capitale azera per ristabilire l’ordine, con un bilancio di 170 morti e 300 feriti.
Alla fine del 1990, il bilancio nel Caucaso risulta molto variegato e complesso, a causa delle tante tensioni interne nel seno delle repubbliche ed a causa del conflitto armeno-azero.

Asia centrale ed Ukraina: i partiti comunisti locali gestiscono agevolmente la situazione
Le repubbliche mussulmane dell’Asia centrale, considerate da molti osservatori occidentali come le più suscettibili nel fare “saltare l’impero” (1), a causa della loro “demografia galoppante”, risultano, alla prova dei fatti, le meno pronte ad emanciparsi. Queste repubbliche, creazione artificiale dell’epoca staliniana, sono state disegnate senza tenere pienamente e debitamente in conto le realtà etniche o geografiche. Nessuna repubblica risulta omogenea etnicamente (proprio quello che voleva Stalin): il Kazakhistan è popolato per metà da discendenti dei coloni slavi, russi ed Ukraini ed anche di discendenti di 1 milione di cittadini sovietici di origine tedesca, deportati nel Kazakhistan sotto Stalin; l’Uzbekistan conta al suo interno importanti minoranze tagike e kirghize; il Kirghizistan ospita minoranze uzbeke. Qui, come nel Caucaso, le tensioni intercomunitarie si risvegliano col favore della Perestroika. Diversi incidenti scoppiano a Samarcanda, fra Uzbeki e Tagichi, ad Och, fra Uzbeki e Kirghizi. Tuttavia, globalmente, la nomenclatura comunista dell’Asia centrale riesce a regolare i conflitti ed a mantenere saldamente le redini del potere. Sia alle elezioni del marzo 1989 (indette per designare i deputati del Congresso del Popolo dell’URSS), sia a quelle del marzo 1990 (elezioni locali), i rappresentanti dei partiti comunisti ottengono una larga maggioranza.
L’apparato sovietico resiste, allo stesso modo, anche ai cambiamenti, fino alla fine del 1989, anche in Ukraina, di fronte al Roukh (Movimento Democratico Ukraino), costituito tardivamente per iniziativa di vecchi dissidenti (Sergej Vasilievich Lukianenko, 1968- ; Vyacheslav Maximovich Tchornovil, 1937-1999; Ivan Fedorovich Dratch, 1936-2018), ai quali si associano membri dei movimenti di difesa della lingua ukraina e di associazioni ecologiche, particolarmente attive da dopo la catastrofe nucleare di Tchernobyl, nell’aprile 1986. Questo evento impone una riflessione sulle responsabilità del potere centrale e sulla posizione dell’Ukraina - la seconda repubblica sovietica per popolazione - nell’ambito dell’URSS: ospitando la metà dei reattori nucleari del paese l’Ukraina è destinata, dopo essere stato il “granaio dell’URSS” super sfruttato, a diventare lo “scarico degli scarti nucleari” dell’URSS ?
Ben più efficace dell’attivismo di Roukh, è stato il grande sciopero dei minatori del Donbass nell’estate del 1989, che fa piegare la resistenza della direzione del PC ukraino, diretto da ben 15 anni da Volodymyr Vasyliovich Shcherbitski (1918-1990), rimpiazzato poi dalla fine del 1989 da Leonid Makarovych Kravtchuk (1934 -). Quest’ultimo gioca abilmente la carta nazionale ukraina, per non farsi sopravanzare dal Roukh. A seguito delle elezioni locali del marzo 1990, favorevoli ai comunisti, Kravtchouk viene eletto alla guida del Soviet Supremo dell’Ukraina.
“Uomo del serraglio”, Leonid Kravtchuk ha allacciato, da molto tempo, legami stretti con Boris Eltsin, la figura rampante del partito a Mosca. Alla testa delle due principali repubbliche sovietiche, questi due uomini giocheranno un ruolo decisivo nella crisi finale dell’URSS.

Lo scontro Eltsin-Gorbacev
Alto responsabile del Partito (primo segretario del partito comunista della regione di Sverdlovsk dal 1978 al 1985), Boris Eltsin viene promosso da Mikhail Gorbacev nel dicembre 1985, alla guida della più importante organizzazione regionale del PC, quella di Mosca. Egli vi si impone immediatamente come fautore delle riforme. Stimando che queste avanzano troppo lentamente, egli comincia a criticare aspramente lo stesso Gorbacev per la sua “mancanza di audacia”, in occasione della riunione del Comitato Centrale, convocata in occasione del LXX anniversario della rivoluzione d’ottobre. Dimissionato dalle sue funzioni dal PC, Boris Eltsin viene eletto trionfalmente, con il 90% dei suffragi, deputato di Mosca alle elezioni del Congresso del Popolo nel marzo 1989, prime elezioni libere in URSS, con la scelta su candidature multiple. Con ben 300 deputati che desiderano accelerare le riforme, Boris Eltsin crea un “gruppo interregionale”, al quale aderiscono figure importanti della dissidenza come Andrej Sakharov (1921-1989), quindi, in vista delle elezioni locali del marzo 1990, crea il “blocco Russia democratica”, che vince le elezioni nelle più importanti città della Russia, fra cui Mosca e Stalingrado.
Il 29 maggio 1990 Boris Eltsin viene eletto, al secondo scrutinio, Presidente della Federazione della Russia dai deputati del Consiglio del Popolo della Russia. Due settimane più tardi, il 12 giugno 1990, egli presenta a Mikhail Gorbacev, eletto qualche mese prima Presidente dell’URSS, un documento veramente “rivoluzionario”, che giocherà un ruolo capitale nella implosione dell’URSS: la “dichiarazione di sovranità” della Russia. Per la prima volta, si affrontano a Mosca due poteri, Mikhail Gorbacev, Presidente dell’URSS, sempre membro del PCUS e Boris Eltsin, Presidente della Russia, che lascia, con fragore, il PCUS, in occasione del suo XVIII ed ultimo Congresso, nel luglio 1990.
L’ultimo anno di esistenza dell’URSS viene marcato dal conflitto crescente fra questi due uomini. Le loro dispute si basano inizialmente sul piano da adottare per le riforme economiche: Boris Eltsin propone un passaggio risoluto all’economia di mercato (il Piano dei 500 giorni); mentre Gorbacev desidera gestire una lunga transizione dall’economia statale all’economia di mercato. Il loro secondo disaccordo riguarda il progetto di un nuovo Trattato d’Unione. Il 23 novembre 1990 viene presentato un testo alle repubbliche, che partecipano tutte alle consultazioni, meno quelle baltiche e la Georgia. Se questo documento accorda nuovi diritti alle repubbliche e se scompare ogni riferimento al socialismo (L’Unione delle Repubbliche Sovietiche sostituisce la vecchia URSS), le prerogative federali rimangono molto forti. Ma, nei fatti, questo testo risulta già caduco: il 20 novembre 1990 Boris Eltsin firma con Kravtvhuck un trattato bilaterale, attraverso il quale la Russia e l’Ukraina riconoscono mutualmente la loro sovranità e si impegnano a cooperare economicamente “sulla base di uguaglianza e reciproco vantaggio … … senza passare per il centro (federazione)”. Due giorni più tardi viene siglato un trattato similare fra la Russia ed il Kazakhistan. “Questi accordi - dichiara Eltsin - debbono costituire un modello ed una svolta intorno alla quale si organizzerà la nuova Unione”.
Queste iniziative vengono giustamente, considerate da Gorbacev come una nuova minaccia alla sua autorità. Egli decide, a quel punto, di fornire alcuni pegni al campo conservatore, guidato dal Ministro della Difesa, maresciallo Dimitri Timofeevic Jazov (1924-2020) e degli Interni Vladimir Aleksandrovic Kriuckov (1924-2007), decisi a bloccare la disgregazione dell’URSS. Il 13 febbraio 1991 le truppe speciali del Ministero degli Interni sovietico prendono d’assalto il Parlamento e la televisione di Vilnius per tentare di parare il processo di indipendenza, che aveva avuto luogo dieci mesi prima. Boris Eltsin condanna fermamente il ricorso alla forza e gli eventi di Vilnius contribuiscono ad accelerare il movimento verso l’indipendenza nelle altre due repubbliche baltiche che, nel marzo 1991, organizzano un referendum i cui risultati sono senza appello: 78% dei cittadini votano per l‘indipendenza in Estonia; il 73% in Lettonia. A sua volta, la Georgia si dichiara indipendente qualche settimana più tardi.

La vittoria di Boris Eltsin
Nello scontro al vertice fra i due uomini, Mikhail Gorbacev segna, nondimeno, un ultimo punto: in occasione di un referendum organizzato nel marzo 1991, in 9 delle 15 repubbliche che non hanno ancora pronunciato la secessione, viene approvato, con il 77% medio dei suffragi (71,3% in Russia; 98% nel Turkmenistan), il progetto di nuovo Trattato d’Unione. I Sovietici, nella loro maggioranza rimangono ancora legati alla costruzione federale e non desiderano la scomparsa dell’URSS. Tuttavia, questo referendum aggiunge altra confusione alla già ampia confusione istituzionale. In effetti, ogni repubblica lo ha organizzato alla sua maniera, aggiungendo quasi sempre una domanda di suo interesse, senza alcun rapporto alla questione dei legami federali: il presidente di tale repubblica sarebbe eletto a suffragio universale, ma con quali attribuzioni ?, quali sarebbero le attribuzioni del Parlamento repubblicano ? e così via !!!
Con grande abilità, Boris Eltsin accetta di impegnarsi in una specie di “tregua” con Mikhail Gorbacev, accettando di partecipare con i rappresentanti delle altre repubbliche a negoziati sul Trattato d’Unione. Le discussioni si impantanano rapidamente, i principali protagonisti non riescono a mettersi d’accordo nemmeno sul termine di “federazione” o di “confederazione”. Dopo tre mesi di discussioni sempre più confuse, Eltsin decide, a quel punto, di accelerare il processo di disintegrazione dell’Unione e quello verso l’indipendenza della Russia. Il 12 giugno 1991 egli si fa eleggere, a suffragio universale ed al primo turno, con il 57% dei voti, Presidente della Russia. In tal modo, di fronte a Mikhail Gorbacev eletto Presidente dell’URSS, a suffragio indiretto un anno prima, egli acquisisce una legittimità superiore.
Inquieti di fronte a questo sviluppo che giudicano “populista”, rivoltati dalla strada intrapresa da Eltsin verso l’economia di mercato, gli elementi più conservatori fomentano, maldestramente, un colpo di stato, il 19 ed il 21 agosto 1991, che fallisce penosamente di fronte alla risoluta resistenza di Eltsin, sostenuto dalla popolazione di Mosca e di Leningrado.
Il fallimento del putsch segna la vittoria del presidente eletto della Russia sul suo rivale, che ha assistito, impotente agli eventi, dal suo luogo di villeggiatura sul Mar Nero. Mikhail Gorbacev dà le dimissioni dalle sue funzioni di Segretario Generale del PCUS; Boris Eltsin sospende tutte le attività del PC. Il colpo di grazia viene poi assestato da Leonid Kravtchuk: il parlamento ukraino proclama l’indipendenza dell’Ukraina, ratificata per referendum il 1° dicembre 1991 (con il 90% di SI).
Una settimana più tardi Boris Eltsin, Leonid Kravtchuk e Stanislav Kuscevic (1934 -) della Bielorussia, riuniti a Belovej (sulla frontiera della Bielorussia con la Polonia), adottano un documento nel quale si afferma che “l’URSS cessa la sua esistenza, in quanto soggetto di diritto internazionale e realtà geopolitica”. Viene deciso di creare al suo posto una Comunità di Stati Indipendenti (CEI) “aperta a tutti gli Stati dell’ex URSS”. Il 21 dicembre seguente, 11 delle 15 ex repubbliche sovietiche (ad eccezione quindi dei Paesi baltici e della Georgia) firmano ad Alma Ata, dove Gorbacev non viene invitato, il Trattato fondante della CSI, una associazione molto lasca, che lascia a ciascuno dei suoi membri un grande spazio di decisione.
Il 23 dicembre 1991 Gorbacev e Boris Eltsin si incontrano per mettere a punto la procedura che segna la fine dell’URSS e l’uscita di scena del suo presidente. Il 25 dicembre alle ore 19.00, Gorbacev legge alla televisione un breve discorso d’addio. Subito dopo, la bandiera rossa viene ammainata dalla torre del Kremlino ed issato al suo posto il tricolore russo. L’anno 1991 entra, in tal modo, nella storia in maniera incredibilmente pacifica, come il termine di una esperienza iniziata 74 anni prima, nell’ottobre 1917, nella violenza rivoluzionaria e guerriera.

NOTA
(1) Questa tesi viene sviluppata, in particolare da Henri Carriere d’Encausse nel importante lavoro: L’Impero esploso, edito nel 1978 da Flammarion, Parigi;

 

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